Inizialmente, il Green Deal europeo era stato accolto con entusiasmo non solo dalle istituzioni, ma anche da ampie fasce della cittadinanza europea. Il progetto evocava una nuova idea di Europa: sostenibile, solidale, visionaria. Tuttavia, a cinque anni dalla sua presentazione, qualcosa sembra essersi incrinato. Le piazze non sono più solo quelle dell’attivismo ambientalista a favore della transizione, ma anche quelle di lavoratori preoccupati, agricoltori in rivolta, imprese smarrite e movimenti politici euroscettici che vedono nel Green Deal una minaccia più che una speranza. Questo malcontento si è manifestato in modo evidente in Italia, dove il 15 marzo 2025, a Roma, decine di sigle ambientaliste — tra cui WWF, Legambiente, Slow Food, Greenpeace, ASviS — sono scese in piazza con lo slogan “Europa garanzia green”. La manifestazione, pur animata da spirito pro-europeo, ha denunciato i segnali di svuotamento del Green Deal, in particolare attraverso la diluizione dei target climatici per l’industria; le concessioni sul regolamento auto; il rallentamento dell’attuazione della finanza sostenibile (“La Repubblica”, 2025). Ciò che preoccupa le ONG e molti cittadini è la percezione di una transizione condizionata dagli interessi industriali, poco attenta ai diritti delle persone e soggetta a continui compromessi politici. Il rischio, in questo scenario, è duplice: da un lato, si rischia l’erosione della legittimità democratica del progetto europeo; dall’altro, si genera frustrazione tra gli attori più impegnati nella sostenibilità, che vedono traditi i propri sforzi. Il malcontento non è confinato al mondo ambientalista. In Francia e Germania, nei Paesi Bassi, in Polonia e in Italia, si sono moltiplicate le proteste dei sindacati industriali, degli agricoltori e dei trasportatori, che accusano Bruxelles di voler imporre un modello di transizione “dall’alto”, senza considerare gli impatti reali sulle economie locali. Le critiche si estendono anche all’assenza di un piano europeo per il lavoro verde: se è vero che il Green Deal promette la creazione di milioni di posti di lavoro sostenibili, mancano però strategie chiare per la riqualificazione dei lavoratori dei settori in crisi, creando una percezione diffusa di insicurezza occupazionale. In Italia, queste tensioni si intrecciano con fragilità strutturali del mercato del lavoro e del sistema produttivo. L’assenza di un piano nazionale coerente sulla riconversione industriale, la frammentazione degli incentivi e la difficoltà di accesso al credito per le PMI alimentano una sensazione di esclusione, in particolare nelle regioni meridionali e nelle aree industriali in declino. A ciò si aggiunge la difficoltà, da parte delle istituzioni, di comunicare con efficacia il senso della transizione. L’inflazione green, l’uso ambiguo del termine “sostenibilità” e la sovrapposizione di acronimi (ETS, CSRD, CBAM) hanno creato confusione nel dibattito pubblico, rendendo il Green Deal percepito come un insieme di norme tecniche, piuttosto che come un progetto politico con benefici tangibili per la vita quotidiana dei cittadini. Il rischio è che questo scollamento tra ambizione normativa e percezione sociale alimenti reazioni di rigetto, sfruttate da forze politiche populiste o negazioniste, che accusano l’UE di voler “imporre l’ecologismo dall’alto” a scapito del benessere delle persone. In diversi Stati membri, si osserva un crescente utilizzo del Green Deal come bersaglio retorico nelle campagne elettorali, con narrazioni che mettono in opposizione “ambiente” e “lavoro”, “Europa” e “territori”, “transizione” e “giustizia”. Il Green Deal ha quindi bisogno non solo di fondi e norme, ma anche di narrazioni condivise, processi partecipativi e leadership inclusive. Senza consenso sociale, anche il miglior disegno normativo rischia di restare lettera morta. Senza ascolto dei cittadini, la transizione ecologica può trasformarsi da opportunità storica a crisi politica.
Nina Celli, 28 marzo 2025