Il Green Deal europeo ha un impatto anche sulla giustizia sociale. La transizione ecologica non è solo una questione di efficienza energetica o innovazione tecnologica, ma anche di equità nell’accesso alle opportunità, di diritti delle comunità locali e di partecipazione democratica ai processi decisionali. Ed è proprio in questo ambito che il Green Deal ha compiuto uno dei suoi passi più significativi, ponendo le basi per una nuova alleanza tra politiche ambientali e coesione sociale. Già nel suo impianto originario, la Commissione Europea ha incluso strumenti esplicitamente dedicati a garantire che la transizione verde non lasciasse indietro nessuno. Il più importante tra questi è il Just Transition Mechanism, un pacchetto da 100 miliardi di euro pensato per supportare le regioni e i lavoratori più colpiti dal passaggio a un’economia a basse emissioni. Il meccanismo include il Just Transition Fund, per investimenti in infrastrutture, riqualificazione professionale e inclusione sociale; la piattaforma per la transizione giusta, che offre assistenza tecnica alle amministrazioni locali; una linea di credito BEI per il clima e la coesione sociale, dedicata a progetti con forte impatto territoriale. In Italia, il concetto di “transizione giusta” ha iniziato a radicarsi in territori storicamente segnati da monoculture industriali ad alta intensità ambientale. Aree come il Sulcis-Iglesiente in Sardegna, il distretto dell’Ilva a Taranto o le zone minerarie dismesse in Toscana sono state inserite nei piani nazionali di coesione e supporto, con progetti che integrano rigenerazione urbana, formazione tecnica e riconversione ecologica delle filiere produttive. Ma il ruolo della società civile è stato altrettanto determinante. A marzo 2025, in vista del Consiglio europeo, oltre 40 associazioni e movimenti italiani hanno aderito all’iniziativa “Europa garanzia green”, scendendo in piazza per chiedere che il Green Deal non venga svuotato nei suoi contenuti sociali e ambientali. Tra i promotori vi erano WWF, Legambiente, Greenpeace, Slow Food, ASviS, a testimonianza di un’alleanza ampia e trasversale tra ambientalismo e giustizia sociale (“La Repubblica”, 2025). Le richieste non riguardavano solo la tutela ambientale, ma anche l’equità intergenerazionale, il diritto alla casa e all’energia, la protezione dei territori più vulnerabili e una governance europea più trasparente e partecipativa. Il Green Deal, dunque, viene percepito come una piattaforma politica ampia, capace di tenere insieme ambiente, lavoro, salute e cittadinanza. Anche sul fronte della finanza, si è aperto un nuovo spazio per l’inclusione sociale: le direttive sulla tassonomia verde e la rendicontazione ESG, pur pensate per le imprese, stimolano le banche e gli investitori istituzionali a valutare anche l’impatto sociale dei progetti. Alcune regioni italiane, come Emilia-Romagna e Toscana, stanno sperimentando fondi territoriali verdi con criteri ispirati alla sostenibilità ambientale e all’equità sociale, destinati a finanziare imprese a impatto positivo e cooperative energetiche locali. In un’Europa che rischia di dividersi tra innovatori e ritardatari, tra grandi imprese globalizzate e piccole economie territoriali, tra cittadini entusiasti e altri disillusi, la giustizia climatica è il collante che può trasformare la sfida ecologica in un’opportunità politica condivisa. E il Green Deal può esserne lo strumento più potente, a patto che resti fedele alla sua promessa di non lasciare nessuno indietro.
Nina Celli, 28 marzo 2025