Uno degli assunti fondamentali del Green Deal europeo è che la transizione ecologica, per essere efficace, debba essere globale. L’Unione Europea, pur rappresentando solo circa l’8% delle emissioni mondiali, è oggi il blocco economico che impone a se stesso i criteri ambientali e normativi più stringenti, spesso senza garanzie che gli altri attori globali facciano lo stesso. Questo approccio, se non accompagnato da adeguati strumenti di protezione e coordinamento internazionale, rischia di esporre l’industria europea a una concorrenza sleale, creando un effetto boomerang economico e geopolitico. Secondo uno studio di Engie citato da “La Repubblica” nel marzo 2025, per rispettare l’obiettivo net zero al 2045 l’Unione dovrà ridurre le emissioni di circa il 4% all’anno fino al 2050. Oggi siamo fermi al 2%, e il ritmo richiesto è il doppio. Ma mentre l’Europa inasprisce le sue normative, gli Stati Uniti rallentano, la Cina accelera solo quando conviene e molti Paesi emergenti mantengono profili normativi estremamente deboli (“La Repubblica”, 2025). L’Inflation Reduction Act americano, per esempio, prevede massicci incentivi alla produzione interna (oltre 400 miliardi di dollari), senza imporre requisiti ambientali vincolanti equivalenti a quelli europei. In Cina, il governo investe pesantemente in energie rinnovabili e veicoli elettrici, ma continua a subsidiare carbone e produzione a basso costo, mantenendo standard ambientali meno rigidi. Il risultato è che le imprese europee, sottoposte a regole ESG, ETS, direttive su rendicontazione e catena del valore, si trovano a competere su un piano inclinato, spesso costrette a delocalizzare, ridimensionare o chiudere. In Italia, questo squilibrio si avverte in settori chiave come l’automotive, l’acciaio, la componentistica e il fotovoltaico. La produzione nazionale di pannelli solari, ad esempio, è in forte difficoltà a causa della saturazione del mercato europeo con prodotti asiatici a basso costo. Lo stesso vale per il settore delle pompe di calore, dove aziende come Argoclima hanno ridotto la produzione per mancanza di competitività, nonostante l’elevato valore tecnologico dei loro prodotti. Il meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere (CBAM), attivo in forma preliminare dal 2023, è stato presentato come uno strumento per riequilibrare le condizioni, imponendo dazi ambientali sulle importazioni più inquinanti. Tuttavia, il CBAM non copre tutti i settori sensibili, è ancora in fase sperimentale, e rischia di essere facilmente aggirabile. Secondo Eurofer e Cefic, le associazioni europee dell’acciaio e della chimica, le misure attuali non sono sufficienti a proteggere la produzione interna né a favorire il reshoring di attività strategiche. Altro elemento critico è l’assenza di coordinamento internazionale efficace. Gli accordi sul clima siglati a Glasgow (COP26) e Sharm el-Sheikh (COP27) hanno prodotto dichiarazioni di intenti, ma pochi impegni vincolanti e ancora meno strumenti di enforcement. Nel frattempo, la Commissione europea continua a fissare obiettivi ambiziosi, ma senza coordinare politiche commerciali, industriali e fiscali. Questo rischia di creare una situazione paradossale: l’UE impone standard severi ai propri produttori, mentre importa prodotti a basso costo da Paesi che non rispettano quegli stessi standard. Il rischio strategico è evidente: perdere intere filiere produttive, ridurre l’autonomia industriale, aumentare la dipendenza economica da Paesi terzi e minare la fiducia dei cittadini europei nei confronti delle politiche ambientali. L’Italia, con la sua struttura industriale basata su PMI esportatrici e filiere tecnicamente sofisticate ma non sempre capitalizzate, è particolarmente esposta a questo squilibrio. La mancanza di una strategia europea chiara per tutelare il “Made in Europe” verde rischia di indebolire il tessuto produttivo nazionale.
Nina Celli, 28 marzo 2025