Uno degli obiettivi dichiarati del Green Deal europeo è quello di promuovere una transizione “giusta e inclusiva”, capace di coinvolgere in modo armonico tutti gli Stati membri, indipendentemente dalla loro dotazione infrastrutturale, dal livello di industrializzazione o dalla forza della loro governance ambientale. Tuttavia, l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che, nella realtà dei fatti, il Green Deal ha generato — o accentuato — forti disomogeneità tra Paesi, creando una transizione a due (o più) velocità. Uno strumento utile per misurare questa frammentazione è il nuovo European Green Deal Index, sviluppato da Magdalena Olczyk e Marta Kuc-Czarnecka (“Elsevier”, 2025). L’indice, basato su 26 indicatori distribuiti su tre dimensioni — clima, ambiente e giustizia sociale — mostra come Paesi come Svezia, Estonia, Austria e Lettonia siano all’avanguardia nella transizione, mentre altri, tra cui Italia, Grecia e Romania, mostrano ritardi strutturali significativi. Il gap non riguarda solo i risultati finali, ma anche la capacità dei singoli Stati di accedere ai fondi europei, elaborare piani nazionali coerenti, implementare le riforme richieste e dialogare efficacemente con la Commissione. In Italia, ad esempio, la programmazione della transizione energetica si è scontrata con difficoltà burocratiche, incertezza normativa e una frammentazione amministrativa che rende difficile una governance coordinata tra Stato, Regioni e Comuni. Un caso emblematico è quello del piano per le pompe di calore: la Commissione europea punta a installarne 8,6 milioni entro il 2030, ma l’Italia ha registrato un crollo della domanda nel 2024, con aziende come Argoclima che hanno dovuto ricorrere alla cassa integrazione per mancanza di commesse. Gli operatori del settore citano tra le cause la fine del Superbonus 110%, la carenza di incentivi stabili e la concorrenza asiatica a basso costo, che rende meno competitiva la produzione nazionale (“La Repubblica”, 2025). Un’altra fonte di disuguaglianza è rappresentata dalla capacità tecnica delle pubbliche amministrazioni locali. In molte regioni italiane, soprattutto del Sud, mancano figure professionali adeguate per scrivere progetti, monitorare l’impatto ambientale, gestire le procedure autorizzative, e questo compromette l’accesso a bandi europei e l’utilizzo efficace dei fondi del Green Deal e del PNRR. Secondo un’analisi del Dipartimento per la Coesione, a inizio 2025 erano ancora inutilizzati oltre 4 miliardi di euro stanziati per l’efficientamento energetico e la mobilità sostenibile nei piccoli Comuni. In parallelo, i Paesi “leader” della transizione (Germania, Francia, Paesi Bassi) hanno strutture centralizzate e strumenti finanziari capaci di co-finanziare con risorse proprie i progetti europei, sfruttando appieno la flessibilità degli aiuti di Stato concessa dalla Commissione nel 2023. Questo crea una distorsione competitiva interna all’UE, per cui le imprese e le comunità dei Paesi più forti diventano più attrattive, mentre quelle dei Paesi più lenti vengono penalizzate. A livello macroeconomico, ciò si traduce in una potenziale polarizzazione tra “centro verde” e “periferia grigia”, con effetti anche sull’integrazione politica europea. In Italia, crescono le voci critiche che denunciano l’imposizione di standard uguali per contesti disuguali, sostenendo che il Green Deal — così com’è concepito — favorisce chi ha già una base solida e penalizza chi parte in svantaggio. Il rischio più profondo, dunque, non è solo quello di una transizione lenta, ma di una transizione ingiusta, dove i benefici si concentrano nei Paesi leader e i costi ricadono su quelli più fragili. In un’Unione già segnata da divisioni economiche e culturali, questa dinamica potrebbe alimentare euroscetticismo, resistenze politiche e disaffezione dei cittadini nei confronti delle politiche ambientali.
Nina Celli, 27 marzo 2025