Il Green Deal europeo è stato concepito come una strategia di lungo periodo per affrontare il cambiamento climatico, ridurre la dipendenza energetica e rilanciare l’economia attraverso l’innovazione sostenibile. Tuttavia, la sua attuazione ha sollevato critiche crescenti da parte di settori industriali, economisti e governi nazionali preoccupati per un possibile effetto collaterale: la deindustrializzazione dell’Europa. In nome della transizione verde, molte imprese ad alta intensità energetica si sono trovate costrette a chiudere impianti storici, rilocalizzare produzioni o ridimensionare la propria operatività, con ricadute occupazionali e strategiche pesanti. Un esempio è quello della fonderia Rheinwerk di Neuss, in Germania, un tempo il più grande produttore di alluminio primario d’Europa. Nel 2023, l’azienda ha interrotto la produzione a causa dei costi energetici elevatissimi, preferendo riconvertirsi al riciclo dell’alluminio, meno energivoro ma anche meno competitivo rispetto ai produttori asiatici. La transizione ha permesso di ridurre del 95% il consumo energetico e del 90% le emissioni, ma ha comportato la perdita di competenze, posti di lavoro qualificati e autonomia industriale. E soprattutto, ha aperto una questione politica: quali settori l’Europa può permettersi di abbandonare nella transizione ecologica? (“Politico”, 2025). Secondo Mario Draghi, incaricato di redigere un rapporto sulla competitività europea, alcuni settori, come i pannelli solari, sono già “persi” rispetto alla Cina. Ma altri, come acciaio, alluminio, chimica, devono essere considerati “strategici” e sostenuti con politiche industriali ad hoc. Il problema è che la cornice attuale del Green Deal non offre risposte chiare, né criteri espliciti per selezionare quali comparti proteggere e quali accompagnare al declino. In Italia, le preoccupazioni sono state espresse apertamente dal ministro delle Imprese Adolfo Urso, che ha dichiarato: “Il Green Deal, per come è stato attuato finora, ha accelerato la deindustrializzazione del continente. L’industria europea, e quella italiana in particolare, non può sostenere i costi della transizione senza un vero supporto strategico” (“La Repubblica”, 2025). Il caso dell’automotive è esemplare. L’Italia ha dovuto lottare per ottenere una revisione anticipata del regolamento UE che prevede il divieto di vendita di auto con motore termico dal 2035. Pur avendo ottenuto la possibilità di includere biocarburanti e idrogeno nel mix tecnologico, il clima di incertezza normativa e la mancanza di fondi per la riconversione hanno già portato a ritardi negli investimenti e a timori di esodo produttivo da parte delle multinazionali. Un’altra criticità riguarda l’asimmetria delle regole. L’industria europea è chiamata a rispettare standard elevatissimi in materia ambientale e sociale, mentre concorrenti cinesi e statunitensi operano con vincoli molto inferiori. L’assenza di meccanismi di protezione efficace, come dazi ambientali o incentivi compensativi, rende la posizione dell’industria europea strutturalmente svantaggiata, secondo quanto denuncia anche il settore dell’acciaio e della chimica attraverso Eurofer e Cefic. Il rischio è che, in assenza di politiche industriali coordinate, il Green Deal si trasformi in un acceleratore di dismissione produttiva, portando l’Europa a dipendere da forniture esterne per materiali, componenti e tecnologie chiave proprio mentre cerca di garantirsi autonomia strategica. A livello sociale, la deindustrializzazione colpisce in modo asimmetrico le regioni già fragili, accentuando disuguaglianze territoriali e spingendo i lavoratori meno qualificati verso settori precari o disoccupazione. Questo effetto è particolarmente evidente in alcune aree italiane, come Taranto, Terni e Porto Marghera, dove la transizione è vissuta non come opportunità, ma come minaccia alla sopravvivenza economica. Il Green Deal rischia dunque di indebolire la base industriale europea, compromettendo la sua autonomia economica, la sua resilienza strategica e la coesione sociale. Una transizione senza industria è possibile? Sì, ma non per un’Europa che voglia restare competitiva, sovrana e inclusiva nel XXI secolo.
Nina Celli, 27 marzo 2025