Il documento Linee guida per il linguaggio inclusivo rispetto al genere, pubblicato dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), si propone come un manuale pratico e concettuale per affrontare le disuguaglianze di genere attraverso il linguaggio. Le linee guida sono un documento in evoluzione, pensato per adattarsi alle nuove esigenze della società e della lingua. Si tratta di uno strumento nato dall'esigenza di promuovere l'inclusività linguistica, superando l'uso tradizionale e discriminatorio del maschile sovraesteso, e di fornire indicazioni utili per rendere la comunicazione più equa e rispettosa delle differenze.
La visione inclusiva del linguaggio
Il concetto di inclusività, alla base delle linee guida, si riferisce alla coesistenza e alla valorizzazione delle differenze di genere, etnia, disabilità, età, orientamento religioso, politico e sessuale. L'uso di un linguaggio attento e rispettoso viene identificato come uno strumento per contrastare stereotipi e pregiudizi, garantendo a ogni individuo dignità e pari opportunità. Nel documento si evidenzia come il linguaggio non sia un semplice riflesso della realtà, ma un elemento che contribuisce a costruire e rafforzare stereotipi culturali. Secondo l'ipotesi di Sapir-Whorf e studi successivi, la lingua condiziona il modo in cui percepiamo il mondo e può fungere da motore di cambiamento per sostenere una cultura più equa. Questo è particolarmente evidente nella questione del maschile sovraesteso, ovvero l'uso della forma grammaticale maschile per indicare gruppi misti, una prassi che il CNR giudica scorretto sia dal punto di vista grammaticale che culturale.
Strategie linguistiche
Per superare le disuguaglianze create dall'uso del maschile sovraesteso, le linee guida suggeriscono diverse strategie pratiche: innanzitutto esplicitando il genere, viene consigliato l’uso dello sdoppiamento (es. "i candidati e le candidate"), sia in forma estesa che contratta (es. "i/le candidati/e"). Questa strategia rende visibili entrambi i generi, soprattutto in testi formali. Allo stesso tempo, è consigliato anche oscurare il genere, si privilegiano termini neutri e collettivi, come "persona", "staff", "corpo docenti", per evitare riferimenti esclusivi a un genere. Anche costruzioni impersonali e passive (es. "La domanda deve essere presentata") possono aiutare a eliminare riferimenti di genere. Si pone l’attenzione anche sull'adozione di termini femminili per ruoli e professioni, sottolineando che la presunta cacofonia di termini come "rettrice" o "ingegnera" è il risultato di una scarsa abitudine, non di un'effettiva difficoltà linguistica. Si riconosce l'importanza di abituare la società all'uso di queste forme per dare visibilità alle donne in ruoli apicali. Infine, viene ribadita l’importanza della sperimentazione con simboli inclusivi: simboli come lo schwa (ə) e l’asterisco (*) sono indicati come strumenti utili per riferirsi a identità non binarie. Tuttavia, il loro uso nelle comunicazioni istituzionali è sconsigliato a causa di difficoltà di leggibilità per persone con disabilità o disturbi di apprendimento.
Siamo le parole che usiamo
Il documento Siamo le parole che usiamo è un’opera collettiva nata dall’impegno del Comitato Unico di Garanzia dell’Università di Padova, insieme a diverse istituzioni, per affrontare il rapporto tra linguaggio e genere. Attraverso una serie di contributi multidisciplinari, il volume esplora come il linguaggio influenzi la costruzione dell’identità, rafforzi stereotipi e possa essere trasformato in uno strumento di equità e inclusione. Le autrici del volume convergono sull’idea che il linguaggio sia una leva per il cambiamento sociale. La declinazione di genere non è solo un fatto linguistico, ma un gesto politico che sancisce l’esistenza e il valore delle donne in ogni ambito della società.
Le parole come costruttori di realtà
La premessa del volume è che il linguaggio non è un semplice mezzo di comunicazione, ma un elemento che plasma la realtà sociale. Attraverso le parole si consolidano stereotipi e disuguaglianze, ma è anche possibile mettere in discussione norme discriminatorie. Citando Alma Sabatini, pioniera del linguaggio non sessista: “Ciò che non si dice, non esiste”. Questo principio guida l’intera riflessione: rendere visibile la presenza femminile attraverso il linguaggio è un atto di giustizia sociale.
La lingua come strumento di inclusione
Il Centro Interdipartimentale di Ricerca e Studi di Genere (CIRSG) dell’Università di Padova sostiene che il linguaggio debba evolversi insieme alla società. Nicoletta Maraschio, presidente onoraria dell’Accademia della Crusca, osserva: “La femminilizzazione del linguaggio non impoverisce la lingua, ma ne arricchisce le potenzialità espressive”. L’italiano, con le sue regole grammaticali flessibili, può facilmente adattarsi per includere termini declinati al femminile come “ministra”, “avvocata”, “sindaca”, ma persistono resistenze culturali che rallentano questo cambiamento.
La Toponomastica come simbolo del divario di genere
Maria Pia Ercolini, promotrice del gruppo "Toponomastica Femminile", affronta il tema della scarsa rappresentanza femminile nella toponomastica italiana. Con dati allarmanti, evidenzia che solo l’8% delle vie italiane è intitolato a donne, spesso limitandosi a figure religiose o mitologiche. Ercolini sottolinea: “Dedicare strade a donne di scienza, politica e cultura significa riconoscere il loro contributo e offrire modelli di riferimento alle nuove generazioni”.
Il ruolo dei media
Monia Azzalini esplora come i media perpetuino stereotipi di genere. Analizzando i titoli di giornale, evidenzia la frequente invisibilità linguistica delle donne in posizioni di potere. Ad esempio, titoli come “Il ministro incinta” rivelano una resistenza ad adottare forme femminili corrette, nonostante queste siano pienamente accettate dalla grammatica italiana.
Linguaggio amministrativo e parità di genere
Cecilia Robustelli, nelle sue Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, dimostra come il linguaggio delle istituzioni possa promuovere una cultura di parità. La sua analisi evidenzia che l’uso del maschile generico è spesso percepito come neutro, ma di fatto cancella la presenza delle donne. Robustelli propone un cambiamento sistematico, osservando che: “Un linguaggio che include le donne non è solo una questione di precisione linguistica, ma di rappresentazione della realtà”.
Le contraddizioni del linguaggio di ruolo
Giuliana Giusti affronta le difficoltà linguistiche legate ai nomi di ruolo. Mentre termini come “maestra” o “segretaria” sono ampiamente utilizzati, c’è una resistenza culturale a declinare al femminile ruoli di prestigio, come “direttore” o “ministro”. Giusti sottolinea che questa ambiguità mina la costruzione di identità paritarie, specialmente per le giovani generazioni, e argomenta: “Non declinare al femminile i ruoli prestigiosi contribuisce a perpetuare l’idea che certi incarichi non siano accessibili alle donne”.
Il linguaggio visivo
Le linee guida non si limitano alla sfera linguistica, ma affrontano anche la comunicazione visiva. Le immagini e i simboli utilizzati nella comunicazione istituzionale devono riflettere la diversità e l’equilibrio di genere. Si raccomanda di evitare stereotipi visivi che associno le donne a ruoli decorativi o subordinati, promuovendo invece rappresentazioni di donne e uomini in ruoli non convenzionali o apicali. Inoltre, si suggerisce di superare il tradizionale uso di colori come il rosa per le donne e il blu per gli uomini, preferendo tonalità neutre e rappresentazioni eterogenee.
Contestualizzazione normativa
Il documento si inserisce in una cornice di politiche europee e nazionali volte a promuovere la parità di genere. In particolare, il CNR ha adottato il Gender Equality Plan, in linea con gli obiettivi dell'Unione Europea, per creare un ambiente lavorativo inclusivo e rispettoso delle differenze. Le linee guida rappresentano un tassello fondamentale in questo percorso, fornendo raccomandazioni pratiche per l'uso del linguaggio nei documenti amministrativi e nella comunicazione quotidiana.
Sfide e resistenze
Nonostante l’importanza dell’inclusività linguistica, il documento riconosce che ci sono ancora resistenze e pregiudizi culturali. Molte donne, ad esempio, preferiscono essere indicate con termini al maschile (es. "direttore" invece di "direttrice") per timore che il femminile venga percepito come meno autorevole. Tuttavia, il CNR sottolinea come il cambiamento del linguaggio sia un atto di empowerment che riflette e rafforza i progressi sociali.
Le italiane e l’italiano: quattro studi su lingua e genereLe italiane e l’italiano: quattro studi su lingua e genere, curato da Stefano Ondelli, affronta il complesso rapporto tra genere e lingua italiana. Attraverso contributi interdisciplinari, il volume analizza come il linguaggio rifletta, perpetui e a volte amplifichi stereotipi di genere, concentrandosi su quattro tematiche principali. Stefano Ondelli apre il libro esplorando le tensioni che circondano il linguaggio inclusivo. Cita la linguista Alma Sabatini, autrice del rivoluzionario volume Il sessismo nella lingua italiana (1987), che già allora sottolineava come il linguaggio contribuisca alla costruzione sociale dei generi. Ondelli osserva: “L’applicazione di pratiche linguistiche rispettose del genere si scontra con reazioni che vanno dal sorriso di sufficienza al rifiuto esplicito, spesso motivato da un presunto purismo grammaticale”. Ondelli mette in evidenza come l’italiano, rispetto ad altre lingue come l’inglese, sia più resistente al cambiamento per motivi storici e culturali, legati anche al peso del purismo linguistico e alla percezione delle regole come inviolabili. Nel volume viene evidenziato come il linguaggio non sia neutro ma rifletta le dinamiche di potere e gli stereotipi culturali di una società. La curata selezione di contributi offre un quadro completo del sessismo linguistico e delle sue implicazioni, proponendo al contempo strategie per promuovere una maggiore inclusività. “Il cambiamento linguistico deve partire dal basso, ma richiede un impegno congiunto di istituzioni, educatori e parlanti,” conclude Ondelli. Questa raccolta rappresenta un’importante risorsa per comprendere e affrontare le sfide legate al linguaggio di genere.
Il sessismo nei libri di testo
Mariagrazia Pizzolato analizza i manuali scolastici delle scuole primarie, evidenziando l’asimmetria nella rappresentazione di uomini e donne. Nei testi analizzati, gli uomini sono spesso descritti come scienziati, sportivi e leader, mentre le donne sono ritratte come mamme o casalinghe. Pizzolato rileva: “Il permanere di stereotipi sessisti nei testi scolastici indica quanta strada ci sia ancora da fare perché le raccomandazioni di Alma Sabatini trovino applicazione”. Esempi concreti dimostrano questa tendenza: in un brano, una famiglia affronta una nevicata: il padre ripara la macchina, mentre la madre cucina e prepara torte. In un esercizio grammaticale, frasi come “il papà è un dirigente” sono contrapposte a “la mamma cuce”. Pizzolato sottolinea che questa disparità influenza profondamente la percezione del ruolo di genere nei bambini, poiché i libri scolastici sono uno dei primi strumenti di socializzazione.
Il maschile generico e la visibilità femminile
Chiara Cettolin approfondisce il cosiddetto “maschile generico”, cioè l’uso del maschile per indicare un gruppo misto. Attraverso questionari rivolti a bambini e adulti, dimostra come il maschile generico “invisibilizzi” le donne. Per esempio, quando si chiede di nominare “tre campioni dello sport”, la maggior parte delle risposte include solo uomini. Cettolin afferma: “Il maschile generico non è inclusivo, ma nasconde il contributo femminile, perpetuando una visione androcentrica della società”. L’autrice propone strategie linguistiche come lo “sdoppiamento” (es. “campioni e campionesse”), che, pur incontrando resistenze, si dimostrano più efficaci nel garantire equità.
L’accettazione delle forme femminili
Giorgia Castenetto esamina la percezione di termini femminili innovativi come “ministra”, “sindaca” e “assessora”. Attraverso sondaggi, Castenetto evidenzia che, sebbene molti italiani trovino queste forme “brutte” o “innaturali”, le nuove generazioni sono più inclini ad accettarle. La studiosa nota che le resistenze derivano spesso da abitudini linguistiche consolidate: “La lingua italiana, con la sua ricca morfologia, offre strumenti per indicare chiaramente il genere, ma l’opposizione alle innovazioni è principalmente culturale”. Un esempio emblematico è il dibattito su “avvocatessa” rispetto a “avvocata”, dove la prima forma viene percepita come obsoleta e stereotipata, mentre la seconda è vista come una novità, ma ancora poco diffusa.
Francesca D'Agnese, 20 marzo 2025