Lo spazio digitale incrementa la partecipazione democratica

Crisi della democrazia e democrazia digitale

L'allora presidente della Corte Costituzionale, professore Franco Gallo, nella lectio magistralis Democrazia 2.0. La Costituzione, i cittadini e la partecipazione, del 15 settembre 2013, nell'esaminare il declino del modello italiano di democrazia rappresentativa, si domanda se un'ipotetica iniezione di democrazia diretta, basata su referendum propositivi e su comunicazioni correttamente diffuse via Internet, possa favorire maggiore partecipazione all’attuale sistema, o addirittura – come sostengono alcuni – possa portare al suo definitivo superamento. La democrazia rappresentativa prevede che il popolo possa assumere, attraverso l'elezione – e dunque la mediazione – di rappresentanti, le decisioni pubbliche. Come ricorda il giurista, “una definizione così ristretta in termini di democrazia elettorale ha offerto, in un primo momento, argomenti per dimostrare la scarsa idoneità di un tale modello a rispondere alle istanze partecipative. Si è rilevato, infatti, che fondare l’essenza della democrazia solo sulle elezioni avrebbe l’effetto di ridurre l’esercizio della sovranità dei cittadini alla sola manifestazione di voto, e cioè al compimento di un atto della durata di pochi minuti, reiterato a distanza di anni”. Inteso così, tale sistema tende a essere solo una democrazia formale, “una sorta di oligarchia democratica svuotata dei contenuti sostanziali che le dovrebbero dare significato: la reale partecipazione politica, l’accesso ai diritti di cittadinanza e la tutela dei diritti fondamentali e delle libertà individuali” (Ibidem, p.2). Questo modello, in Italia, si è andato dissolvendo negli anni Novanta e politologi e storici lo attribuiscono alla crisi dei partiti di massa travolti da un’ondata di sfiducia provocata anche da estesi fenomeni corruttivi. “In altri termini, i partiti si allontanano dalla società e, nel contempo, si convertono in comitati elettorali al servizio di un capo, il quale sviluppa il rapporto con i cittadini e la società servendosi di sofisticate tecniche comunicative” (Ibidem, p.3). Questo, tuttavia, per Gallo, non significa che la partecipazione politica sia tramontata con il declino dei partiti di massa, ma che si è ridotta e nello stesso tempo è stata sostituita da altre forme di partecipazione. Se da un lato, infatti, si registrano alti livelli di astensionismo elettorale, dall'altro emergono nuove esperienze di governance e sviluppo di movimenti di protesta e di rivendicazione (“no TAV”, il Popolo Viola, “Se non ora quando?”). “Soprattutto [...] i nuovi media, la rete, Internet, il web, i social network come Facebook e Twitter, i blog canals hanno sottratto il controllo e la gestione della comunicazione, anche politica, ai centri tradizionali di potere, favorendo nuove forme di partecipazione e, comunque, innovando quelle tradizionali. Potenzialmente, questi nuovi media e la tecnologia della rete sono in grado di modificare radicalmente gli attuali strumenti di democrazia rappresentativa, aprendo, almeno teoricamente, la via a forme di democrazia diretta deliberativa piena: quella che, nel gergo degli internauti, dovrebbe costituire la Democrazia 2.0. È indubbio, infatti, che la rete si sta progressivamente imponendo come il mezzo più rapido e continuativo di consultazione, informazione e contatto tra cittadini e quindi, almeno in astratto, di maggiore partecipazione alla vita democratica” (Ibidem, p.4). Il giurista specifica, però, che la rete non sempre incoraggia la discussione pubblica e la mediazione perché, generalmente, i gruppi creati sul web prevedono partecipanti coinvolti in base a legami di affinità e ostilità, e dunque di “amici” e di “comuni nemici”, riducendo, in questo modo, la possibilità di confronto e, per contro, favorendo la tendenza a schierarsi sulla base di slogan. È dunque possibile in futuro abbandonare il modello della democrazia rappresentativa e adottare quello della democrazia diretta digitale? “La risposta – almeno a mio avviso – non può che essere negativa; a condizione, però, che il sistema politico si rinnovi e utilizzi, meglio e correttamente, lo strumento della Rete”. I partiti, infatti, secondo Gallo, devono rinnovarsi, devono aprirsi e, attraverso e insieme alla rete, concorrere “alla formazione dell’opinione pubblica e della cosiddetta cittadinanza digitale, senza essere sovrastati o sostituiti dal web. Così la democrazia rappresentativa parlamentare può trovare nuova linfa ed essere integrata e migliorata, ma non soppiantata, dalla democrazia digitale” (Ibidem, p.7). E, comunque, la sostituzione del modello non può avvenire, almeno nel breve periodo, per due ragioni: il digital divide – “il divario tecnologico fra le diverse generazioni e i diversi contesti economici e sociali” – e il rischio delle manipolazioni delle manifestazioni di volontà veicolate attraverso la rete. La democrazia digitale, dunque, per Gallo, è un bene se la rete viene vista come uno strumento che favorisce una maggiore partecipazione dei cittadini e “che colmi parzialmente la lacuna prodotta dalla crisi dei partiti e ne aiuti la ripresa; come un indispensabile veicolo del fondamentale diritto di informare e di essere informati; come un ulteriore mezzo di controllo degli elettori sugli eletti; come, infine, una moltiplicazione della capacità di iniziativa dei cittadini”. Ma perché questi possano essere dei benefici, è necessario regolamentare la rete sia a livello nazionale che internazionale.

 

Intelligenza collettiva

Uno dei contributi nel dibattito sul rapporto tra le nuove tecnologie e la partecipazione alla vita civile e civica è quello del filosofo di cultura virtuale contemporanea Pierre Lévy. “Sarebbe un errore enorme considerare la cyberdemocrazia puramente in termini di voto attraverso internet. Al contrario, rappresenta una radicale trasformazione della sfera pubblica, della maniera in cui lo Stato opera, della vita della città, e delle abitudini di comunicazione e dialogo. L'atto primario della democrazia non è la votazione ma la deliberazione, in altre parole l'esercizio dell'intelligenza collettiva nella formulazione delle leggi e nel prendere le principali decisioni politiche. [...]. Gli ostacoli – il digital divide e i temi della sicurezza o dell'affidabilità – non sono insormontabili. È perciò assolutamente possibile che nella ciberdemocrazia del futuro le elezioni, i voti e i referendum troveranno dimora nel cyberspazio, così come molte discussioni politiche che coinvolgono persone decisamente sempre più informate” (P. Lévy, Verso la cyberdemocrazia, in, Dopo la democrazia? Il potere e la sfera pubblica dell'epoca delle reti, a cura di Derrick de Kerckhove e Antonio Tursi, Apogeo, 2006, p. 13). Lévy ha dedicato molti studi all'“intelligenza collettiva” e al “cyber-spazio” (fino ad arrivare alla “cyberdemocrazia”) e ne parla, oltre che in diversi scritti, anche in una intervista riportata dal sito “mediamente.rai.it” dal titolo “L'intelligenza collettiva” (Parigi - European IT Forum, 4 settembre 1995) confermando il suo ottimismo sulle nuove prospettive che le tecnologie e tecniche di comunicazione digitale aprono. Tra le diverse potenzialità positive – a livello sociale, culturale e politico – egli vede un vero e proprio progetto di civilizzazione nell'“intelligenza collettiva”: ossia l'intelligenza, l'immaginazione, le conoscenze messe in sinergia. “Oggi – dice Lévy – se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l'una con l'altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Detto in modo assai generale, per grandi linee, è questa in fondo l'intelligenza collettiva”. Se nella comunicazione mediatica tradizionale – stampa, radio e televisione – il sistema è unidirezionale: da un centro di emissione ai ricettori (passivi, perché non c'è interattività né con la fonte emittente né fra i riceventi che sono fra loro isolati), con il cyber-spazio c'è la possibilità sia che uno emetta verso tutti, sia che uno comunichi facilmente con un altro (come con il telefono), ma anche che tutti possano comunicare con tutti. In questo modo non solo si crea un contesto comune, ma si produce anche una costruzione collettiva. Nella stessa intervista, poi, afferma: “Credo che il vero, autentico atto di comunicazione è quello che consiste nel costruire in cooperazione un universo di significati comune, nel quale ognuno si può situare. Nessuno è obbligato a condividere le idee degli altri: semplicemente si partecipa allo stesso universo di significati, allo stesso contesto. Secondo il mio modo di pensare, non si tratta affatto di arrivare a un consenso, per fare in modo che la maggioranza governi. Questa è in un certo modo la democrazia rappresentativa classica. Credo invece che ognuno può, mediante questo sistema, prendere posizione, sviluppando una argomentazione assolutamente singolare. Si potranno formare anche delle maggioranze, tante maggioranze per quanti sono i problemi. E questo farà sì che un individuo possa avere su un dato problema una certa posizione e su un altro problema un'altra posizione e non essere semplicemente incluso in una grande categoria massiccia di persone che condividono tutte le stesse idee”.

A proposito della gran quantità di informazioni presenti sulla rete, Lévy sostiene che si deve imparare a selezionare e guardare a questo flusso come “tanti punti di vista”: “Ho un mio amico che dice: stiamo vivendo il secondo diluvio. Il primo diluvio è stato di acqua, il secondo è il diluvio dell'informazione. Dunque il problema è di sapere che cosa si deve salvare, che cosa si deve mettere nell'arca, come dovremo navigare”. Il rapporto con il sapere e con la conoscenza sta cambiando. Secondo il filosofo, con il cyber-spazio, seppure sembri di avere accesso a tutte le informazioni, è vero l'esatto contrario: ossia adesso si ha la consapevolezza che non si avrà mai accesso alla totalità delle informazioni. “Voi e il piccolo gruppo a cui appartenete e con cui avete uno scambio più stretto non potrete mai sapere tutto e quindi sarete, necessariamente, obbligati a fare appello ad altri, alle conoscenze d'altri e alle loro capacità di navigazione: i messaggi che hanno più valore nel cyber-spazio sono quelli che vi aiutano a trovare dei riferimenti, a orientarvi [...]. Vediamo il Word Wide Web, che è un caso molto interessante. Se mettete un documento sul Word Wide Web, fate due cose insieme: primo, aumentate l'informazione disponibile, ma in secondo luogo, fate anche un'altra cosa: con i nessi che stabilite tra il vostro documento e l'insieme degli altri, voi offrite al navigatore che arriverà su quel documento il vostro punto di vista”.

 

Una delle potenzialità della rete, secondo i “tecno-entusiasti”, e quindi anche per Gianroberto Casaleggio – co-fondatore del Movimento 5 Stelle – è l'“intelligenza collettiva” con la quale si potranno risolvere problemi considerati senza soluzione. Egli, infatti, in un'intervista di Serena Danna, La democrazia va rifondata, (“Corriere della Sera”, 23 giugno 2013) afferma che la democrazia digitale non attenua il confronto tra posizioni divergenti e, anzi, “le discussioni e i confronti in rete sono continui attraverso i forum, le chat, i social media in una dimensione inimmaginabile prima nel mondo reale, e ciò avviene tra persone che vivono in ogni parte del pianeta”.

 

Intelligenza connettiva

Anche il sociologo Derrick de Kerckhove si occupa ampiamente nei suoi studi del rapporto fra nuove tecnologie e forme di partecipazione. Sua è la teorizzazione dell'“intelligenza connettiva” che nasce da quella “collettiva” di Lévy ed è la pratica della moltiplicazione delle intelligenze, la loro connessione come approccio e incontro sinergico dei singoli soggetti per il raggiungimento di un obiettivo.

Nel saggio Dalla democrazia alla cyberdemocrazia (in Dopo la democrazia? Il potere e la sfera pubblica dell'epoca delle reti, a cura di Derrick de Kerckhove, Antonio Tursi, Apogeo, 2006, p. 58) egli afferma che “Internet è la stampa sottoposta all'accelerazione dell'elettricità”. Il testo, sulla rete, gode di nuovi poteri di distribuzione: ubiquità, accelerazione, istantaneità, memoria globale e ipertinenza (hypertinence) dei motori di ricerca e delle connessioni. “L'esito, ancora non ben compreso, di questo plus che il digitale aggiunge al testo è quello di conferire all'individuo una sorta di 'superpotenza'. Oltre a ciò, l'individuo stesso diviene globale grazie alle tecnologie cellulari che racchiudono il mondo nella sua tasca e al tempo stesso lo rendono disponibile al mondo intero. Risulta praticamente impossibile che tali nuovi presupposti non influiscano sulla dimensione politica, favorendo l'individuo” (Ibidem, p. 58). Tuttavia, per de Kerckhove, i tempi richiesti perché si arrivi alla cyberdemocrazia e al cybercittadino, si prevedono lunghi per due ragioni: da un lato, la necessità di inventare e creare un’etica alla quale si deve uniformare il cittadino della cyberdemocrazia che ha un'identità locale e globale. Dall’altro lato, è insita proprio nell’era dell’elettricità la tendenza a frammentare anziché ad amalgamare (Ibidem, pp. 63-65).

Per fare questo, specifica il sociologo canadese, sono necessarie alcune condizioni di base: essere in un ambito interconnesso, essere in grado di scambiare dati e conoscenze, essere in condizione di acquisire i saperi multimediali.

In un suo articolo pubblicato sul sito “nòva.ilsole24ore.com” (inserto dedicato alle tecnologie del "Sole 24 Ore”), dal titolo La nuova etica del web (25 maggio 2014), scrive: “Nei media collegati alla rete, ad esempio, esistono numerosi eventi cognitivi ed emotivi che percorrono da persona a persona motivando ciascuno alla condivisione di esperienza e pure all’azione politica. Dobbiamo concedere che oggi la mappa geopolitica del mondo intero è stata cambiata dall’arrivo, tramite la rete, sulla scena politica di una nuova classe politica, di un nuovo attore: la massa interattiva”. Ossia, “la massa interattiva è il tipo di massificazione umana costituito dalle connessioni fra tanti individui che possono rispondere a loro modo ad una qualche situazione. È una massa connettiva, non banalmente collettiva”.

 

Intelligenza collettiva e democrazia

Il giornalista e scrittore, responsabile di "Nòva”, Luca De Biase, in un post sul suo blog (22 aprile 2012), mette in correlazione l'“intelligenza collettiva” e “connettiva” con la democrazia partendo dalla costatazione che nelle decisioni ci sono sempre elementi emotivi ed elementi razionali e che l’organizzazione di un popolo dovrebbe essere fatta in modo da equilibrare gli effetti delle varie tensioni. De Biase scrive: “Il messaggio implicito nella struttura della democrazia rappresentativa dice che chi prende più voti governa; ma il messaggio implicito nella struttura della repubblica dice che la democrazia deve essere regolata in modo che la maggioranza possa governare senza abusare della minoranza e incentiva un comportamento orientato al perseguimento del bene comune”. A quel punto si domanda “come cambiano le strutture di coordinamento collettive, democratiche e repubblicane, con la diffusione di internet. La rete favorisce l’emotività o la razionalità? Il populismo o il ragionamento empirico e informato?”. La prima risposta è che Internet favorisce sia l'una che l'altra. Ma poi approfondisce aiutandosi con “l'evoluzione delle neuroscienze e della psicologia sociale, insieme alla riflessione sulle conseguenze dell’internet fissa e mobile, tendono ad avvalorare l’idea che il cervello sia una rete e che l’insieme dei cervelli in rete sia a sua volta una sorta di intelligenza collettiva. Metafore, certo, ma potenti”. Il giornalista descrive come funziona la rete neuronale e a quale aree del cervello appartengono e dove si posizionano razionalità ed emotività. E, specifica: “alcuni neuroni specializzati poi si comportano come dei connettori con i cervelli degli altri individui. Connettendosi tra loro, i cervelli individuali, ovviamente, contribuiscono ai comportamenti collettivi. E come il cervello individuale si avvale di strumenti per rafforzare le sue prestazioni, anche le reti di cervelli individuali si avvalgono di tecnologie che ne estendono le capacità: tra queste tecnologie, internet e gli strumenti digitali di accesso, memorizzazione, elaborazione, sembrano in grado di far fare un salto di qualità e concretezza all’immagine dell’intelligenza collettiva”. Dopodiché De Biase fa notare come, a seconda delle piattaforme internettiane (il loro design, per esempio), si può essere “influenzati” ad attivare l'area emotiva o quella razionale: Facebook incentiva scambi di informazioni più veloci, emotive e “automatiche”, mentre altre piattaforme, come, in alcuni casi, Wikipedia, stimolano scambi di informazioni più controllate. Ma anche “la democrazia e la repubblica sono in un certo senso piattaforme sulle quali si appoggia il coordinamento degli individui. E anch’esse hanno forse qualche conseguenza sulla struttura del pensiero che incentivano. Forse si può dire che la democrazia rappresentativa, almeno nelle sue incarnazioni recenti basate su campagne elettorali strutturate in modo piuttosto populista, è più vicina alle tensioni 'emotive'; dovrebbe essere la repubblica, che incentiva il rispetto delle istituzioni in quanto simbolo del bene e del progetto comune, a svolgere la funzione di regolare e controllare il pensiero collettivo che emerge quando è necessario decidere in modo razionale. La maturazione della democrazia partecipativa continua avverrà solo in un contesto rispettoso delle istituzioni comuni e solo in parallelo alla maturazione di piattaforme per la ricerca e lo scambio di informazioni orientate a incentivare l’emergere di notizie documentate, empiricamente verificate, generate con un metodo rispettoso del progetto comune di tutti coloro che per decidere vogliono semplicemente poter sapere come stanno le cose”.

Critica della democrazia digitale

Fabio Chiusi, giornalista e blogger che da anni si occupa di politica e libertà di espressione in rete, nel suo Critica della democrazia digitale. La politica 2.0 alla prova dei fatti (Codice Edizioni, 2014) si chiede se davvero in futuro la democrazia sarà digitale: vale a dire, se sia necessaria l'implementazione di piattaforme online per rinnovare la democrazia che è in crisi, per aprirla a una nuova e più funzionale partecipazione dei cittadini e se sia un errore dubitare che l’uso delle ICT porterà a decisioni più efficaci, in termini di governance. Secondo Chiusi, l’Italia fornisce un punto di osservazione privilegiato: “Se dagli anni novanta appare chiaro il declino dell'idea stessa di sovranità popolare, proprio nella stessa decade sorge una nuova speranza: che a rivitalizzarla possa essere il digitale, internet. Iniziano a circolare nuovi termini, la cui estensione è fumosa al punto che ancora oggi sono in attesa di una definizione condivisa in letteratura, ma chiari abbastanza da suscitare gli entusiasmi degli addetti ai lavori e dei media. Si parla di repubblica elettronica, di e-democracy, di democrazia digitale. Nomi diversi per la stessa speranza: che la 'rivoluzione' tecnologica comporti quella politica. Per alcuni non c'è nemmeno da sperare, perché il passaggio è necessario, una certezza” (Ibidem, p. 12). Così, scrive Chiusi, “il nostro paese è insieme quello dei record di sfiducia nelle istituzioni e degli esperimenti tra i più avanzati al mondo di implementazione di piattaforme informatiche nel processo politico”. Ed “è, allo stesso tempo, il detentore di primati (il digital divide e la lentezza delle connessioni) e la patria di un movimento (il Movimento 5 Stelle), costruito sull’idea di democrazia digitale (l’iperdemocrazia' di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio) che, nonostante l'ingenuità teorica e le carenze pratiche, ha incontrato il consenso di oltre un elettore su quattro” (Ibidem). Come testimoniano i movimenti di protesta sorti negli ultimi anni (da Occupy Wall Street agli Indignados, da Anonymous alla cosiddetta Primavera Araba), dice Chiusi, il cambiamento lo si auspica e lo si fa seguendo i principi e le caratteristiche attribuiti a Internet: nessuna leadership, sostituzione delle gerarchie con reti paritarie, passaggio dalle decisioni a maggioranza a quelle per consenso tramite assemblee, reali e/o virtuali. Il tutto seguendo i capisaldi del web 2.0: condivisione, trasparenza, partecipazione, dialogo tra pari. “Il digitale, secondo questa visione, è sia un facilitatore per il rinnovamento della politica, sia lo strumento che consente di ridurre i tanti dubbi sulla democrazia diretta (quella esercitata dal popolo direttamente, senza delega, senza mediazione), in quanto permette agli individui, attraverso l’intelligenza collettiva, di autogovernarsi” (Ibidem).

Per Chiusi, però è eccessivo dirsi “tecno-entusiasti” e le aspettative sulla rete vanno ridimensionate in quanto i fatti dicono che attraverso il digitale la partecipazione, in molti casi, non cresce e le espressioni di chi partecipa non si traducono in deliberazioni e decisioni. Insomma, la classe dirigente utilizza le ICT solo per essere al passo coi tempi. Inoltre, bisogna tenere in conto i limiti strutturali: sia la scarsa alfabetizzazione digitale che la questione dei programmatori che definendo le regole del gioco finiscono per essere i veri padri costituenti delle democrazie che (non) verranno. Tuttavia, secondo Chiusi, la rete ha molto da dare alla democrazia, basta non caricarla di pesi che non è fatta per sopportare.

 

Stato del rapporto Internet-democrazia

Nel suo articolo Lo stato della democrazia digitale nel 2013 (24 dicembre 2013, “wired.it”), Chiusi fa un resoconto dello stato dell'arte sul tema, anche a seguito del “Forum mondiale per la democrazia 2013” svoltosi a Strasburgo. In quell'anno si è parlato molto di democrazia digitale sia per la proposta di Beppe Grillo di sostituire i partiti e la democrazia rappresentativa con l'“iperdemocrazia” fondata sull’intelligenza collettiva in rete; sia per il moltiplicarsi di piattaforme informatiche per favorire il dialogo tra cittadini e istituzioni: dalle consultazioni online fino alla proposta e alla stesura collaborativa di leggi; sia, e soprattutto, a causa della crisi globale della democrazia: possono le ICT invertire la tendenza del suo declino? A Strasburgo, la ricercatrice dell’Università di Oxford Amanda Clarke stende un bilancio dello stato del rapporto tra Internet e democrazia. L’analisi, intitolata Exploiting the web as a tool of democracy: new ways forward in the study and practice of digital democracy (Sfruttare il Web come strumento di democrazia: nuovi modi di procedere nello studio e nella pratica della democrazia digitale, TdR), oltre a non essere positiva, libera dalla contrapposizione tra i “tecno-entusiasti” – che hanno caricato e caricano il digitale di aspettative difficili da soddisfare – e i “tecno-scettici” che, al contrario, demonizzano la rete ignorandone le potenzialità inespresse. L'analisi di Clarke si basa non su speculazioni ma soprattutto su dati, i quali dicono che l’affluenza alle urne dal 1980 a oggi è in calo in media del 10% in 40 paesi dei 49 studiati; che tra il 1990 e il 2006 la percentuale di chi ha “molta” fiducia nei partiti è scesa dal 49 al 27%; e che le iscrizioni ai partiti in 13 democrazie europee sono “rapidamente calate”, come anche le iscrizioni ai sindacati. Nell’era di quello che il sociologo Evgeny Morozov ha definito slacktivism (attivismo pigro, “da poltrona”, sostegno di varie cause attraverso petizioni online, link, condivisioni) e delle proteste alimentate sui social media, sorprendono due dati negativi: tra i tardi anni Ottanta e i tardi Duemila è diminuito del 20% il numero di persone che dice di avere firmato petizioni (dal 76 al 56%), e anche il numero di persone che dice di aver preso parte a una manifestazione di protesta di natura politica (dal 62 al 51%). I numeri sull’Italia nell’ultimo rapporto Demos (Gli italiani e lo Stato, 30 dicembre 2013) non raccontano una realtà molto diversa: a fronte di una partecipazione politica e sociale in lieve crescita dal 2007 al 2013, si registrano livelli di fiducia minimi (e in discesa) per Parlamento e partiti (rispettivamente: 7,1 e 5,1%) e una più generale fiducia nelle istituzioni politiche crollata dal 41 al 24% negli ultimi otto anni. Insomma, come si legge nelle conclusioni post-evento del Consiglio d’Europa, riportate da Chiusi (Lo stato della democrazia digitale…, cit.): gli sviluppi della democrazia digitale “non hanno finora costituito un’alternativa alla democrazia rappresentativa. La politica online è perlopiù politics as usual”, cioè la solita politica. Inoltre, non si registrano né un “sensazionale aumento della partecipazione o delle fiducia nelle istituzioni”, né la volontà di porvi fine per rivoluzionarle. A tale proposito, lo scritto di Clarke, riportato da Chiusi, è ancora più preciso: “nonostante le promesse dicessero altrimenti, la prima fase della partecipazione politica abilitata dal web non è riuscita a porre rimedio alle tendenze preoccupanti”. Il passaggio chiave dell'analisi di Clarke, riportato da Chiusi, è che non esiste alcun “determinismo tecnologico” che assicuri un rapporto di causa-effetto tra maggiore utilizzo di piattaforme e risorse web e incremento nella qualità della vita democratica: “Pur se la rete si è dimostrata in certi casi un potente strumento di democrazia, non dovremmo adottare una posizione tecnologicamente deterministica che assume che Internet favorisca necessariamente gli ideali democratici. Perché il web è ciò che ne facciamo”. E se ciò che ne facciamo è uno strumento di sorveglianza globale (come si è visto per il Datagate) o di censura e repressione del dissenso “è probabile che la fiducia dei cittadini si riduca ulteriormente”. Questo non significa che Internet non possa contribuire a dare nuova linfa alla democrazia. Chiusi riporta l'esempio, che fa Clarke, del crowdsourcing: il mettere insieme gli sforzi per creare o discutere, in modo paritario e collaborativo, idee, progetti e proposte di legge. E lo spazio per sperimentare e capire non manca. Ed è questo, forse, l’aspetto più interessante del lavoro che attende gli studiosi del settore: comprendere come usare Internet per analizzare le dinamiche della partecipazione politica. Per questo motivo Clarke invita il legislatore a dotarsi di esperti di big data (enorme massa di dati) e programmazione, oltre alle competenze di cui già dispone. La politica deve rendersi conto che ai tradizionali luoghi della partecipazione se ne sono aggiunti altri, sui quali “non ha più il monopolio”, e deve cercare di sfruttarne al meglio le potenzialità per consentire un migliore controllo del suo operato da parte dei cittadini. Se l’obiettivo è “sviluppare nuove modalità di votazione, affiliazione partitica e partecipazione diretta che siano più attraenti per i cittadini”, e se “ciò può voler significare reinventare, o abbandonare, le prassi tradizionali della democrazia rappresentativa” (Demos dice che per il 48,5% degli italiani la democrazia può funzionare senza partiti), la sensazione è che molto ancora resti da fare.

 

Sistema operativo Movimento 5 Stelle

Affinché si possa realizzare la democrazia digitale e favorire la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica, è necessaria l’implementazione di alcune questioni tecniche, innanzitutto delle piattaforme che, utilizzando particolari software, garantiscano la democraticità del sistema. E, a tale proposito, la critica più dura al sistema operativo del Movimento 5 Stelle, viene proprio dall’interno del Movimento: dal “grillino” Davide Barillari, consigliere regionale del Lazio. Barillari, in sostanza, in un post su Facebook – riportato integralmente in un articolo di Fabio Chiusi (M5S, la piattaforma della discordia la dura critica di un consigliere grillino, “L’Espresso”, 29 ottobre 2013) – smonta, punto per punto, il sistema operativo che definisce “un forum di discussione e valutazione”, piuttosto che un modello per la democrazia diretta. Per il consigliere, infatti, innanzitutto non è garantita l’affidabilità del sistema: “Trovatemi una sola banca online che vi fa entrare solo con utenza e password! Serve un maggiore livello di sicurezza, proprio come una banca: otp, chiavi hardware, token fisici. Un sistema di accesso più affidabile non aumenta o appesantisce la complessità, ma garantisce l'affidabilità”. In secondo luogo, evidenzia l’assenza di un criterio per leggere, ordinare e valutare al meglio i commenti e le proposte: “Stamattina vedo 1530 interventi. Chi potrà leggerli tutti? Chi li valuterà uno per uno? […] Ho letto i suggerimenti più quotati: spesso sono idee generali scollegate dalla proposta di legge, che introducono altri concetti o addirittura altre proposte... O sono invece che suggerimenti, semplici commenti. Così non funziona, è troppo dispersivo. Oppure sono suggerimenti utili a migliorare la proposta di legge, ma magari senza copertura legale o finanziaria. […] Io posso scrivere un suggerimento che è stato già scritto magari 200 suggerimenti fa, perché non posso leggerli tutti, e così si crea confusione e duplicazioni. Così come magari un suggerimento interessante, me lo perdo perché è 700 commenti fa. Il sistema di classificazione non è efficiente: cosa vuol dire votare su una scala da 1 a 5? quanti voti ho a disposizione? Gli utenti appoggeranno solo i primi 100-200 suggerimenti che hanno già un'alta valutazione, tralasciando di leggere le migliaia di suggerimenti, magari validi, che però sono molto più in basso”.