Non esiste una certezza assoluta riguardo al realismo, tuttavia, esso è la migliore spiegazione possibile della realtà non esistendo alternative dimostrabili

L'inferenza alla miglior spiegazione

Nella seconda metà del Novecento, il realismo deve fare i conti con molte delle obiezioni avanzate dal campo anti-realista. La concezione realista metafisica, quella della possibilità da parte dell'uomo di osservare la totalità della realtà oggettiva nel ruolo di osservatore esterno, quasi come se fosse l'occhio di Dio, viene sostanzialmente abbandonata. Non per questo molti filosofi della scienza rinunciano al realismo, pur se in versione meno radicale.
Il filosofo statunitense Gilbert Harman (1938-), infatti, fa notare, nella sua dissertazione del 1964 per il conseguimento del dottorato, Scepticism and the Definition of Knowledge (Garland, 1990), che nonostante l'impossibilità di elevarsi a osservatori disincarnati, totalmente esterni e totalmente ininfluenti nella definizione della realtà, resta il fatto che il successo delle teorie empiriche non può essere dovuto al caso, o a un miracolo, ma semplicemente al fatto che esse sono comunque una descrizione efficace della realtà, e dunque per forza di cosa almeno in parte aderenti ad essa. Tale principio è noto come “inferenza alla miglior spiegazione”.

 

Il costruttivismo di Goodman

Il filosofo statunitense Nelson Goodman (1906-1998), nel saggio La struttura dell'apparenza (Il Mulino, 1985) fonda la corrente di pensiero del costruttivismo, tentativo di fondare un pensiero realista moderato il quale faccia tesoro però di molte delle obiezioni portate avanti dal convenzionalismo. In questo lavoro, Goodman si propone di creare un sistema costruzionale che possa essere alla base delle discipline scientifiche il quale non sia un tentativo, inutile quanto impossibile, di riprodurre fedelmente l'esperienza, quando di disegnare una mappa di questa: una mappa che, come tutte le mappe, è selettiva e schematica, improntata ad alcune esigenze pratiche. A seconda del fine che si persegue, per Goodman, è possibile elaborare una molteplicità di mappe diverse.
Tuttavia, questo non deve portare a concludere che tutte le mappe siano valide. Esse, pur se improntate ad alcune esigenze specifiche, sono tutte modi di descrizione di una stessa realtà: pur non costituendone il doppio, è a essa che fanno riferimento. Quando non è possibile rinvenire una corrispondenza strutturale, un isomorfismo, fra diverse descrizioni del mondo, non è possibile pensare che esse siano tutte egualmente valide in un relativismo generalizzato: esistono diverse prospettive e angolature da cui guardare la realtà, ciononostante essa esiste indipendentemente da noi e non se ne può prescindere del tutto.

Per far comprendere meglio il significato del costruttivismo, Goodman sviluppa la metafora della mappa: prendiamo, ad esempio, egli scrive, una carta geografica di una regione. Nel tracciarla, è possibile procedere in molti modi diversi: riprodurre fedelmente ogni oggetto della realtà è assolutamente inutile, oltre che impossibile per ragioni pratiche. Per questo si opereranno alcune scelte e, ad esempio, se si tratta di una mappa ferroviaria, sceglieremo di riprodurre nei dettagli questo aspetto, magari a scapito di altri. Analogamente, se si tratta di una cartina fisica, daremo maggior risalto a colline, corsi d'acqua e così via. Nessuna delle mappe è più esatta delle altre, ma ognuna è frutto di una scelta funzionale a delle esigenze pratiche, poiché fornisce informazioni su un particolare aspetto della realtà. Tale scelta, però, rimane saldamente vincolata alla realtà: non è possibile, ad esempio, disegnare sulla mappa un corso d'acqua inesistente, o, una volta presa la scelta di disegnare una mappa ferroviaria, tracciare un tratto dei binari diverso da quello effettivamente esistente. Esistono diverse mappe possibili, dunque, ma non infinite: è falsa la tesi relativista per cui ogni mappa ha lo stesso valore delle altre. Gli oggetti esistono di per sé in modo autonomo, anche se l'immagine di essi che noi descriviamo è necessariamente filtrata dai nostri schemi interpretativi.

 

La posizione di Putnam

Un altro tentativo di salvare il realismo dalle obiezioni in nome del principio dell'inferenza alla miglior spiegazione è quello fatto dal filosofo statunitense Hilary Putnam (1926-), il quale, dopo aver sostenuto un realismo di tipo metafisico nell'opera del 1975 Mente, linguaggio e realtà (Adelphi, 1987), perviene tre anni dopo, nel 1978, in Verità e etica (Il Saggiatore, 1982), alla formulazione di un realismo da lui definito “interno”: l'uomo parla di un mondo oggettivamente esistente e di un suo funzionamento verificabile empiricamente, ma fornisce un senso a questo altro da lui solamente all'interno delle proprie teorie.
In un'opera successiva, intitolata Ragione, verità e storia (Il Saggiatore, 1985) Putnam approfondisce la sua prospettiva internalista opponendola a quella esternalista propria del realismo metafisico, che si crogiola nella pretesa assurda e impossibile di osservare la realtà dalla prospettiva dell'“occhio di Dio”, come se l'osservatore non facesse parte della realtà egli stesso e da essa non fosse influenzato. Tutte le nostre osservazioni, persino la descrizione che facciamo delle sensazioni stesse, osserva Putnam, sono contaminate concettualmente dal nostro essere parte integrante della realtà, eppure questo non ci impedisce di poter progredire nel cammino verso la conoscenza. Pur se passibili di interpretazione, gli ingredienti alla base delle nostre esperienze non sono affatto pure illusioni.

 

Cervelli in una vasca

Per dimostrare ciò, Putnam si affida a un esperimento mentale, nel quale intende confutare il dubbio scettico, quel dubbio che giunge a mettere in discussione persino la nostra stessa esistenza, e le pretese idealiste di chi sostiene che il mondo sia una semplice e illusoria costruzione soggettiva. In Cervelli in una vasca, saggio di apertura di Ragione verità e storia (cit., pp. 7-27), egli scrive: “Immaginate che un essere umano (potete immaginare di essere voi) sia stato sottoposto ad un'operazione da parte di uno scienziato malvagio. Il cervello di quella persona (il vostro cervello) è stato rimosso dal corpo e messo in un'ampolla piena di sostanze chimiche che lo tengono in vita. Le terminazioni nervose sono state connesse ad un computer superscientifico che fa sì che la persona a cui appartiene il cervello abbia l'illusione che tutto sia perfettamente normale. Sembra che ci siano persone, oggetti, il cielo, ecc., ma in realtà l'esperienza della persona (la vostra esperienza) è in tutto e per tutto il risultato degli impulsi elettronici che viaggiano dal computer alle terminazioni nervose. Il computer è così abile che se la persona cerca di alzare il braccio la risposta del computer farà sì che veda e senta il braccio che si alza. Inoltre, variando il programma lo scienziato malvagio può far sì che la vittima esperisca (ovvero allucini) qualsiasi ambiente o situazione lo scienziato voglia. Può anche offuscare il ricordo dell'operazione al cervello, in modo che la vittima abbia l'impressione di essere sempre stata in quell'ambiente [...] La vittima può persino pensare di essere comodamente seduta mentre legge queste parole sull'ipotesi divertente, ma del tutto assurda, che vi sia uno scienziato malvagio che rimuove i cervelli dal corpo e li colloca in una vasca piena di sostanze nutritive […] Potremmo anche immaginare che tutti gli esseri umani...siano cervelli in un'ampolla. Naturalmente lo scienziato malvagio dovrebbe trovarsi al di fuori. Dovrebbe? Magari non esiste nessuno scienziato malvagio; magari l'universo consiste solo di macchinari automatici che badano a un'ampolla piena di cervelli. Supponiamo che il macchinario automatico sia programmato per dare a tutti noi un'allucinazione collettiva. Quando sembra a me di star parlando a voi, sembra a voi di star ascoltando le mie parole. Naturalmente le mie parole non giungono per davvero alle vostre orecchie, dato che non avete (vere) orecchie, né io ho una vera bocca e una vera lingua. Invece, quando produco le mie parole quel che succede è che gli impulsi efferenti viaggiano dal mio cervello al computer, che fa sì che io senta la mia stessa voce che dice quelle parole e senta la lingua muoversi, ecc., e che anche voi udiate le mie parole, mi vediate parlare ecc. In questo caso, in un certo senso, io e voi siamo davvero in comunicazione. Io non mi inganno sulla vostra esistenza reale, ma solo sull'esistenza del vostro corpo e del mondo esterno, cervelli esclusi”.

A queste condizioni, come possiamo sapere di non essere cervelli in una vasca? Per rispondere a questa domanda, Putnam parte dal quesito opposto: se noi fossimo realmente cervelli in un'ampolla, saremmo in grado di dire o pensare di essere cervelli in una vasca? La risposta è no, perché l'ipotesi che noi siamo cervelli in una vasca è un'ipotesi che si autoconfuta: la sua verità comporta la sua falsità.
In un mondo nel quale i cervelli sono in una vasca le persone possono proferire (o pensare di proferire) parole, ma pur usando le stesse parole usate da noi, non possono in alcun modo riferirsi alla stessa cosa cui ci riferiamo noi.
Un cervello in una vasca che pensa di pronunciare le parole “vasca”, “cervello” e “computer” non le pronuncia poiché tali parole sono determinate o causate da quegli oggetti, ma solo perché tali sono gli stimoli che il computer invia nel cervello. Le nostre parole, quindi, se fossimo cervelli in una vasca, non si baserebbero su riferimenti reali. E se da cervelli in una vasca formulassimo l'ipotesi di non essere cervelli in una vasca, il nostro enunciato non potrebbe riferirsi a cervelli reali e vasche reali come noi l'intendiamo nell'esperienza, ma a cervelli e vasche illusorie, come illusori sarebbero in un caso del genere tutti i riferimenti delle nostre parole. Allorché il cervello in una vasca dicesse di essere in una vasca, quest'affermazione non potrebbe significare davvero, nella realtà, quello che essa vuole significare. Conclude Putnam: “Se il mondo possibile è veramente quello reale e noi non siamo, effettivamente, che cervelli in una vasca, quando diciamo che siamo cervelli in una vasca, intendiamo che siamo cervelli in una vasca nell'immagine, o qualcosa del genere (ammesso che il nostro discorso abbia comunque un significato). Ma parte dell'ipotesi secondo cui noi saremmo cervelli in una vasca è che noi non siamo cervelli in una vasca nell'immagine (l'essere cervelli in una vasca, cioè, non fa parte della nostra allucinazione) per cui, se siamo effettivamente cervelli in una vasca, allora l'enunciato siamo cervelli in una vasca dice qualcosa di falso (se pur dice qualcosa). In breve, se siamo cervelli in una vasca, allora siamo cervelli in una vasca è falso. Così esso è (necessariamente) falso”.
Confutando il realismo metafisico e lo scetticismo idealista, in La sfida del realismo (Garzanti, 1991) Putnam arriva a definire il suo realismo interno con una metafora, quella dello stampo per torte: la realtà oggettiva, ovvero le cose indipendenti da ogni scelta concettuale, sono la pasta; il nostro contributo concettuale è la forma dello stampo. La realtà è una e non dipendente da noi, ma la prospettiva da cui possiamo abbracciarla sono molteplici.

I dogmi dell'empirismo logico

Il filosofo e matematico statunitense Willard Van Orman Quine (1908-2000), nel suo saggio I due dogmi dell'empirismo logico, pubblicato in Italia all'interno della raccolta Da un punto di vista logico. Saggi logico-filosofici (Cortina, 2004) analizza il rapporto tra scienza e linguaggio, confutando la tesi tipica dei neopositivisti per cui è possibile dimostrare come inconfutabilmente vere alcune teorie in virtù del loro relazionarsi direttamente all'esperienza, alla quale possono essere direttamente ricondotte.
In realtà, egli fa notare, la conoscenza deriva sì dall'esperienza ma anche dal linguaggio, perché è riferita tramite esso, e non si può prescindere da questa mediazione. Non c'è alcun modo di percepire direttamente ed empiricamente una “teoria scientifica in sé”, se non filtrata dallo strumento linguistico, strumento che di per sé è necessariamente convenzionale: un termine non fa riferimento al “significato”, all'essenza di un oggetto, bensì è un “riferimento” ad esso, un modo universalmente riconosciuto di alludere all'oggetto stesso.

Per questo, Quine nota nel suo saggio: “In quanto empirista, continuo a considerare lo schema concettuale della scienza uno strumento, in definitiva, per predire l'esperienza futura alla luce di quella passata. Gli oggetti fisici sono introdotti dal punto di vista concettuale come utili intermediari – non tramite una definizione in termini di esperienza, ma semplicemente come postulati irriducibili, simili, dal punto di vista epistemologico, agli dei di Omero […] Da parte mia, in quanto fisicalista laico, credo negli oggetti fisici e non negli dei di Omero; e ritengo che sia un errore scientifico fare altrimenti. Ma dal punto di vista del fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dei di Omero differiscono solo quanto al grado e non quanto al genere. Entrambi i tipi di entità entrano nella nostra concezione soltanto come presupposti culturali” (Willard Van Orman Quine, Da un punto di vista logico, cit., p. 62).

 

L'immagine scientifica 

Analogamente, il filosofo olandese Bas Van Fraassen (1941-), nel suo libro del 1980 L'immagine scientifica (The Scientific Image, Oxford University Press, 1980), osserva che le teorie scientifiche hanno il compito di spiegare l'osservabile ma, proprio per fare ciò, devono introdurre elementi non osservabili per rendere coerenti e connettere fra loro i dati empirici. Lo scopo della scienza è dunque quello di costruire modelli esplicativi della realtà, in cui le entità teoriche non osservabili sono solo strumenti volti al raggiungimento di questo fine, ma che non hanno un'esistenza reale.
Le teorie scientifiche non possono quindi essere valutate nella loro verità o falsità (se con questi termini si intende un riferimento all'andamento oggettivo delle cose e indipendente dall'attività umana), ma piuttosto sul piano della loro adeguatezza empirica, del loro essere comprensive di tutti i fenomeni e del loro essere accettabili sul piano pragmatico. Una buona teoria scientifica, quindi, è quella che dà ragione di quanto accade di osservabile ed è funzionale a un determinato scopo, a una meta che noi, soggettivamente e arbitrariamente, ci siamo imposti a priori.
Van Fraassen non nega a priori il realismo: egli anzi sostiene la sua adeguatezza empirica, poiché non esistono fatti empirici che in linea teorica smentiscono la possibilità dell'esistenza di un mondo oggettivo a noi esterno che funziona esattamente nel modo in cui lo descriviamo. Tuttavia, ammettere l'adeguatezza empirica di una teoria non è equivalente a riconoscerne la verità: per far questo, ci vorrebbero prove inequivocabili e inconfutabili, che nessuno finora è riuscito a trovare.

 

Le leggi della fisica mentono?

La filosofa statunitense Nancy Cartwright (1944-), nel saggio del 1983 intitolato Come mentono le leggi della fisica (How the Laws of Physics Lie, Oxford University Press), ammette la verità di alcune cosiddette leggi fenomenologiche, che offrono spiegazioni di fatti particolari, ma sostiene che tutte le leggi fondamentali della fisica, quelle che sono dotate della caratteristica dell'universalità, sono solo idealizzazioni, valide in riferimento ai modelli scientifici e non alla realtà oggettiva. Utilizzando una metafora, la Cartwright sostiene che il mondo delle teorie scientifiche sia un teatro, che si propone di rappresentare a uso e consumo degli spettatori vicende ispirate al mondo reale, quello esterno al teatro stesso. Tutte le vicende rappresentate nel teatro fanno riferimento al mondo di fuori, e possono quindi essere viste senz'altro come una spiegazione di quest'ultimo, e tuttavia non sono affatto quel mondo, ma solamente una copia ideale e semplificata.

 

Strumentalismo in Hacking e Laudan

Ancora, il filosofo canadese Ian Hacking (1936-), nel libro Conoscere e sperimentare (Laterza, 1987), ribadisce come le teorie scientifiche vengano costruite sulla base della loro coerenza interna, a scopi pratici, e solo dopo vengano poste a confronto con la realtà, in modo da mettere alla prova la loro capacità esplicativa dei fenomeni. Inoltre, i fenomeni fisici non sono mai disponibili a uso e consumo del ricercatore, il quale, nel compiere esperimenti che rafforzino o confutino la sua teoria, è costretto a riprodurli in laboratorio, influenzando in un certo modo il risultato dell'esperimento stesso: il frutto dell'intervento umano fa sì che la scienza non abbia mai a che fare con la realtà in sé, quanto con l'immagine che l'uomo ha di essa.
Lo scienziato, negli esperimenti, manipola delle entità fisiche, in modo da scoprire se esse, adeguatamente stimolate, siano in grado di fornire i risultati che egli si aspetta. Ovviamente, la possibilità di manipolare entità fisiche porta a conseguire che esse siano reali, esistano: ma questo non può portare ad un'analoga conclusione per quanto riguarda le teorie scientifiche. Di esse non si può mai dire che siano vere, ma al massimo che siano efficaci, proprio perché riferite non a una realtà oggettiva ma a una rappresentazione di essa.

Il filosofo statunitense Larry Laudan (1941-), in Il progresso scientifico. Prospettive per una teoria (Armando, 1979), afferma che unico scopo della scienza è quello di risolvere problemi, massimizzando la portata dei problemi risolti e minimizzando quella dei problemi non risolti. Tuttavia, non esiste un criterio assoluto di valutazione delle teorie: esse hanno senso solo se confrontate fra di loro. Una teoria è più efficace rispetto ad un'altra se è in grado di spiegare più semplicemente un numero maggiore di fenomeni rispetto ad un'altra: ma è con essa che viene portato avanti il confronto, e non con la realtà oggettiva. Le teorie scientifiche si reggono, per così dire, l'un l'altra, costruendo un edificio coerente ma che non è lo stesso di quello della realtà oggettiva.