Responsabilità civile dei magistrati
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
A partire dall’antica Grecia fino ai giorni nostri, la questione della responsabilità dei giudicanti è argomento centrale del dibattito politico, giuridico e filosofico. Mentre nei modelli democratici il magistrato, in condizione di parità rispetto al cittadino, può essere chiamato a rispondere civilmente dei danni causati nell’esercizio della sua professione, nei sistemi assolutistici il giudice, burocrate e longa manus del sovrano, è esente da responsabilità, poiché la sua funzione si concretizza in una puntuale e quasi meccanica applicazione della legge.
La disciplina vigente, contenuta nella legge n. 117 del 1988 come modifica dalla legge n. 18 del 2015, pone una serie di interrogativi, a cominciare dall’individuazione delle ragioni giustificatrici del differente trattamento riservato ai magistrati rispetto ai dipendenti pubblici, nonché dall’opportunità di mantenere tale regime, in forza del quale i giudici rispondono, indirettamente e nella misura massima di metà della retribuzione annuale, dei danni cagionati nell’esercizio delle loro funzioni o per diniego di giustizia, fatta salva l’operatività della clausola di salvaguardia che esclude la responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove, pur restando eccettuati i casi di dolo e colpa grave.
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
La questione della responsabilità dei giudicanti è argomento centrale del dibattito politico, giuridico e filosofico. La disciplina vigente, contenuta nella legge n. 117 del 1988 come modifica della legge n. 18 del 2015, pone una serie di interrogativi, a cominciare dall’individuazione delle ragioni giustificatrici del differente trattamento riservato ai magistrati rispetto ai dipendenti pubblici.
Il giudizio di ammissibilità della domanda di risarcimento tutela il giudice da eventuali azioni infondate che possano turbarne la serenità di giudizio. Senza il filtro di ammissibilità l’azione per la responsabilità civile potrebbe essere avviata anche durante le indagini e l’indagato si troverebbe lo stesso pm come avversario in una causa civile.
Per il ministro della Giustizia Orlando il filtro di ammissibilità “si era trasformato in una muraglia al punto da scoraggiare i ricorsi”. Eliminando questo “filtro che in modo sommario porta a respingere molti ricorsi dei cittadini” si consente a chi avvia un ricorso di “sapere che non ci sono blocchi invisibili, che c’è un giudice più accessibile per chi subisce un danno ingiusto”.
Per l’on. Giuseppe L. Cucca “il nostro sistema non prevede una gerarchia delle decisioni alle quali si debba adeguare un giudice. […] non esiste un obbligo di adeguarsi alle decisioni della giurisprudenza […] anche se questa sia formata dalla Corte di cassazione. […] L’estensione della colpa grave in caso di discostamento della giurisprudenza andrebbe a detrimento della libertà del giudice.
L’onorevole Carlo Giovanardi ha affermato che, posto che “la funzione nomofilattica della Corte […] risponde all'esigenza di assicurare certezza nell'interpretazione delle norme e garanzia ai diritti dei cittadini”, non vi sono ragioni per cui i magistrati non rispondano “direttamente della mancata ottemperanza alle disposizioni di legge, così come interpretate dalla Suprema Corte di cassazione”.
Secondo Ciro Falanga si deve evitare il rischio che la responsabilità civile ponga “una cappa di piombo sull’attività interpretativa delle norme, determinando uno statico conformismo alla giurisprudenza della Cassazione che […] gli stessi giudici della Corte non auspicano”. È prevedibile che con l’introduzione della responsabilità civile le sentenze si orienteranno in chiave difensiva.
Il consigliere di Stato Francesco Bellomo, scrive che escludere il magistrato dall’area di responsabilità non ha alcun senso, poiché la discrezionalità che ne connota l’esercizio è oggettivamente controllabile. Per il ministro della Giustizia Orlando il magistrato “può essere chiamato in causa soltanto nel caso di negligenza inescusabile”, quindi con un'area di responsabilità ridotta.
“Un magistrato soggetto ad azione diretta della parte che sta giudicando non sarebbe più libero di giudicare senza condizionamenti”. La possibilità di esercitare l’azione risarcitoria implica “l’estromissione dal giudizio del magistrato sgradito alla parte”. Il giudice dovrebbe astenersi per l’impossibilità di giudicare colui che è in quel momento la sua controparte in un’azione civile.
Escludendo ogni ipotesi di responsabilità diretta dei magistrati si è “sancito definitivamente il principio per il quale, a differenza di quanto avviene per tutte le altre categorie professionali, i giudici, in nome dell’indipendenza della magistratura, godono anche di una sorta d’irresponsabilità e di libertà di processare chiunque, anche in mancanza del più lontano e larvato indizio”.
Una volta accertata la colpa grave del magistrato, egli sarà tenuto a un risarcimento pari alla metà dello stipendio netto che guadagnava all’epoca del fatto, mentre la somma restante non può che ricadere sulla fiscalità generale e dunque su tutti i cittadini, ivi compreso, sul piano delle tasse, su colui che attraverso l’azione risarcitoria ha ottenuto il diritto a essere risarcito.
L’attività del magistrato si caratterizza per il fatto di creare un danno ogni volta che esprime una sentenza. Il timore della responsabilità, quindi di azioni risarcitorie, potrebbe indurre il giudice a prendere decisioni che lo pongano al riparo, magari a danno di chi ha meno possibilità di intentare nuove azioni legali. L’attività del giudice deve essere libera da azioni difensive.
La responsabilità civile dei magistrati mina la loro indipendenza e la serenità del giudizio. Secondo alcuni questa incrinerebbe la loro autonomia di giudizio. In ogni caso, a pagare dovrebbe essere lo Stato e non il singolo giudice: altrimenti nessuno darebbe più torto al ricco. Ma, in linea di principio, la responsabilità del giudice ne limita l’indipendenza.
Fatti salvi l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che non permettono un regime risarcitorio, appare oggi necessaria una legislazione in grado di conciliare tali valori con quello del diritto al risarcimento per il cittadino danneggiato. Luciano Violante afferma che sul principio di autorità deve prevalere il principio di trasparenza: il magistrato deve giustificare il suo operato.
È opportuno prevedere un filtro preliminare che valuti l’ammissibilità delle domande di risarcimento del danno derivante da responsabilità del giudice
Secondo il ministro della Giustizia Andrea Orlando il vecchio filtro di ammissibilità “si era trasformato in una muraglia al punto da scoraggiare i ricorsi. Era una barriera insormontabile” (Liana Milella, Orlando: "Responsabilità civile non è una punizione, più poteri con l’anticorruzione”, “La Repubblica”, 27 febbraio 2015). Eliminando questo “tappo all’entrata, ossia il filtro che in modo sommario porta a respingere molti ricorsi dei cittadini” si consente a chi avvia un ricorso di “sapere che non ci sono blocchi invisibili, che c’è un giudice più accessibile per chi subisce un danno ingiusto” (Francesco Grignetti, “La responsabilità civile dei giudici non sarà un meccanismo punitivo”, “La Stampa”, 5 agosto 2014).
Il ministro ritiene inoltre insussistente il rischio della proliferazione dei ricorsi e delle cause strumentali, poiché “nel processo civile ci sono gli strumenti per disincentivare le liti temerarie” (Liana Milella, Orlando: "Responsabilità civile non è una punizione, cit.).
L’esistenza di un giudizio di ammissibilità della domanda di risarcimento, secondo il consigliere di Cassazione Piercamillo Davigo, “garantisce adeguatamente il giudice dalla proposizione di azioni manifestamente infondate che possano turbarne la serenità, impedendo, al tempo stesso, di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione” (Giovanni Bianconi, Davigo e la responsabilità dei giudici: “È incostituzionale”, “Corriere della Sera”, 19 febbraio 2015).
In particolare, senza il filtro di ammissibilità, ritiene il sostituto procuratore presso la Direzione Nazionale Antimafia Anna Canepa, “l’azione per la responsabilità civile può essere intrapresa anche durante le indagini, per esempio nel caso di un ordine di custodia cautelare che si ritiene infondato, anche se tutti i ricorsi previsti dalla legge hanno dato ragione al pm. A questo punto un indagato si troverebbe lo stesso pm come avversario in una causa civile, e magari chiedere di ricusarlo” (Mario Portanova, Responsabilità toghe, Canepa (Md): “Cannone puntato contro nuovi diritti”, “Il Fatto Quotidiano”, 26 febbraio 2015).
Il giudice non deve rispondere se si discosta dagli orientamenti della Corte di Cassazione. La tradizione giuridica italiana ne tutela la libertà decisionale
In sede di trattazione in Commissione Giustizia, l’onorevole Carlo Giovanardi ha affermato che, posto che “la funzione nomofilattica della Corte, a ben vedere, risponde all'esigenza di assicurare certezza nell'interpretazione delle norme e garanzia ai diritti dei cittadini”, non vi sono ragioni che ostino a che i magistrati rispondano “direttamente della mancata ottemperanza alle disposizioni di legge, così come interpretate dalla Suprema Corte di cassazione” (Resoconto sommario n. 108 del 29 aprile 2014).
Secondo l’onorevole Giuseppe L. Cucca “il nostro sistema non prevede una gerarchia delle decisioni alle quali si debba adeguare un giudice che debba assumere altra decisione. In buona sostanza, non esiste un obbligo di adeguarsi alle decisioni della giurisprudenza che si sia creata, anche se questa sia formata dalla Corte di cassazione e addirittura dalle sezioni riunite della Corte di cassazione. […] Ampliare l’ambito e la portata della colpa grave, prevedendo che essa si integri anche quando ci si discosta dalla giurisprudenza, porterebbe evidentemente a soluzioni aberranti e aprirebbe un vulnus nel principio dell’imparzialità e della libertà di decisione del giudice” (Resoconto stenografico della seduta n. 355 del 19 novembre 2014).
Il giudice non può essere chiamato a rispondere per l’attività di interpretazione delle norme e di valutazione di fatti e prove (c.d. clausola di salvaguardia)
Il consigliere di Stato Francesco Bellomo, nell'articolo Innovazione: il magistrato come agente superiore (in Ordine giuridico e responsabilità del magistrato, a cura di Andrea Ghironi e Francesco Bellomo, “Diritto e scienza”, n. 4, aprile 2012, p. 21) scrive che “la pretesa di escludere dall’area di responsabilità del magistrato proprio l’attività che istituzionalmente egli è chiamato a svolgere non ha alcun senso. Né la natura delle funzioni giudiziarie lo impone, atteso che la discrezionalità che ne connota l’esercizio ha natura tecnica ed è oggettivamente controllabile, assai più di quanto comunemente si crede”.
Quanto al travisamento dei fatti e delle prove, il ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha precisato che “non è vero che questa responsabilità si riflette immediatamente sul magistrato, perché l'elemento che chiama in causa lo Stato non prevede un automatismo nei confronti del magistrato, il quale può essere chiamato in causa soltanto nel caso di negligenza inescusabile, e quindi con un'area di responsabilità più ridotta rispetto a quella per la quale viene chiamato in causa lo Stato” (Resoconto seduta n.380 del 24 febbraio 2015).
Secondo il senatore Ciro Falanga è assolutamente necessario evitare il rischio che il regime della responsabilità civile ponga “una cappa di piombo sull’attività interpretativa delle norme, determinando uno statico conformismo alla giurisprudenza della Cassazione che […] gli stessi giudici della Corte non auspicano, perché ovviamente si priverebbero di quelle sollecitazioni culturali effervescenti e dinamiche che giungono loro dalle sentenze di merito e dal contributo degli avvocati” (Resoconto stenografico, seduta n.354 del 19 novembre 2014).
Con la previsione del “travisamento del fatto o delle prove” quale ipotesi costitutiva di colpa grave, per Giancarlo De Cataldo “è prevedibile che le sentenze si orienteranno in chiave difensiva, attestandosi sulla difesa dell’esistente, ultimo baluardo di giudici intimiditi e gravati da un’organizzazione dei servizi strutturalmente deficitaria. Un po’ come accade per i medici, terrorizzati dalle azioni risarcitorie” ("Giustizia? Stanno rottamando pure i diritti". Giancarlo De Cataldo contro le riforme, “L’Espresso”, 11 marzo 2015).
La responsabilità diretta del giudice condiziona la sua attività e ne mette a rischio la terzietà
Secondo il senatore Lucio Barani, escludendo ogni ipotesi di responsabilità diretta dei magistrati in relazione al proprio operato, si è “sancito definitivamente il principio per il quale, a differenza di quanto avviene per tutte le altre categorie professionali, i giudici, in nome dell’indipendenza della magistratura, godono anche di una sorta d’irresponsabilità e di libertà di processare chiunque, anche in mancanza del più lontano e larvato indizio” (Resoconto stenografico della seduta n. 356, 20 novembre 2014)
“Un magistrato soggetto ad azione diretta della parte che sta giudicando non sarebbe più libero di giudicare senza condizionamenti perché, indipendentemente dell’esito dell’azione diretta, l’esistenza stessa di un numero potenzialmente illimitato di cause contro di lui ne condizionerebbe la libertà”. Così ha dichiarato Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, nell’audizione in Commissione Giustizia del 3 aprile 2012, nel corso della quale ha precisato che “la possibilità per la parte di esercitare immediatamente l’azione risarcitoria” implica “l’estromissione dal giudizio del magistrato sgradito alla parte”; egli, “a seguito dell’azione civile, avrebbe l’obbligo di astenersi […] per l’impossibilità dello stesso di continuare a giudicare colui che in quel momento è la sua controparte in un’azione civile” (Resoconto stenografico seduta n.304 del 3 aprile 2012). Secondo Michele Vietti, vaconsiderato che “l’azione risarcitoria diretta da parte del cittadino nei confronti del singolo giudice avrebbe effetti molto pericolosi in termini di numero di procedimenti” (Maurizio Gallo, “Ma i giudici sbagliano solo una volta su cento”, “Il Tempo”, 18 settembre 2013)
Il giudice è chiamato a rispondere dei danni da lui causati al pari di ogni altro dipendente pubblico
Nel corso dalla discussione del ddl n. 1070 al Senato, il presidente della Commissione Giustizia Francesco Nitto Palma ha affermato: “la nostra Costituzione, nel garantire l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, consente, contrariamente a quello che accade nei confronti di tutti gli altri dipendenti pubblici, […] di immaginare che l’azione nei confronti di un magistrato avvenga in termini indiretti”, con la conseguenza che, una volta accertata la colpa grave del magistrato, egli sarà tenuto a un risarcimento pari alla metà dello stipendio netto che guadagnava all’epoca del fatto, mentre la somma restante non può che ricadere sulla fiscalità generale e dunque su tutti i cittadini, ivi compreso, sul piano delle tasse, colui che attraverso l’azione risarcitoria ha ottenuto il diritto a essere risarcito (Resoconto stenografico seduta n.355 del 19 novembre 2014, Senato della Repubblica).
“A differenza di altre attività professionali […] l’attività del magistrato è caratterizzata dal fatto che egli causa comunque un danno ogniqualvolta prende una decisione. […] Il giudice, allora, potrebbe essere indotto, dal timore della responsabilità, a prendere la decisione che causa un danno alla parte che è nella condizione meno favorevole ad agire in giudizio per il risarcimento dei danni ovvero ad assumere una decisione che sia formalmente coerente con i precedenti orientamenti giurisprudenziali – dunque idonea a porlo al riparo da eventuali azioni risarcitorie – ma sostanzialmente non risponda alla domanda di giustizia della concreta vicenda esaminata. Pertanto, la legge sulla responsabilità civile dei magistrati è strutturata in maniera tale da salvaguardare la libertà di giudizio e trova ragione nel carattere accentuatamente valutativo dell’attività giurisdizionale, la quale, per essere correttamente svolta, deve essere ‘libera’ e non essere condizionata da ‘atteggiamenti difensivi’ di categoria” (Consiglio Superiore della Magistratura, Delibera in merito alle recenti proposte di modifica dell'attuale normativa che regola la responsabilità civile dei magistrati del 28 giugno 2011).
La responsabilità civile dei magistrati mina la loro indipendenza e la serenità del giudizio
In occasione dell’approvazione in Senato del ddl 1070 sulla responsabilità civile dei magistrati, il premier Matteo Renzi ha dichiarato “Chi sbaglia paga: deve valere anche per un magistrato. Se un magistrato sbaglia per dolo deve pagare come tutti gli operatori della società civile” (Ddl responsabilità delle toghe: via libera del Senato. Renzi: chi sbaglia paga deve valere anche per un magistrato, “Il Sole 24 Ore”, 20 novembre 2014). Sebbene i principi di autonomia e indipendenza della magistratura ostacolino la definizione di un regime risarcitorio per i danni causati nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, appare oggi necessaria una disciplina legislativa in grado di conciliare tali valori con quello del diritto al risarcimento per il cittadino danneggiato. Intervistato dal “Corriere della Sera” (Daria Gorodisky, “I magistrati ora affrontino i problemi aprendo la discussione sul proprio ruolo”, 25 Febbraio 2015), Luciano Violante afferma che al principio di autorità che rendeva i magistrati intangibili deve prevalere il principio di trasparenza: il magistrato, come chiunque eserciti un pubblico potere, deve giustificare continuamente il suo operato.
Durante la campagna referendaria del 1987, il giudice Giovanni Palombarini bollava come inaccettabile la responsabilità civile dei magistrati, in quanto “incrinerebbe la loro autonomia di giudizio” (Franco Recanatesi, “In pericolo l’autonomia dei giudici", “La Repubblica”, 3 marzo 1987).
Il magistrato e scrittore Giancarlo De Cataldo sostiene che “il principio è giusto: se un giudice sbaglia per dolo o per colpa grave, il cittadino deve essere risarcito. Il problema è che il diritto è attività di interpretazione delle leggi [...]: puoi essere punito se hai voluto favorire qualcuno ai danni di qualcun altro […] ma non per aver ‘spiegato’ una norma spesso oscura in un certo modo piuttosto che in un altro. E in ogni caso, a pagare dev’essere lo Stato e non il singolo giudice: altrimenti nessuno darà più torto al ricco” (Giancarlo De Cataldo, In giustizia, Rizzoli 2011, p. 31).
Di fatto, come affermato dall’allora presidente della Suprema Corte di Cassazione Ernesto Lupo, “la responsabilità del giudice, in linea di principio, limita sempre l'indipendenza” (Lupo: "Responsabilità mina indipendenza". Pdl: "Voto non può essere ignorato",“La Repubblica”, 3 febbraio 2012).