Uscita dell'Italia dall'Euro
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Il dibattito sull’uscita dell’Italia dall’euro non è stato solo oggetto della campagna politica per le elezioni europee, ma è anche un tema molto sentito dall’opinione pubblica. Dal 2007 i cittadini europei favorevoli all’euro sono lievemente diminuiti (dal 69% al 66%). Tra i paesi membri dell’Unione europea l’Italia è quello in cui tale consenso è diminuito maggiormente. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea nel giugno 2016, la cosiddetta “Brexit”, ha riacceso la discussione su questo tema, sul quale sono intervenuti tanto i rappresentanti più importanti dei partiti politici, quanto i più influenti economisti. Gli scontri retorici tra i politici e le dispute teoriche tra economisti sono tentativi di raccogliere, attorno al tema dell’euro, il consenso e gli interessi dei vari soggetti, oltre che di offrire proposte risolutive del disagio sociale, acuito dalla crisi economica. Per quanto riguarda le opinioni dei più importanti ed influenti economisti, quattro sono i nodi principali della discussione riguardante le conseguenze per l’economia italiana di un’uscita dall’euro: 1. se la svalutazione monetaria, resa possibile dall’uscita dall’euro, sia o meno un mezzo efficiente per rilanciare l’export e aumentare la produzione; 2. se vi sia o meno un adeguato riscontro, nell’evidenza storica di crisi valutarie comparabili, della “grande inflazione”, spesso evocata come conseguenza negativa per i paesi che lasciano l’eurozona; 3. se l’uscita dall’euro possa o meno facilitare il percorso di contenimento del debito pubblico; 4. se sia fattibile o meno un referendum sull’uscita dall’euro.
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Il dibattito sull’uscita dall’euro è un tema molto sentito dall’opinione pubblica. Tra i paesi membri dell’UE, l’Italia è quello in cui il consenso verso la moneta unica è diminuito maggiormente. Gli scontri tra politici ed economisti sono tentativi di raccogliere consenso e interessi di vari soggetti, oltre che di offrire proposte risolutive del disagio sociale, acuito dalla crisi economica.
L'euro ha portato depressione economica e divisione politica. La Germania rimane contraria ad una politica di trasferimenti di risorse all'interno dell'unione. Per salvare il progetto europeo è necessaria una transizione morbida fuori dall'euro, passando ad un sistema di "euro flessibile", un euro forte del nord e un euro più soft del sud, ridenominando i debiti in euro del sud.
“La moneta unica è stato un errore ma questo non implica che uscirne riparerebbe l'errore commesso”. Una riforma progressista dell'eurozona è possibile. L'unione monetaria ha subito lenti cambiamenti, smentendo le previsioni di una fine imminente dell'euro. L'unica uscita realistica dall'euro è a destra. La sinistra noeuro non ha spazio politico e un'uscita “da sinistra” è impraticabile.
La bassa produttività e il crescere dei crediti non performanti, preludio di possibili crisi bancarie, rendono l'Italia è l'anello debole dell'eurozona. Il tentativo di recuperare competitività mediante la svalutazione dei salari si è rivelato controproducente. L'Italia, che non cresce da un decennio, non sarà mai in grado di crescere in modo sostanziale all'interno dell'area euro con i vincoli imposti dal patto di stabilità. La frantumazione dell'eurozona è solo una questione di tempo.
Secondo Gallino, il negoziato per l’uscita dall’euro dovrebbe aprirsi con la dichiarazione di voler restare nella Ue. I costi paurosi per la recessione dalla Ue (sostanzialmente, inaccessibilità ai mercati Ue, restrizioni al commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di beni e servizi) sarebbero superiori ai costi di una sola uscita dall’eurozona.
L’uscita dall’euro è “giuridicamente” possibile, sebbene abbia un iter non predefinito, e può essere perseguita attraverso: referendum consultivo; revisione dei trattati europei; revoca dello status di Stato membro dell’eurozona; invocando clausole del diritto internazionale. Ad ogni modo, l’uscita dall’euro necessita di una forte volontà “politica” del Parlamento italiano.
Dal punto di vista giuridico, il referendum consultivo sull’uscita dall’euro è esplicitamente vietato dall’articolo 75 della Costituzione italiana e, strategicamente, avrebbe conseguenze dannose, promuovendo fughe di capitali.
L’uscita dell'Italia dall'euro comporta il pericolo di una contrazione della retribuzione dei lavoratori, salvaguardabile mediante limitazioni dei movimenti di capitale. L'uscita dall'euro non è un rimedio di sicura efficacia: sebbene, aumentando le esportazioni, potrebbe rianimare l'economia, non cancellerebbe d'incanto le inadeguatezze degli apparati produttivi.
Tra le conseguenze positive dell’uscita dell’Italia dall’euro (crescita reale del 1,2%, inflazione al 1,6%, saldo estero del 0,9%, diminuzione della disoccupazione del 1,3% e del debito pubblico del 6,5%) l’economista Bagnai menziona anche, grazie alla possibilità di manovre di bilancio espansive, l’aumento di un punto della quota salari.
Dato l’elevato debito pubblico, per l’Italia la monetizzazione del debito, conseguente all’uscita dall’euro, sarebbe sostanzialmente una forma di ripudio del debito e avrebbe pensati conseguenze sull’economia reale, impoverendo la popolazione. Inoltre, le aziende con debiti in euro contratti sui mercati internazionali si troverebbero a supportare un onere maggiore.
I contratti di debito stipulati secondo la legge italiana (il 98 % dei titoli di Stato) devono essere pagati nella moneta nazionale. In caso di uscita dall’euro, tutti i contratti vengono ridenominati (rapporto 1 a 1) nella neo-lira, che solo dopo si svaluterebbe. Lo Stato italiano non sostiene maggiori oneri e il cittadino italiano possessore di titoli di Stato italiani non subisce perdite.
L’uscita dall’euro farebbe aumentare la pressione inflazionistica (a doppia cifra e soprattutto sulle materie prime d’importazione) provocando una perdita del valore reale dei conti correnti, dei redditi dei lavoratori e dei pensionati e del potere di acquisto delle famiglie.
Una grande crescita dell’inflazione non ha riscontri in crisi valutarie storicamente comparabili. Ingigantire gli svantaggi dell’uscita dall’euro è una tecnica di propaganda per incutere timore nell’opinione pubblica. La crescita dell’inflazione è contrastabile con politiche di salvaguardia dei redditi dei lavoratori e avrebbe l’effetto positivo di cancellare parte del debito accumulato.
Il vincolo delle moneta unica ha determinato vantaggi per le economie forti del nord e svantaggi per quelle deboli del sud, ampliandone la divergenza. L’uscita dall’euro permetterebbe ai paesi membri di tornare a competere in termini non falsati, e la conseguente svalutazione monetaria comporterebbe l’incremento della competitività delle aziende, dell’export e della produzione.
L’aumento di competitività ottenuto con la svalutazione in seguito all’uscita dall’euro è un’illusione, gli effetti positivi sarebbero effimeri e di breve durata, poiché secondo il Centro Studi di Confindustria, le filiere globali riducono i vantaggi di competitività della svalutazione e poiché per aumentare la produzione occorrerebbe avere una solida base industriale.
L’euro è una moneta destinata a crollare quanto prima, sotto la spinta di nuove forze politiche euroscettiche e antisistema
La Brexit e l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti dimostrano che l’elettorato è sempre più “liquido”. La classe media dei paesi occidentali perde progressivamente il proprio potere d’acquisto, ancor più nei paesi dell’eurozona. Il disagio di ampi settori di elettorato viene intercettato da nuove forze politiche antisistema, che mirano all’uscita dalla moneta unica, sempre più impopolare tra i cittadini UE. Il crollo dell’euro è dietro l’angolo, soprattutto in caso di vittoria del Front National di Marine Le Pen in Francia.
L’euro ha portato notevoli vantaggi ai paesi che vi hanno aderito. L’aumento dei beni importati dall’estero ha portato ad un abbassamento generale dei prezzi, oltre che una maggiore scelta per il consumatore. L’euro ha garantito una generale stabilità dei prezzi e ha rafforzato il mercato europeo. Scegliendo di uscire dalla moneta unica, perderemmo questi vantaggi e rischieremmo un tracollo del sistema bancario, iperinflazione e svalutazione. Ritorneremmo quindi indietro di 60 anni; l’Europa perderebbe peso geopolitico a vantaggio della Russia e degli USA di Trump, sempre più isolazionisti.
Un euro flessibile, forte per il nord e più debole per il sud, per una fine morbida dell'euro che riporterebbe l'Europa alla prosperità
Secondo il premio Nobel per l'economia, Joseph Stiglitz, la costruzione dell'eurozona, che manifesta sin dall'inizio difetti strutturali nelle regole e nelle istituzioni, ha portato depressione economica e divisione politica. L'euro deve fronteggiare problemi insormontabili. In Europa i paesi guida non sembrano voler modificare le regole, diminuendo le divergenze per far funzionare l'area euro: la Germania rimane contraria ad una politica di trasferimenti di risorse all'interno dell'unione.
Per salvare il progetto europeo e riportare l'Europa alla prosperità, è necessaria una transizione morbida fuori dall'euro, con un divorzio amichevole, possibilmente passando ad un sistema di “euro flessibile”, vale a dire un euro forte del nord e un euro più soft del sud, ridenominando tutti i debiti in euro come debiti in “euro del sud”. L'euro flessibile è una strategia per incorporare i progressi già effettuati in materia di integrazione economica, fornendo lo spazio per riforme orientate ad una maggiore cooperazione e ad una rinnovata solidarietà politica.
La moneta unica è stato un errore ma questo non implica che uscirne riparerebbe l'errore commesso
Secondo Guido Iodice, di keynesblog,“La moneta unica è stato un errore ma questo non implica che uscirne riparerebbe l'errore commesso: il rischio è che la cura sia peggiore della malattia”.
La tesi dell'impossibilità politica di riformare l'unione monetaria è smentita dai fatti, come l'acquisto massiccio di titoli di Stato da parte della Bce. L'unione monetaria ha subito lenti cambiamenti, che hanno smentito le previsioni di quanti davano per imminente la fine dell'euro. Una riforma progressista dell'eurozona è possibile.
La sinistra, sia italiana che europea, che sostiene l'uscita dall'euro e si prepara a fantomatici piani B, non riuscirebbe ad ottenere un consenso sufficiente per avere uno spazio d'azione politico e un'uscita “da sinistra” dall'euro non può essere messa in pratica, soprattutto perché l'indicizzazione dei salari, che l'uscita “da sinistra” presuppone, renderebbe la svalutazione inefficace e recessiva. L'unica uscita realistica dall'euro è a destra.
La proposta della sinistra dovrebbe essere “un passo indietro nel processo di integrazione, senza cadere nel burrone della dissoluzione della moneta unica. Solo così se ne potranno fare, in seguito, due avanti”.
L'Italia è l'anello debole dell'area euro. La frantumazione dell'eurozona è solo una questione di tempo
La bassa produttività e il crescere dei crediti non performanti, preludio di possibili crisi bancarie, rendono l'Italia è l'anello debole dell'eurozona. Il tentativo di recuperare competitività mediante la svalutazione dei salari si è rivelato controproducente. L'Italia, che non cresce da un decennio, non sarà mai in grado di crescere in modo sostanziale all'interno dell'area euro con i vincoli imposti dal patto di stabilità. L'economia italiana è così vulnerabile che alla fine finirà in una fase recessiva e di aumento del rapporto debito pubblico/Pil e della disoccupazione, soprattutto al sud. A sua volta, questo stato di permanente sottosviluppo acuirà il malcontento politico e l'ascesa del populismo, spingendo gli italiani a seguire il Regno Unito e a votare per l'uscita dall'Unione Europea, innescando un effetto domino in tutto il continente, che porterebbe alla fine al declino e al fallimento dell'Unione Europea. Secondo i sondaggi, quasi metà degli italiani vuole uscire dall'euro. La frantumazione dell'eurozona è solo una questione di tempo.
Uscire dall'euro restando nell'Unione europea
"Per recedere dall’eurozona basta far ricorso all’articolo 50 del Trattatto sull’Unione europea, che stabilisce che 'ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione'. [...] Lo Stato che decide di recedere notifica l’intenzione al Consiglio europeo. L’Unione negozia e conclude un accordo sulle modalità del recesso. L’accordo è concluso dal Consiglio a nome dell’Unione. [...] Il negoziato per l’uscita dall’euro dovrebbe aprirsi con la dichiarazione di voler restare nella Ue. I costi per la recessione dalla Ue sarebbero superiori ai costi di una sola uscita dall’eurozona. Uno Stato che uscisse oggi dall’Ue si troverebbe dinanzi ad altri 27 Stati, ciascuno dei quali potrebbe imporgli ogni sorta di restrizioni al commercio, oneri doganali, aumenti del prezzo di beni e servizi. L’impossibilità di accedere ai mercati Ue costringerebbe uno Stato ad affrontare costi di entità paurosa". Luciano Gallino, Perché l'Italia può e deve uscire dall’euro, "Repubblica", 22 settembre 2015.
Grillo: “Se queste richieste [abolizione del Fiscal Compact, adozione dell’eurobond, NdR] non saranno accettate, lanceremo un referendum per l’uscita dall’euro”
L’uscita dall’euro è “giuridicamente” possibile, sebbene abbia un iter non predefinito e complesso.
L’uscita dalla moneta unica può essere perseguita: attraverso un referendum consultivo; con una revisione dei trattati europei; con la revoca dello status di Stato parte dell’eurozona; invocando clausole del diritto internazionale.
Ad ogni modo, l’uscita dall’euro, non impedita dalla normativa vigente, necessita di una forte volontà “politica” del Parlamento italiano.
Secondo Enzo Cannizzaro, ordinario di Diritto dell’Unione Europea presso l’Università “La Sapienza” di Roma, “Sia dal punto di vista giuridico sia da quello della politica europea. Non si può fare: questo tipo di referendum non è previsto dall’art. 75 della nostra Costituzione che, al contrario, lo vieta esplicitamente” (Nathania Zevi, Il referendum sull’euro? “Un'idiozia", “Panorama”, 19 ottobre 2012). Inoltre, un referendum consultivo sull'uscita dall'euro avrebbe conseguenze dannose sui mercati finanziari e promuoverebbe la corsa agli sportelli e fughe di capitali.
Sebbene potrebbe rianimare l'economia, l'uscita dall'euro non cancellerebbe, d'incanto, le inadeguatezze degli apparati produttivi
Alberto Bagnai, punto di riferimento del dibattito sulla crisi dell'eurozona, nel libro L'Italia può farcela (Il Saggiatore, 2014), oltre ad argomentare la tesi secondo cui la crisi dell'euro origina da un “prolungato squilibrio distributivo, nel quale la dinamica dei salari reali non ha tenuto il passo con quella della produttività”, espone quelli che sono, in base ad analisi svolte mediante un modello econometrico, gli “esiti economici per l'Italia di una eventuale dissoluzione dell'eurozona”: entro tre anni dall'uscita dall'euro, l'economia italiana avrebbe una crescita reale del 1,2%, l'inflazione al 1,6 % e un saldo estero dello 0,9%. Rispetto alle stime ottimistiche del Fondo Monetario internazionale con l'Italia nell'euro, l'uscita dall'euro permetterebbe una diminuzione della disoccupazione del 1,3% e del debito pubblico del 6,5%. Inoltre, Il riallineamento del cambio renderebbe possibile manovre di bilancio espansive, i cui effetti sarebbero la creazione di 1 milione di posti di lavoro e, contro la tesi secondo cui la svalutazione deprime la quota salari sostenuta da coloro che Bagnai chiama economisti “de sinistra”, l'aumento di un punto della quota salari.
Vengono inoltre esposte le tesi anti-euro di due studiosi, di orientamenti politici differenti: quella del sociologo Luciano Gallino e quella del prof. Claudio Borghi Aquilini, responsabile economico della Lega Nord. Il primo evidenzia in particolare lo stretto legame tra il pensiero neoliberista dominante e l’euro, che ha portato al taglio della spesa sociale e alla precarizzazione del lavoro. Il secondo rileva come l’euro sia la principale causa della perdita di competitività dell’industria italiana.
Se l'imponderabilità di decisioni politiche imprevedibili e gli opposti furori ideologici (il catastrofismo dei pro-euro e l'ingenuità degli anti-euro), unita alla debolezza dei modelli previsionali e alla non univocità della teoria economica, rendono difficoltoso prevedere gli scenari successi ad una crisi dell'euro, alcune indicazioni possono essere tratte dall'esperienza storica delle maggiori crisi valutarie di paesi ad alto reddito cui abbiano fatto seguito abbandoni dei precedenti sistemi di cambio.
Di contro al miglioramento della bilancia commerciale, non sempre le esportazioni spingono la crescita e l'inflazione consuma progressivamente il vantaggio delle svalutazioni. L'occupazione spesso non cresce. Nondimeno, il più grande motivo che può giustificare timori nei confronti della fuoriuscita dell'Italia dall'euro è dettato dal pericolo di una contrazione della retribuzione dei lavoratori, che può essere salvaguardata mediante limitazioni dei movimenti di capitale.
L'uscita dall'euro non è un rimedio di sicura efficacia: Sebbene potrebbe rianimare l'economia, non cancellerebbe d'incanto le inadeguatezze degli apparati produttivi, anzi, rischierebbe di accentuare drammaticamente lo squilibrio economico tra centro-nord e centro-sud.
Uscire dalla moneta unica significherebbe bancarotta
Secondo il principio giuridico lex monetae, espresso nell’ordinamento italiano del Codice Civile, i contratti di debito stipulati secondo la legge italiana (il 98 % dei titoli di Stato) devono essere pagati nella moneta nazionale. In caso di uscita dall’euro, la valuta viene convertita in neo-lira secondo un rapporto di 1 a 1. Tutti i contratti vengono ridenominati nella nuova valuta. Subito dopo la neo-lira si svaluterebbe. Lo Stato italiano non sostiene un maggior onere di costi. Il cittadino italiano possessore di titoli di Stato italiani non subisce perdite, mentre la perdita per i possessori esteri dei titoli di Stato italiani, siano essi privati cittadini o banche, sarebbe correlata alla svalutazione.
Il vero nemico della sostenibilità del debito pubblico non è la svalutazione ma la deflazione, che aumenta il valore reale del debito esistente. Il rialzo dei prezzi e la diminuzione del potere d’acquisto della moneta priva il creditore di una quota di valore che gli appartiene a vantaggio del debitore. La diminuzione dei prezzi e l’aumento del potere d’acquisto della moneta priva il debitore di una quota del valore che gli appartiene a vantaggio del creditore.
Il problema dell’Italia è l’elevato livello di debito pubblico, sopra il 130 per cento del PIL. In questa situazione due sono le sole strade percorribili: o ridurre le spese o dichiarare fallimento. Se l’uscita dall’euro permettesse all’Italia di riacquisire sovranità nazionale e monetizzare il debito, bisognerebbe considerare che una monetizzazione del debito, al di là di specifiche differenze, è sostanzialmente una forma di default, cioè di ripudio del debito. Sia il default sia la monetizzazione avrebbero pesanti conseguenze sull’economia reale ed impoverirebbero la popolazione.
Inoltre, la monetizzazione avrebbe come effetto negativo un forte aumento dell’inflazione. Ulteriore conseguenza negativa dell’abbandono della moneta unica sarebbe quella per cui le aziende con debiti in euro contratti sui mercati internazionali si troverebbero a sopportare un onere maggiore.
Pensare che uscire dall’euro apra una strada facile per ridurne l’onere è illusorio.
Mario Draghi: “I paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione”
Una grande crescita dell’inflazione non ha riscontri adeguati nell’evidenza storica di crisi valutarie comparabili. Ingigantire gli svantaggi dell’uscita dall’euro è un atteggiamento comunicativo del potere politico mirante ad incutere timore nell’opinione pubblica. La crescita dell’inflazione è contrastabile con politiche di salvaguardia dei redditi dei lavoratori (ancoraggio al costo della vita degli stipendi e delle pensioni, controllo degli scambi di capitali e merci) e può avere aspetti positivi: diminuzione di tassi d’interesse reali e cancellazione di parte del debito accumulato.
Inoltre, nel 2016, in ben 16 paesi dell’Eurozona è ancora presente il fenomeno della deflazione (Ue-19, conferma rallentamento deflazione, “Ansa”, 16 giugno 2016), seppur in lieve diminuzione. Quindi un leggero aumento dell’inflazione sarebbe auspicabile per una piena ripresa economica dell’eurozona.
L’uscita dall’euro, insieme alla conseguente svalutazione e monetizzazione del debito, farebbero aumentare la pressione inflazionistica. Un aumento dell’inflazione a doppia cifra non solo provocherebbe una perdita del valore reale dei conti correnti, ma avrebbe effetti negativi per gli interessi personali dei singoli lavoratori a reddito fisso e dei pensionati, con perdita del potere d’acquisto delle famiglie e importante aumento dei prezzi dei beni importati. Coloro che auspicano l’uscita dall’euro hanno dimenticato la spirale svalutazione-inflazione che contraddistingueva l’economia italiana degli anni Settanta e Ottanta. In Italia in particolare si verificavano ripetute svalutazioni competitive – anche conseguenza della perdita di competitività causata da un’inflazione eccessiva – volatilità del cambio, interessi sui debiti a due cifre, nonché un’inflazione più alta che in qualsiasi altro paese che si mangiava il potere d’acquisto di salari e pensioni.
L’uscita dall’euro permetterebbe all’Italia di svalutare la propria moneta, aumentando le esportazioni e la produzione
Poiché la competitività è misurata dal costo del prodotto, la svalutazione monetaria conseguente all’uscita dall’euro permetterebbe l’incremento della competitività delle aziende, dell’export e della produzione, nonché della concorrenzialità dei servizi turistici. La divergenza tra le economie del Nord, in particolare la Germania, e quelle del Sud, tra cui anche l’Italia, dipende dal fatto che, con l’introduzione dell’euro, si sono unite attraverso il forte vincolo di una moneta comune economie deboli ad economie forti, determinando svantaggi (rivalutazione e dipendenza dal credito) per le prime e vantaggi (svalutazione e dipendenza dall’export) per le seconde. In questo senso si potrebbe dire che l’uscita dall’euro permetterebbe ai paesi membri di tornare a competere in termini non falsati, laddove viceversa l’euro è per la Germania una lira mascherata e per l’Italia un marco mascherato. Risulta quindi strategico per Il nostro paese abbandonare volontariamente l’euro, prima che sia la situazione del mercato a deciderlo, sia con riguardo alla competitività che alla crescita economica e alla finanza pubblica. Gli equilibri finanziari internazionali devono fissare il cambio.
La svalutazione monetaria intesa come mezzo per rilanciare la produzione e la vendita di prodotti nazionali all’estero, nonché la cosiddetta “uscita dall’euro” che essa presuppone, è uno strumento inadeguato. L’aumento di competitività ottenuto con la svalutazione in seguito all’uscita dall’euro è un’illusione, gli effetti positivi sarebbero effimeri e di breve durata.
Secondo il Centro Studi di Confindustria, le cause che hanno contribuito a determinare l’effetto della perdita di efficienza della svalutazione monetaria come mezzo per rilanciare la vendita di beni nazionali all’estero sono le seguenti: a) le filiere globali riducono i vantaggi di competitività della svalutazione; b) manca il credito per finanziare la produzione e l’export; c) i tempi per vedere gli effetti positivi della svalutazione si sono dilatati; d) se tutti svalutano, nessuno ci guadagna; e) per aumentare la produzione occorre avere una solida base industriale, che i PIGS non hanno. È importante notare inoltre che uscire dall’unione monetaria europea significa uscire dall’Unione europea, con la conseguente assenza di un accordo commerciale con l’Europa