Il comportamento è determinato dai geni
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
“Tutti i componenti noti della mente, compresa la volontà” hanno “una base neurofisiologica subordinata all'evoluzione genetica per selezione naturale”, scriveva Edward Osborne Wilson in Sociobiologia. La nuova Sintesi (Zanichelli, 1975).
Questa affermazione costituisce il nodo centrale di un programma di ricerca e di una visione del mondo e della natura umana di enorme influenza nella nostra epoca. Ma è una visione scientificamente fondata? Molti specialisti sostengono il contrario: essa si basa su una visione riduzionista della scienza e dell'evoluzione, che considera i fenomeni come somma delle proprietà delle sue parti costitutive; se ciò funziona nella meccanica classica, pone problemi con gli organismi viventi, e, in particolar modo, con gli “animali sociali” e culturali come l'uomo. Progressi in biologia hanno rivelato tutta una serie di meccanismi di variazione e trasmissione di tratti autonomi rispetto alla replicazione genica: il genocentrismo della Sintesi Moderna perde la sua efficacia esplicativa anche rispetto alla sola dimensione “fisiologica” del vivente. Perché allora esso ci suona così plausibile, tanto da estenderlo allo studio del comportamento? È una scienza pop – dicono i critici – che millanta autorevolezza scientifica per spiegazioni ad hoc che giustificano lo status quo della società: se la natura umana è immutabilmente determinata dai suoi geni, non c'è politica che possa cambiarla, e l'uomo sarà sempre in darwiniana competizione con i suoi simili.
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
E.O. Wilson scriveva: “Tutti i componenti noti della mente, compresa la volontà” hanno “una base neurofisiologica subordinata all'evoluzione genetica per selezione naturale”. Ciò è scientificamente fondato? Molti sostengono di no: essa si basa su una visione riduzionista della scienza e dell'evoluzione. Perché allora ci suona così plausibile, tanto da estenderla allo studio del comportamento?
L’approccio del riduzionismo genetico non è accettabile: la complessità della biologia non può essere compresa se la realtà viene spezzettata in parti tra loro autonome. Schemi dualistici come natura/cultura, eredità genetica/variazione ambientale, rispondono a un riduzionismo che riconosce solo cause univoche. La relazione tra l’uomo e il suo ambiente non è unidirezionale, ma dialettica.
Alle critiche dell'impostazione riduzionista del determinismo genetico, i sociobiologi rispondono rivendicando la bontà del metodo. Scomporre i fenomeni nelle loro componenti minime e studiarne isolatamente le proprietà è il processo attraverso il quale la scienza ha compiuto tanti progressi. Nell'osservazione scientifica non si può fare a meno di un approccio riduzionista.
Il comportamento umano è determinato sia dalla cultura che dalla biologia: la prima ha una trasmissione d’informazioni attraverso l'imitazione, l’altra è determinata da unità d’informazione fisiologica. Per l'etologo Dawkins, padre del termine “meme”, le idee vanno da un cervello all'altro e le migliori vengono selezionate. È possibile spiegare le due evoluzioni con gli stessi principi.
La teoria dei “memi” ripete l'errore epistemologico del neodarwinismo della Sintesi Moderna: spezzettando l'interezza del comportamento umano in unità d'informazione, fra loro isolate, si applica una concezione riduzionista della scienza, incapace di comprendere i fenomeni nella loro totalità. Inoltre, la trasmissione culturale è, almeno in molti casi, intenzionale.
Il “consenso interazionista”, che caratterizza le scienze sociali, viene contestato in molti ambiti di studio: da una parte, l'indirizzo psicologico, che mira a riunire mente e corpo in un unico complesso; dall'altro, sono gli stessi evoluzionisti che operano al di fuori del consesso del neodarwinismo a contestare il rigido impianto del determinismo genetico.
Nello studio naturalistico del comportamento non tutto è fissato per via genetica. Ciò è compatibile con l’idea d’interazione tra una natura geneticamente determinata con una culturalmente codificata. È ciò che chiamano “consenso interazionista”, la cui versione radicale è formulata da Dawkins con i “memi”: unità d’informazione culturale, con una loro dinamica di trasmissione e selezione.
Nel Neodarwinismo della vita è centrale il ruolo del gene del DNA, tanto che è impossibile pensare a spiegazioni alternative. I sociobiologi ipostatizzano le cause dei fenomeni, assegnando una “causa ultima” ai geni. Un’alternativa a questa spiegazione onnicomprensiva viene dalla Nuova Epigenetica, impostata su un pluralismo causale che vede almeno 5 fonti distinte di variazione ed ereditabilità.
Secondo l'ipotesi formulata da Edward O. Wilson – con un approccio che mira ad applicare alla sociologia i metodi delle scienze basati sulla misurabilità – la natura umana ha una dimensione innata, veicolata dalle strutture ereditarie dei geni, costituita da un insieme di tratti fisici e comportamentali, ognuno dei quali è un adattamento e ha una propria storia evolutiva.
L'idea che la natura umana sia tutta determinata per via genetica non è scientificamente fondata. Se il comportamento umano riflette una natura innata, a cosa serve l’educazione o la creazione di condizioni di vita migliori? Le argomentazioni sociobiologiche suonano plausibili perché sono spiegazioni ad hoc: la sociobiologia si presenta come una scienza pop, semplice, disincantata e convincente.
Il riduzionismo non è adatto a spiegare la complessità: è necessario un nuovo pluralismo scientifico
Agli studiosi – in particolare scienziati sociali – che muovono critiche nei confronti dell'impostazione riduzionista del determinismo genetico, i sociobiologi come Edward O. Wilson, fondatore della disciplina, rispondono rivendicando la bontà del metodo riduzionista per quanto riguarda la ricerca scientifica e la sua esattezza. Scomporre i fenomeni nelle loro componenti minime e studiarne isolatamente le proprietà, per dedurre da queste le proprietà complessive degli insiemi più ampi che contengono le parti osservate è il processo fondamentale attraverso il quale la scienza occidentale ha compiuto tanti progressi. Evitare un'impostazione riduttiva, più che riduzionista, è vitale per le teorie nel loro quadro generale, ma per quanto riguarda l'osservazione scientifica non si può fare a meno di un approccio riduzionista – termine che si libera in questo senso del significato deteriore assegnatogli dai suoi critici.
Un approccio naturalistico allo studio del comportamento umano è di per sé legittimo e anzi auspicato. Tuttavia, sono le metodologie applicate dal riduzionismo genetico a non essere accettabili: la complessità della dimensione biologica nella sua interezza non può essere compresa da schemi di pensiero attraverso i quali la realtà viene spezzettata arbitrariamente in parti tra loro isolate e autonome la cui interazione viene pensata in maniera preconcetta.
Schemi dualistici come esterno/interno, natura/cultura, eredità genetica/variazione ambientale, rispondono tutti al paradigma riduzionista che riconosce solo cause singole e univoche, lasciando spazio casomai a contingenti cause accessorie. La complessità della realtà, e in particolare quella che caratterizza i fenomeni biologici, sfugge a questa visione ristretta dei rapporti causali nella natura: gli organismi non possono essere compresi a partire dall'estrapolazione delle proprietà delle loro parti costitutive. La relazione tra un organismo e il suo ambiente – specie quello sociale – non è unidirezionale, ma dialettica. Il ruolo della storia e della contingenza rende insufficiente ogni analisi statica dei fenomeni.
A determinare il comportamento umano sono il corrispettivo “mentale” dei geni, i “memi”
La cultura determina il comportamento umano almeno quanto la sua dimensione biologica: come la seconda è interamente determinata da unità discrete di informazione fisiologica, il cui unico interesse è quello di replicare sé stesse, così la cultura è animata da una dinamica di trasmissione di porzioni minime di informazione, di contenuti mentali o di pratiche attraverso il meccanismo dell'imitazione. Secondo l'etologo Richard Dawkins, padre del termine “meme”, le idee saltano da un cervello all'altro, e le migliori (rispetto al contesto) vengono selezionate, proprio come avviene per i geni in relazione alla loro fitness, perpetuandosi per lunghi periodi di tempo. L'evoluzione della cultura umana segna dunque un salto di qualità rispetto a quella biologica, ma funziona con meccanismi analoghi ed è passibile di esser spiegata secondo gli stessi principi, quelli delle scienze naturali.
Una trattazione naturalistica delle leggi del comportamento umano non è un'ipotesi da respingere in quanto tale. Tuttavia, il tentativo proposto dal programma sociobiologico e dalla teoria dei “memi” dell'etologo britannico Richard Dawkins ripete l'errore epistemologico fondamentale del neodarwinismo della Sintesi Moderna: spezzettando l'interezza del comportamento umano in unità discrete d'informazione, fra loro indipendenti e isolate, si applica una concezione riduzionista della scienza, incapace di comprendere i fenomeni nella loro totalità. Se anche si accetta l'impianto riduzionista del genocentrismo, però, l'analogia fra il meccanismo di trasmissione genetica dei tratti fisici e quello di trasmissione dei tratti culturali non regge: mentre la replicazione dei geni è un processo fisico-chimico sostanzialmente cieco, la trasmissione culturale è, almeno in molti casi, intenzionale; inoltre se nella replicazione genetica la copiatura perfetta è la norma e la variazione un accidente possibile, nell'imitazione, meccanismo di trasmissione dei memi, ciò che avviene è piuttosto il contrario.
Separare una dimensione “biologica” da una culturale per poi affermarne la complementarietà non fa che riflettere una concezione riduzionista della biologia
Uno studio completamente naturalistico e materialistico del comportamento umano non implica che ogni aspetto del biogramma umano sia determinato per via genetica: secondo lo stesso Wilson, fondatore della sociobiologia, la spiegazione biologica dei comportamenti sociali è compatibile con un approccio che vede interagire una natura umana geneticamente determinata con un'altra culturalmente codificata, i cui tratti sono analogamente soggetti a selezione. Una separazione di questo tipo è data insensibilmente per scontata nel panorama antropologico del secondo Novecento, in quello che può essere a ragione chiamato “consenso interazionista”. Posizioni interazioniste sono quelle che collocano lungo una linea temporale continua l'evoluzione biologica e quella culturale, sostenendo che la prima ha da un certo momento in poi permesso la seconda, o che certi tratti comportamentali sopravvivono oggi come vestigia di un passato ancestrale totalmente naturale. O ancora una posizione di interazionismo radicale è quella formulata da Richard Dawkins con i suoi “memi”, le unità discrete di informazione culturale capaci di una loro specifica dinamica di trasmissione e selezione adattativa.
Il “consenso interazionista”, che caratterizza le scienze sociali, viene contestato da studiosi provenienti sia dalle scienze sociali che da quelle naturali: da una parte, l'indirizzo psicologico, che mira a riunire mente e corpo in un unico complesso, solo artificiosamente separato nella cornice della cultura occidentale, e che contesta i troppo semplici interazionismi che sfociano in tentativi di riduzione fisiologica della cultura; dall'altro, sono gli stessi evoluzionisti che operano al di fuori del consesso del neodarwinismo a contestare il rigido impianto del determinismo genetico dell'ortodossia della “Sintesi Moderna”: il genetista Richard Lewontin, per esempio, contesta la separazione tra organismo e ambiente, che obbliga a pensare le forme viventi in termini di dimensione biologica innata – i geni – e dimensione variabile e contingente, determinata a vario grado dall'ambiente fisico e da quello sociale, o, nel caso di Homo sapiens, culturale. Per Lewontin, la continuità tra organismo e ambiente smentisce ogni possibilità di riduzione nei confronti dell'uno o dell'altro termine: le reali dinamiche di determinazione vanno studiate nella loro dimensione relazionale.
L'approccio “genocentrico” è sbagliato e non solo in relazione al comportamento: una certa scienza abusa della spiegazione genetica
La sociobiologia soffre di un grave errore metodologico: nella spiegazione neodarwiniana della vita è considerato talmente centrale il ruolo del gene identificato con le molecole del DNA, che è impossibile, all'interno di questa cornice teorica, pensare a spiegazioni alternative dell'insorgenza di novità evolutive all'infuori del potere dei geni. Ciò porta i sociobiologi a ipostatizzare le cause dei fenomeni che osservano, assegnando una inverificabile “causa ultima” nei geni per ogni comportamento che si vuole spiegare. Tale critica è valida tanto per la sociobiologia quanto per ogni forma di determinismo genetico. Oggi la minaccia teorica più autorevole a questa spiegazione onnicomprensiva del vivente viene dalla Nuova Epigenetica, una tradizione di ricerca impostata intorno a un pluralismo causale che vede almeno cinque fonti distinte di variazione ed ereditabilità negli organismi viventi: sintesi proteica basata sulla replicazione del DNA, replicazione della cromatina e strutture cellulari non-genetiche, fase dello sviluppo prenatale, cure parentali e – prerogativa esclusivamente umana – pratica linguistico-simbolica.
Il comportamento umano è interamente codificato dai geni. La natura umana è fissata per via genetica
“Tutti i componenti noti della mente, compresa la volontà” hanno “una base neurofisiologica subordinata all'evoluzione genetica per selezione naturale”: questa è l'ipotesi formulata da Edward O. Wilson nel volume del 1975 Sociobiologia. La nuova Sintesi (Zanichelli), che avviò la linea di ricerca che mira ad applicare nella sociologia, ferma a un livello semplicemente descrittiva, i metodi delle scienze basati sulla misurabilità. La natura umana, lungi dall'essere qualcosa di totalmente plastico, come vorrebbero antropologi, sociologi e scienziati sociali, ha una dimensione innata veicolata dalle strutture ereditarie dei geni ed è costituita da un insieme di tratti fisici e comportamentali ognuno dei quali rappresenta un adattamento e ha una propria storia evolutiva: alcuni tratti hanno utilità attuale, altri l'hanno avuta in epoche arcaiche, altri rappresentano adattamenti incipienti; ma ognuno ha una sua ragione, indubitabile perché “naturale” e più forte di ogni buon proposito morale: col darwinismo si giustificano tribalismo, xenofobia, avidità e menzogna, guerra. La decodificazione della natura umana è la via per un “codice etico geneticamente esatto, e quindi assoluto”.
L'idea che la natura umana sia interamente determinata per via genetica non è scientificamente fondata e trova le ragioni del suo fascino e della sua plausibilità nelle implicazioni politiche del paradigma cui risponde, conferendogli l'autorevolezza della scienza. Se il comportamento umano riflette una natura innata, se risponde alle leggi naturali della trasmissione del DNA e al rigido determinismo da parte dei geni, a cosa valgono educazione e istruzione, a cosa può servire agire sull'ambiente sociale per permettere condizioni di vita migliori e, in questo modo, ridurre, ad esempio, la criminalità? La teoria sociobiologica giustifica una società della diseguaglianza, facendo ricadere sotto l'ombrello della selezione naturale le dinamiche della competitività economica del modello capitalista. Le argomentazioni sociobiologiche suonano plausibili perché sono spiegazioni ad hoc: il dogma per il quale ogni tratto comportamentale deve avere una causa genetica porta a ipostatizzare arbitrariamente geni specifici, laddove si possono ipotizzare cause alternative e più complesse; la sociobiologia si presenta come una scienza pop, semplice, disincantata e convincente.