Allargamento a Est dell’UE
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
L’Unione Europea (UE) si trova di fronte a una scelta storica: estendere i propri confini verso Est, includendo Ucraina, Moldavia e i Paesi dei Balcani occidentali, oppure procedere con cautela, per non generare ripercussioni interne. Il dibattito sull’allargamento verso Est si è riacceso con forza dopo il riaccendersi del conflitto russo-ucraino nel 2022. In pochi mesi l’UE ha concesso a Ucraina e Moldavia lo status di Paesi candidati (giugno 2022) e, su raccomandazione della Commissione, nel dicembre 2023 tutti i 27 hanno concordato di aprire i negoziati di adesione. Parallelamente, è stata riconosciuta la candidatura della Bosnia-Erzegovina (2022) e nel giugno 2022 l’UE ha finalmente avviato i colloqui con Albania e Macedonia del Nord dopo anni di rinvii. A vent’anni dal “big bang” del 2004, quando dieci Paesi entrarono nell’UE simboleggiando la riunificazione pacifica del continente, l’allargamento è tornato in cima all’agenda di Bruxelles come “imperativo geopolitico”. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha persino parlato di “riunificazione dell’Europa” e fissato riforme per “preparare l’Unione ad oltre 30 membri” entro il prossimo decennio. Il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, in un discorso del 2023, ha invitato l’UE a “essere pronta, da entrambe le parti, per l’allargamento entro il 2030”, definendolo un obiettivo ambizioso ma necessario.
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
L’allargamento è una necessità geopolitica: integrare Ucraina, Moldavia e Balcani garantisce stabilità e difesa comune contro minacce esterne.
Una UE a 30 o più membri sarebbe ingovernabile senza riforme: veto nazionali e regole attuali potrebbero bloccare decisioni cruciali, indebolendo l’Unione.
La prospettiva UE incentiva le riforme e consolida lo stato di diritto nei Paesi dell’Est, completando la riunificazione democratica dell’Europa.
Corruzione, fragilità dello stato di diritto e tensioni etniche nei Paesi candidati minacciano di importare instabilità e conflitti all’interno dell’UE.
Nuovi membri portano crescita: un mercato unico ampliato, risorse e manodopera qualificata, opportunità di investimento e sviluppo per tutta l’Unione.
Integrare economie meno sviluppate richiederà enormi risorse (fondi UE, agricoltura) e potrebbe alimentare migrazioni interne, creando scontento nei Paesi più ricchi.
Mantenere le promesse di adesione rafforza la credibilità dell’UE nei Balcani e dintorni, sottraendo questi Paesi all’influenza di Russia e altre potenze.
L’allargamento dell’Ue a Est porta sicurezza geopolitica e stabilità
L’allargamento verso Est viene presentato dai favorevoli come un imperativo per la sicurezza dell’Europa. L’aggressione russa all’Ucraina ha dimostrato che lasciare i Paesi limitrofi fuori dall’UE li rende vulnerabili a influenze ostili. Integrare Ucraina e Moldavia è considerato un atto di difesa collettiva: significa estendere la protezione del mercato unico e delle istituzioni UE a nazioni che oggi sono in prima linea contro Mosca. “L’Unione Europea è sempre stata un progetto di pace. È la miglior risposta all’espansionismo violento della Russia”, scrivono i presidenti dei Parlamenti tedesco e ucraino, invocando l’adesione di Kiev. Con l’ingresso di Ucraina, Moldavia e Balcani, l’UE consoliderebbe un anello di stati democratici alleati, riducendo le “zone grigie” sfruttabili dal Cremlino. La presidente moldava Maia Sandu ha più volte detto che l’UE deve dare “chiarezza e impegno” ai candidati, altrimenti quei Paesi rischiano di tornare sotto pressione russa. L’allargamento è dunque visto come investimento strategico: “un imperativo geopolitico”, nelle parole di Ursula von der Leyen, per assicurare una “cintura” di stabilità attorno all’Unione. La Commissione stessa nel 2025 ha ribadito che l’invasione russa ha trasformato l’allargamento in una priorità di sicurezza europea. Con nuovi membri ad Est, l’UE disporrebbe di maggior profondità strategica e peso internazionale: l’Ucraina da sola aggiungerebbe capacità agricole, risorse naturali (es. minerali) e un vasto esercito esperto, rafforzando la deterrenza collettiva. Non a caso, il Consiglio Europeo ha promesso a Kiev che “il suo futuro è nell’UE” anche per inviare a Putin un segnale: l’Ucraina non sarà lasciata in balia di Mosca. Infine, integrare i vicini riduce i rischi di conflitti regionali: i Balcani occidentali dentro l’UE verrebbero vincolati da regole comuni, smussando tensioni etniche che storicamente hanno causato guerre. Nel 2004 l’allargamento ai Paesi ex comunisti ha portato l’Europa a vivere il periodo più lungo di pace e prosperità condivise. Ripetere quell’esperienza ad Est oggi è, secondo i favorevoli, il modo migliore per blindare la pace nel continente e completare l’opera iniziata nel dopoguerra, riunificando finalmente l’Europa libera.
Madeleine Maresca, 12 dicembre 2025
UE è impreparata all’allargamento. Rischio di paralisi decisionale
I critici avvertono che un allargamento rapido, senza adeguate riforme interne, metterebbe a rischio il funzionamento stesso dell’Unione. Con l’ingresso di fino a 10 nuovi Stati (Ucraina, Moldavia, forse Georgia e i 6 Balcani occidentali), le attuali strutture istituzionali dell’UE sarebbero sotto enorme pressione. Oggi, a 27 membri, l’Unione già fatica a prendere decisioni unanimi su temi sensibili: il caso del veto ungherese che nel 2023 ha bloccato l’apertura dei negoziati con Kiev e Chișinău è emblematico. “Senza riforme, un’UE allargata rischierebbe la paralisi, con i problemi di efficacia e democrazia che già vediamo a 27 destinati solo ad aumentare”, avverte l’europarlamentare Sandro Gozi. Il nodo principale è la regola dell’unanimità in molti settori: con più Stati attorno al tavolo, è quasi garantito che su ogni dossier cruciale emerga il veto di qualcuno (oggi è Orbán, domani potrebbero essere altri a “ricattare” l’UE su questioni bilaterali). Si teme dunque un’UE ingovernabile, incapace di parlare con una voce unica in politica estera, sanzioni, bilancio, allargamento stesso (paradossalmente, nuovi candidati potrebbero bloccare l’adesione di altri candidati per dispute storiche, replicando casi tipo Grecia/Macedonia o Bulgaria/Macedonia). Inoltre, l’allargamento comporta ridefinire la composizione delle istituzioni: un Parlamento UE con oltre 750 deputati e una Commissione con ~35 commissari sarebbe poco efficiente e più costosa. Il Consiglio Europeo diventerebbe un consesso affollato dove raggiungere compromessi richiederebbe tempi lunghissimi. Un rapporto del Parlamento UE ha identificato sfide precise: snellire il processo decisionale (passando al voto a maggioranza qualificata in molte materie), riformare il bilancio (per dotare l’UE di risorse adeguate) e rafforzare la legittimità democratica di un’Unione più grande. Ma realizzare queste riforme richiederebbe di modificare i Trattati, un’impresa politicamente complessa che richiede unanimità degli attuali Stati membri e referendum in alcuni Paesi. I contrari temono che, spinti dall’urgenza geopolitica, si allarghi l’UE senza aver fatto prima questi interventi necessari, ritrovandosi poi con un’unione paralizzata e conflittuale. Un monito proviene anche dall’esperienza: dopo l’allargamento 2004-2007, l’UE ha dovuto varare il Trattato di Lisbona (2009) per evitare lo stallo decisionale, ma secondo molti quell’accordo non basterebbe per una UE a 35. In prospettiva, una forte espansione potrebbe necessitare addirittura di ripensare il meccanismo di presidenza di turno, il numero di voti per maggioranza qualificata e la suddivisione dei fondi tra membri (il che alimenta competizione interna). Senza tutto ciò, argomentano gli scettici, l’allargamento rischia di ingessare ulteriormente l’Unione, costringendola a barcamenarsi tra veti incrociati e minando la sua capacità di azione globale. “Proseguire l’allargamento senza cambiare nulla – adattando semplicemente l’esistente – è molto pericoloso”, avverte Gozi, suggerendo che l’unica via realistica è sfruttare al massimo le clausole esistenti per superare i veti prima che entrino nuovi membri. In conclusione, i contrari pongono una condizione: “riforme prima, adesioni poi”. Senza un’UE più flessibile ed efficiente, includere tanti nuovi Stati potrebbe bloccare il progetto europeo proprio quando servirebbe più unità, trasformando l’allargamento da opportunità storica a boomerang istituzionale.
Madeleine Maresca, 12 dicembre 2025
L’ingresso in Ue porterebbe una spinta alle riforme e consolidamento democratico negli Stati dell’Est
L’adesione all’UE è un potente catalizzatore di riforme nei Paesi candidati. Il processo di negoziato costringe governi e parlamenti a adottare standard europei su giustizia, diritti, anticorruzione e governance economica. Ciò rafforza lo Stato di diritto in nazioni spesso reduci da decenni di istituzioni deboli. I sostenitori sottolineano che dare concrete prospettive europee a Ucraina, Moldavia e Balcani significherebbe ancorare irreversibilmente queste democrazie all’Occidente. L’esempio di successo è l’Europa centro-orientale nel 2004: quei Paesi, usciti dal comunismo, in poco più di un decennio trasformarono le proprie leggi e società per aderire all’UE. Oggi si osserva un fenomeno simile: nonostante la guerra, l’Ucraina ha realizzato riforme notevoli in pochi mesi per soddisfare le condizioni poste da Bruxelles (nuove leggi sui media, tutela delle minoranze, potenziamento dell’anticorruzione). Il Parlamento ucraino, incoraggiato dallo status di candidato, ha approvato in tempi record diverse norme, con ampio consenso multipartisan. Questo slancio riformatore, evidenzia la deputata Halyna Yanchenko, mostra la volontà di cambiamento: “mai un Paese ha lottato per la propria identità europea come l’Ucraina sta facendo, perfino sotto le bombe”. Similmente, la Moldavia della presidente Sandu ha accelerato le riforme anti-oligarchiche e pro-EU dopo la candidatura, guadagnandosi lodi dalla Commissione. Nei Balcani, l’Albania e il Montenegro – ritenuti i più avanzati – hanno adottato riforme giudiziarie e anticorruzione importanti, spinte dalla prospettiva concreta di chiudere i capitoli negoziali entro pochi anni. L’allargamento funge dunque da leva democratizzante: senza di esso, paesi come la Serbia o la Bosnia rischiano stagnazione o regressi autoritari. Se invece l’UE premia i progressi con l’integrazione, rinforza le forze riformiste e filoeuropee locali. Esperti evidenziano anche un impatto sociale: i giovani di quei Paesi vedrebbero un futuro in patria anziché emigrare, se l’adesione portasse stabilità e investimenti. “L’UE è un progetto di pace e prosperità che può trasformare le società”, ha dichiarato Marta Kos, Commissaria per l’Allargamento, sottolineando come i progressi di Ucraina e Moldavia nel 2023 fossero “i più grandi mai registrati”. Offrire l’adesione significa consolidare queste conquiste e mettere al sicuro la democrazia in regioni storicamente turbolente. I favorevoli ammettono che il percorso non è facile – la Commissione parla di “processo arduo” e di necessità di “pazienza e costanza” – ma ritengono che la ricompensa valga lo sforzo: un’Europa più omogenea nei valori, libera da autocrazie e allineata agli standard democratici occidentali.
Madeleine Maresca, 12 dicembre 2025
I candidati non sono conformi ai valori e standard UE
Un’altra serie di obiezioni riguarda il merito: diversi Paesi candidati non soddisfano ancora i criteri politici ed economici di adesione e forzarne l’ingresso rischierebbe di indebolire l’UE dall’interno. I critici ricordano le difficoltà incontrate con alcuni nuovi membri dell’Est entrati nel 2004-2007: Ungheria e Polonia, una volta dentro, hanno mostrato derive illiberali che l’UE fatica a correggere. “L’ultima ondata di allargamento ha visto emergere regimi euroscettici come quelli di Orbán e Kaczyński”, nota uno studio, legando questo fenomeno a carenze nella fase di preadesione. Oggi l’UE rischia di replicare la situazione su scala maggiore. Ucraina e Moldavia hanno fatto progressi ma restano democrazie fragili: l’Ucraina, pur eroica nella difesa dall’invasione, prima della guerra era spesso ai vertici degli indici di corruzione in Europa. Il sistema giudiziario necessita di riforme profonde e il potere oligarchico, sebbene ridimensionato, non è scomparso. La Moldavia è un piccolo paese, ma anche lì corruzione e infiltrazioni filorusse restano pericoli (basti pensare che fino al 2020 aveva un presidente filorusso). Nei Balcani occidentali, il quadro preoccupa ancora di più: Serbia e Montenegro hanno governi da anni al potere con tendenze autoritarie; la Serbia, in particolare, ha visto proteste di piazza contro il presidente Vučić per mancanza di responsabilità, violenze poliziesche e pressioni su media e ONG. La Commissione UE nel 2023 ha parlato di “parziale arretramento” della democrazia serba e di “grave erosione della fiducia” dei cittadini, con retorica anti-Ue incoraggiata dal governo. A ciò si aggiunge che Belgrado non ha allineato la sua politica estera a quella europea (non aderisce pienamente alle sanzioni contro la Russia) e mantiene stretti rapporti con Mosca e Pechino. Bosnia-Erzegovina vive una perenne instabilità istituzionale: la struttura di Dayton (gli accordi che, nel 1995, hanno posto fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina) genera paralisi decisionali e una delle entità, la Republika Srpska, è guidata da un leader secessionista filorusso; le riforme richieste (es. in materia giudiziaria) avanzano a rilento. Macedonia del Nord ha compiuto sforzi enormi ma resta ostaggio di veti identitari (prima della Grecia, ora della Bulgaria) che hanno innescato un ritorno dei nazionalisti al governo, i quali minacciano di congelare le concessioni fatte all’UE. Kosovo è forse il più filoeuropeo, ma 5 Stati UE non ne riconoscono l’indipendenza, bloccandone di fatto la candidatura; inoltre, recentemente tensioni etniche nel nord hanno portato a scontri armati, segno di instabilità persistente. Georgia, formalmente candidata dal dicembre 2023, versa in condizioni pessime: la Commissione la definisce “candidata solo sulla carta” dopo un “grave regresso democratico” (persecuzione di oppositori, legge “filorussa” sugli agenti stranieri poi ritirata). Infine, la Turchia è candidata congelata dal 2018, ma con Erdoğan rieletto continua ad allontanarsi dagli standard UE su diritti e libertà. Far entrare paesi con tali criticità, secondo i contrari, minerebbe la coerenza valoriale dell’Unione. Già oggi l’UE fatica a gestire violazioni dello stato di diritto al suo interno; aggiungere Stati con problemi sistemici rischia di istituzionalizzare l’illiberalismo dentro l’UE. Ad esempio, se entrasse la Serbia senza un netto riallineamento geopolitico, l’UE si troverebbe al tavolo un partner che contemporaneamente partecipa alle parate della Vittoria a Mosca e incontra Xi Jinping (come ricordava criticamente il rapporto CEPS). Inoltre, portare dentro Paesi ancora in conflitto aperto o latente pone sfide enormi: l’Ucraina è invasa dalla Russia – come gestire i confini in guerra? Come applicare la clausola di difesa collettiva UE? Bosnia e Kosovo hanno questioni di status irrisolte che potrebbero ripresentarsi in sede di Consiglio UE come veti incrociati. Anche potenziali dispute territoriali (es. il non-riconoscimento del Kosovo da parte di Spagna, Cipro ecc.) sarebbero importate integralmente nell’UE e potrebbero bloccare ulteriormente i lavori. C’è poi la preoccupazione per le mafie e corruzione: l’allargamento del 2007 a Romania e Bulgaria è spesso citato per l’insufficiente preparazione sul fronte anticorruzione, tanto che entrambi i Paesi restarono anni sotto il Meccanismo di Cooperazione e Verifica. Oggi alcuni candidati balcanici presentano indicatori di corruzione peggiori di quelli di Bucarest e Sofia al momento dell’adesione. L’UE rischia di ritrovarsi al proprio interno hub criminali o fenomeni di state capture (cattura dello Stato da parte di oligarchi), con impatto su sicurezza, migrazioni illegali, traffici ecc. Per queste ragioni, i contrari invocano prudenza estrema: solo quando un candidato ha realmente soddisfatto tutti i criteri – politici, economici e normativi – dovrebbe entrare. Qualsiasi sconto sarebbe pericoloso. Se l’UE abdicasse ai criteri per calcolo geopolitico, delegittimerebbe l’intero processo di Copenaghen e aprirebbe la porta a un’Unione a doppia velocità sul rispetto dei valori, mettendo a rischio la tenuta interna.
Madeleine Maresca, 12 dicembre 2025
L’allargamento a Est porterebbe vantaggi economici e opportunità di sviluppo
L’ingresso di nuovi Paesi apporta benefici economici sia a loro stessi sia all’Unione nel suo complesso. I sostenitori ricordano l’esito positivo delle passate espansioni: l’allargamento del 2004, a vent’anni di distanza, viene considerato un successo economico che ha fatto crescere notevolmente il PIL pro capite dei nuovi membri (in media +30% in 15 anni) e ha aperto mercati per le imprese occidentali. Un allargamento a Est oggi amplierebbe il mercato unico europeo di decine di milioni di consumatori: solo l’Ucraina conta ~40 milioni di abitanti, la Moldavia ~2,6 e i Balcani occidentali circa 18 milioni. Ciò significa nuova domanda interna, più scambi commerciali e opportunità di investimento per le aziende dei Paesi UE attuali. La Commissione sottolinea che ogni ondata di adesioni ha rafforzato l’economia dell’Unione, rendendola più grande e resiliente. L’Ucraina, ad esempio, è un grande esportatore agricolo e di materie prime strategiche (ferro, terre rare): la sua integrazione stabile nell’UE contribuirebbe alla sicurezza alimentare ed energetica del blocco. Inoltre, i Paesi candidati portano risorse umane qualificate: milioni di giovani istruiti, spesso plurilingue, che potrebbero colmare carenze di manodopera in vari settori europei. Già oggi molti cittadini di questi Paesi lavorano nell’UE; con l’adesione, la loro posizione sarebbe regolarizzata facilitando la mobilità e l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Sul fronte dei candidati, l’adesione comporta massicci fondi strutturali e di coesione che stimolerebbero lo sviluppo locale, migliorando infrastrutture, servizi e standard di vita (com’è avvenuto in Europa centrale dopo il 2004). Il think tank European Stability Initiative propone persino di anticipare questi benefici prima ancora della piena adesione, offrendo ai candidati l’accesso al Mercato Unico e ai fondi UE appena soddisfano i criteri. Un mercato integrato incrementa anche la resilienza economica dell’UE: con l’Ucraina e i Balcani dentro, l’Unione disporrebbe di maggiori superfici coltivabili, riserve minerarie e un tessuto industriale diversificato (ad esempio l’Ucraina ha un importante settore metallurgico e aerospaziale). Ciò ridurrebbe la dipendenza da fornitori esterni e darebbe al blocco un peso maggiore nelle catene del valore globali. I favorevoli riconoscono che servono investimenti per mettere questi Paesi al passo, ma li considerano soldi ben spesi: “il premio in palio è vincere insieme la pace”, scrive Elise Bernard, e ciò include creare prosperità condivisa per evitare future instabilità. L’allargamento viene quindi dipinto come un gioco a somma positiva: i nuovi membri beneficiano di stabilità e fondi, i vecchi di nuovi mercati e crescita; l’intera Unione diventa più robusta economicamente, pronta a competere a livello globale grazie a un mercato integrato di oltre 500 milioni di persone.
Madeleine Maresca, 12 dicembre 2025
L’allargamento costituisce un onere finanziario per l’UE
Un terzo filone di critiche riguarda i costi economici di un allargamento a Est. Molti dei Paesi candidati hanno PIL pro capite notevolmente inferiori alla media UE (ad esempio il reddito medio in Ucraina e Moldavia è circa un terzo di quello nell’UE), il che li renderebbe beneficiari netti dei fondi europei su larga scala. Gli Stati membri contributori netti (come Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi) temono che, con l’ingresso di nazioni più povere, la spesa per coesione e agricoltura andrà redistribuita, riducendo i fondi pro capite per i Paesi attuali o richiedendo di aumentare significativamente il bilancio comune. Uno studio stima che per integrare Ucraina, Moldavia e Balcani occorrerebbe un bilancio UE più ampio di almeno 20-30%, con nuovi contributi dagli Stati più ricchi. Al momento, ottenere un simile incremento appare difficilissimo: già oggi il Quadro Finanziario Pluriennale è teso e divisioni tra Paesi “frugali” e meridionali emergono su molti fronti. Senza risorse addizionali, l’ingresso di ampie aree rurali come l’Ucraina (grande beneficiaria potenziale della PAC) e regioni meno sviluppate comporterebbe inevitabilmente tagli ai fondi destinati alle regioni povere attuali dell’Europa meridionale e orientale, creando malcontento. Inoltre, vi è l’incognita della ricostruzione post-bellica dell’Ucraina: la Commissione ha proposto un fondo straordinario (Ukraine Facility) da 50 miliardi di euro, ma i costi totali si stimano nell’ordine di centinaia di miliardi. Se l’Ucraina entrasse in UE prima di completare la ricostruzione, molti si chiedono se non graverebbe in modo insostenibile sul budget europeo, deviando risorse da altre priorità. I contrari sottolineano anche i possibili squilibri economici: integrare un Paese in guerra come l’Ucraina, con un’economia devastata, potrebbe significare dover mantenere per anni misure speciali di sostegno, pena deindustrializzazione e fuga di capitali. Esperti notano che, se mal gestito, il recepimento dell’acquis economico in un Paese fragile rischia di far collassare settori produttivi incapaci di reggere la concorrenza interna UE. Questo non solo genererebbe disoccupazione e tensioni sociali in quei Paesi, ma potrebbe innescare fenomeni migratori di massa verso l’Europa occidentale. Già oggi circa 5 milioni di ucraini sono rifugiati nell’UE per via della guerra; in uno scenario di adesione, la libera circolazione renderebbe strutturale un flusso migratorio dall’Est verso Ovest in cerca di lavoro e salari più alti. Nel lungo periodo ciò può giovare alle economie UE con forza lavoro giovane, ma a breve termine crea pressioni sul welfare e timori nelle opinioni pubbliche nazionali (specialmente in Paesi già scossi da flussi migratori extra-UE). Paesi come Polonia o Ungheria, tradizionalmente pro-allargamento, potrebbero diventare più tiepidi se si profilasse l’arrivo di lavoratori ucraini disposti ad accettare salari più bassi. Anche questioni come la politica agricola comune destano preoccupazione: l’Ucraina è un gigante agricolo e la sua integrazione, se non calibrata, potrebbe sconvolgere il mercato interno dei cereali (già oggi polemiche sono sorte per il grano ucraino a basso costo in alcuni Paesi dell’Est UE). I detrattori evocano il rischio di un “colpo di frusta” economico: l’allargamento 2004 fu seguito da un decennio di tensioni sul lavoro (paura di delocalizzazioni), mitigato anche grazie a periodi transitori sulla libera circolazione. Con i nuovi candidati, i divari economici sono persino maggiori e sarà arduo convincere i cittadini UE ad accettare nuovi stanziamenti e concorrenza interna. Già oggi, sondaggi citati indicano che in Francia e Germania c’è scetticismo prevalente verso ulteriori ingressi. Senza consenso popolare, un allargamento che comporti sacrifici economici potrebbe alimentare radicalizzazione politica. Alcuni analisti suggeriscono modelli alternativi (adesione graduale al mercato unico) proprio per diluire l’impatto economico: concedere a Ucraina e altri l’accesso a certi benefici prima della membership a pieno titolo permetterebbe di testare e accompagnare le loro economie, evitando shock improvvisi. Ma ciò implica comunque maggiori esborsi e complesse negoziazioni. In definitiva, i contrari temono che l’allargamento ad Est, nelle condizioni attuali, possa trasformarsi in un fardello economico non sostenibile per l’UE, innescando conflitti distributivi tra membri e fornendo benzina ai partiti antieuropei che già denunciano il “costo di Bruxelles”. La conclusione pessimistica è che, forzare l’allargamento senza adeguate garanzie economiche, rischia di indebolire la coesione socioeconomica dell’Europa, lacerando ulteriormente Nord-Sud ed Est-Ovest all’interno dell’Unione.
Madeleine Maresca, 12 dicembre 2025
Accogliere i Paesi dell’Est aumenterebbe la credibilità dell’UE e riunificherebbe il continente
Portare a termine l’allargamento ad Est è anche una questione di credibilità politica e morale per l’Unione Europea. Per decenni Bruxelles ha promesso ai Paesi europei vicini una prospettiva di adesione, a patto di intraprendere riforme difficili. Nei Balcani occidentali, quelle promesse risalgono al 2003 (Vertice di Salonicco) e da allora gli Stati della regione hanno atteso pazientemente, spesso compiendo scelte coraggiose in funzione europea (esemplare il caso della Macedonia del Nord che ha cambiato nome pur di sbloccare il veto greco). Tuttavia, l’UE non ha mantenuto pienamente la parola data, causando delusione e perdita di fiducia: “Bruxelles ha condotto questi Paesi in un vicolo cieco”, denuncia un editoriale, “un approccio miope che ha danneggiato l’immagine dell’UE nella regione”. Onorare finalmente quegli impegni, integrando i Balcani, riparerebbe a questa “promessa tradita” che ad oggi “getta discredito sul progetto europeo”, come sottolinea l’Institut Delors. Analogamente per Ucraina e Moldavia: l’UE ha chiesto loro riforme e allineamento ai valori occidentali; ora che quei Paesi hanno compiuto sforzi enormi (anche combattendo una guerra per scegliere l’Europa), non ricompensarli minerebbe la credibilità e l’appeal dell’Unione nel mondo. Al contrario, procedere con l’allargamento dimostrerebbe che l’UE mantiene le promesse fatte a chi condivide i suoi valori, riaffermando la propria identità di unione aperta e inclusiva. Ciò darebbe nuovo slancio al “soft power” europeo: Paesi terzi osserverebbero che l’UE sa accogliere chi converge su democrazia e stato di diritto, rafforzando così il modello europeo su scala globale. In particolare, integrare l’Ucraina – vista da molti come baluardo di libertà contro l’autocrazia russa – invierebbe un messaggio potentissimo: “l’Ucraina è parte della famiglia europea” non solo a parole ma nei fatti. Questa “riunificazione dell’Europa” completata sanerebbe la frattura Est-Ovest residua dal crollo dell’URSS, realizzando la visione storica di un continente unito nella pace e nei diritti. La presidente von der Leyen ha definito l’allargamento “la riunificazione del nostro continente, un dovere verso la storia”. In effetti, l’UE nacque per riconciliare nazioni ex nemiche; ampliarla oggi verso Est sarebbe in linea con la sua missione originaria di superare le divisioni. Sul piano geopolitico, un’UE che integra i suoi vicini consoliderebbe la propria sfera di influenza democratica. Altrimenti, lasciare quei Paesi in attesa indefinita li esporrebbe a offerte alternative: la Serbia, frustrata dall’UE, flirta con Russia e Cina; la Turchia, candidata dal 1999, ha virato su una politica estera autonoma. Un allargamento riuscito contrasterebbe anche questa penetrazione di attori rivali all’interno dell’Europa. Studi evidenziano che ritardare ancora l’allargamento potrebbe “spingere i Paesi non-UE ad allinearsi economicamente e politicamente con altri blocchi”, Cina o Russia. Infine, c’è un argomento di valori: l’UE, premio Nobel per la pace, perderebbe la sua anima se voltasse le spalle a popoli europei che lottano per libertà, democrazia e stato di diritto. “Non possiamo permettere che gli ucraini, dopo aver versato sangue per l’Europa, restino fuori dal nostro progetto”, sostengono molti politici occidentali. Allargare l’Unione, dunque, non è solo un calcolo utilitaristico ma un’operazione di coerenza con i princìpi fondanti dell’Europa unita, che rafforzerebbe il prestigio e l’autorevolezza dell’UE sulla scena mondiale.
Madeleine Maresca, 12 dicembre 2025