USA: Strategia di sicurezza nazionale 2025
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Nel dicembre 2025 gli Stati Uniti hanno presentato la nuova Strategia di Sicurezza Nazionale (National Security Strategy, NSS), un documento programmatico di 29 pagine che ridefinisce le priorità strategiche americane per gli anni a venire. Si tratta della prima NSS dall’insediamento (a gennaio 2025) della nuova amministrazione repubblicana, guidata da Donald Trump, e rappresenta una netta rottura rispetto all’approccio delineato dal suo predecessore democratico, Joe Biden. Mentre la strategia Biden del 2022 enfatizzava la competizione tra grandi potenze (Cina e Russia) e il rafforzamento delle alleanze globali, la NSS 2025 sposta il baricentro sull’emisfero occidentale e sugli interessi interni degli Stati Uniti. Il documento, dal tono a tratti ideologico e polemico, proclama un ritorno all’America First in versione aggiornata: in tutto ciò che fa, l’America metterà “se stessa al primo posto”.
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
La NSS 2025 riscopre la sovranità. Dopo anni di globalizzazione destabilizzante, l’America mette ordine in casa per essere più forte fuori.
La NSS 2025 mescolare propaganda interna e dottrina di sicurezza e produce confusione e contraddizioni che ne minano la credibilità operativa.
Trattare Cina e Russia senza isterie ideologiche, privilegiando la competizione economica, è politica estera pragmatica e flessibile.
Dipingere Pechino solo come rivale economico è miopia strategica. Cina e Russia potrebbero espandere la propria influenza altrove indisturbate.
Trump scuote gli europei. L’asse USA-UE ne esce riequilibrato, con partner finalmente disposti a condividere gli oneri di sicurezza.
L’America Latina risponde malvolentieri a minacce e ingerenze: la dottrina “Donroe” potrebbe alimentare instabilità e governi anti-USA.
L’America rifocalizza la sua strategia sul continente americano, prioritario per contrastare immigrazione illegale, cartelli della droga e ingerenze cinesi, assicurando stabilità..
La “pace giusta” in Ucraina diventa più lontana se Washington e l’Europa si dividono.
Trump vanta negoziati di pace lampo in vari conflitti e punta a chiudere rapidamente la guerra in Ucraina, evitando costosi pantani militari.
L’America First di Trump sa di isolazionismo mascherato: nel lungo termine può compromettere la sicurezza globale.
L’NSS è un’agenda di sicurezza che difende l’interesse nazionale
Un cardine della NSS 2025 è la rivendicazione esplicita della sovranità nazionale totale come pilastro della sicurezza USA. Questa enfasi – criticata da alcuni come “ossessione” – viene invece lodata dai sostenitori come un ritorno alle priorità fondamentali: proteggere i confini, l’economia e l’identità del Paese. Dopo decenni in cui, a loro avviso, gli Stati Uniti hanno disperso energie in missioni globali e aderito a vincoli sovranazionali penalizzanti, la strategia di Trump riafferma che nessuno può badare alla sicurezza dell’America meglio dell’America stessa.
In passato si dava per scontato: difendere l’America significava innanzitutto contenere minacce esterne tradizionali (eserciti nemici, missili). Ma la NSS 2025 adotta una visione più ampia e, a giudizio dei favorevoli, più realistica delle vulnerabilità contemporanee. Ad esempio, identifica flussi migratori incontrollati come un pericolo strategico: destabilizzano il tessuto sociale e facilitano l’ingresso di criminalità e potenziali terroristi. Trump dichiara senza mezzi termini che “l’era della migrazione di massa deve finire” e che la sicurezza della frontiera è la sicurezza nazionale. I sostenitori concordano: gli USA non possono mantenere coesione e ordine se ogni anno centinaia di migliaia di persone attraversano illegalmente il confine. Il messaggio a Messico e Paesi centroamericani è chiaro: dovete collaborare per fermare i flussi, “fermarli invece di facilitarli”, come recita la NSS. Ciò è posto come condizione per buoni rapporti – un approccio forte, ma che riflette la realtà: “Non possiamo più farci carico di tutti”, è in sostanza la linea americana. Questa non è mancanza di generosità bensì dovere verso i propri cittadini, specialmente le classi lavoratrici che subiscono la concorrenza di manodopera irregolare e l’aumento della pressione sui servizi sociali. Chiudere le frontiere riduce anche l’ingresso di droghe e armi illegali, a complemento della lotta ai cartelli.
La sovranità economica è l’altro pilastro. La strategia rigetta decenni di globalizzazione che hanno visto supply chain critiche e industrie strategiche trasferite all’estero (soprattutto in Cina) con l’illusione che il mercato globale fosse neutrale. Trump invece rivendica la “reindustrializzazione” americana: riportare produzioni strategiche in patria, rinforzare la filiera della difesa, perseguire il “dominio energetico” sfruttando petrolio, gas e nucleare a basso costo. I fan della NSS sostengono che su questo punto Trump ha pienamente ragione: la pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina hanno mostrato quanto l’America (e l’Occidente) fossero pericolosamente dipendenti da filiere lunghe e da fornitori poco affidabili. “Coltivare la forza industriale americana deve diventare la priorità più alta”, proclama la NSS, criticando i predecessori che hanno legato le mani agli USA con “il cosiddetto libero commercio” e accordi globali che hanno devastato la manifattura interna. Da qui il via libera a dazi, incentivi fiscali, controllo sulle esportazioni sensibili ecc., strumenti che la NSS considera parte di “un’unica macchina di pressione” economica a tutela degli interessi USA. James Carafano (Heritage Foundation) già nel 2021 sosteneva che l’America doveva “spezzare l’idea di dover andar piano con la Cina per paura di danni economici” e che la sicurezza economica è inseparabile da quella strategica. La NSS 2025 fa proprio questo concetto: considera gli shock economici (penuria di microchip, dipendenza energetica ecc.) come minacce esistenziali e mobilita tutti gli strumenti (dagli accordi commerciali preferenziali alle restrizioni su investimenti cinesi) per prevenirli.
Accanto a confini ed economia, la NSS introduce un elemento inedito: la cultura come dimensione della sicurezza. Questo punto, assai controverso, è però difeso dai sostenitori che ne condividono l’ispirazione valoriale. Trump afferma che “il risanamento spirituale e culturale” dell’America è una precondizione per la sua sicurezza a lungo termine. Parole simili non si sentivano dai tempi della Guerra Fredda (quando la propaganda faceva leva sui valori per motivare la popolazione). Secondo i pro, riportare l’orgoglio nazionale e i valori tradizionali nel discorso strategico è salutare in un’epoca di frammentazione sociale. Viene esplicitamente legato il concetto di sicurezza alla presenza di “famiglie forti e bambini sani” e di un’America che “celebra i suoi eroi e glorie passate”. Questa impostazione, influenzata dalla visione conservatrice cristiana, definisce un’identità coesa come scudo contro minacce interne (disgregazione, radicalizzazione) ed esterne (influenze straniere divisive). I favorevoli citano esempi concreti: campagne di disinformazione online promosse da potenze avversarie che sfruttano le divisioni socioculturali americane. Secondo i sostenitori, un patriottismo più condiviso e una rigenerazione dei valori comuni renderebbero il Paese meno vulnerabile alla propaganda. Anche la condanna della cultura “woke” (ad esempio i programmi di Diversity, Equity, Inclusion bollati come “falsi miti ideologici” che indeboliscono le istituzioni) è vista come doverosa: un esercito concentrato sulla competenza e unità di intenti, non su quote e sensibilità, è ritenuto più efficiente. Certo, portare la “guerra culturale” in una strategia di sicurezza è insolito, ma i difensori replicano che già c’era, solo dall’altro lato: per anni la narrativa liberal ha definito priorità come clima o diritti di genere come questioni di sicurezza, ora la visione conservatrice ribalta la prospettiva definendo immigrazione di massa e identità culturale come temi centrali. È una questione di quali valori difendere.
La NSS 2025, in sostanza, mette in chiaro che gli USA difenderanno il proprio modo di vivere: dai confini geografici ai confini digitali e ideologici. “Gli europei non lasciano entrare chiunque nei loro salotti, perché noi dovremmo con la nostra nazione?”, esemplificano i pro, a difesa delle politiche migratorie rigorose. E ancora: “La Cina protegge fanaticamente le sue industrie e la sua cultura, perché l’America dovrebbe sacrificare le proprie sull’altare del globalismo?”. Questa tesi trasforma la strategia di sicurezza in una sorta di dottrina Monroe a tutto campo: non solo “niente potenze straniere nel nostro emisfero”, ma anche “nessuno indebolisca la nostra sovranità economica e culturale”. Chi la sostiene afferma che solo così gli USA potranno prosperare e affrontare le sfide future. Mario Bentivoglio su “Formiche” sottolinea che Trump eleva sovranità, deterrenza e alleati responsabilizzati a cardini strategici e che la “rinascita culturale” è esplicitamente definita “indispensabile” dal documento. Questo evidenzia una visione olistica: la sicurezza non è solo quante portaerei hai, ma anche quanta coesione interna e controllo del tuo destino possiedi.
Dunque, i favorevoli celebrano la NSS 2025 come un’agenda di sicurezza veramente nazionale, che riprende il controllo su tutti i fronti dove la sovranità USA era erosa: confini, economia, valori. Dopo anni di “auto-limitazioni” e deleghe (all’ONU, agli accordi di Parigi sul clima, all’OMS ecc.), gli Stati Uniti tornano a decidere per loro stessi. Ciò non significa isolarsi – chiariscono – ma negoziare da posizioni di forza pari. Una superpotenza che si rispetti deve avere il controllo sul proprio territorio e la propria società. I sostenitori vedono in Trump l’uomo che ha avuto il coraggio di rimettere l’interesse nazionale al centro della strategia. Ritengono inoltre che ciò renderà l’America non solo più sicura internamente, ma anche più autorevole esternamente: una nazione con confini sicuri, industria robusta e identità fiduciosa può proiettare potenza e chiedere rispetto. In definitiva, difendere sovranità e identità non è segno di chiusura regressiva, ma il prerequisito per poter poi interagire con il mondo da posizione di forza e stabilità. La NSS 2025 ristabilisce questa verità basilare che era stata trascurata.
Nina Celli, 10 dicembre 2025
L’NSS è strategia partigiana incoerente: più propaganda che linea d’azione
Molti analisti reputano la NSS 2025 non solo discutibile nel merito, ma anche contraddittoria e poco credibile, quasi più un pamphlet propagandistico che una strategia coerente. Questi criticano il documento in quanto pesantemente influenzato dagli interessi politici di Trump (rielezione, consolidamento della base populista) e non da un rigoroso processo di pianificazione. Il risultato sarebbe una strategia polemica e confusa, che rischia di disorientare tanto gli apparati di governo USA quanto gli alleati. Ciò la renderebbe inefficace nel guidare la politica estera reale.
Un primo elemento è la personalizzazione estrema: mai una NSS aveva citato decine di volte il presidente in carica lodandone risultati e visione. Trump viene definito “The President of Peace” e la sua seconda amministrazione una “correzione necessaria” che inaugura “una nuova età dell’oro”. L’insistenza nell’attribuire a lui personalmente successi (otto conflitti risolti grazie al suo dealmaking) e nel tessere le lodi del suo approccio denuncia l’utilizzo della NSS come strumento di campagna elettorale interna. Rebecca Lissner e altri del CFR commentano che questa strategia “sfuma la linea tra piano strategico istituzionale e messaggio politico”, mettendo Trump come protagonista invece del Paese. Ciò la rende poco credibile agli occhi di diplomatici e militari: viene percepita più come un comizio che come linee guida operative. Se la strategia nazionale sembra uno spot di autocelebrazione, i decisori pratici tenderanno a non prenderla sul serio, come del resto ha lasciato intendere Lissner: “non mi aspetterei che qualcosa scritto in questo documento guidi o disciplini la politica estera di Trump”, essendo perlopiù retorica. In effetti, il lancio notturno senza discorso e l’assenza di chiarezza su alcuni temi chiave suggeriscono che lo staff stesso l’abbia vista come un “box-checking exercise” (atto dovuto) da sbandierare, più che da seguire. Ma una strategia che non dà direzione – osservano i critici – è peggio che inutile: genera confusione in patria e allarme all’estero, come stiamo vedendo.
Il documento appare inoltre ideologicamente di parte in modo stridente. La NSS di solito tenta di presentare una visione condivisibile bipartisan dello scenario, per dare sicurezza di continuità agli alleati. Questa invece dedica ampie invettive agli avversari politici interni: parla di “élite globaliste del dopoguerra fredda che hanno cercato il dominio planetario permanente” e di come la nuova leadership rifiuti i loro errori. Denuncia i cosiddetti “foreign policy elites” (ovvero l’establishment mainstream di Washington, sia democratico che repubblicano) come incompetenti e accusa gli alleati europei di avere “leadership incapaci o illegittime che censurano il dissenso”, riprendendo argomenti tipici dei populisti di destra. Insomma, la NSS è usata per colpire bersagli partigiani: attacca le politiche DEI come simbolo del “decadimento istituzionale”, esulta per l’influenza dei “partiti patriottici” populisti in Europa ecc. Questa politicizzazione è considerata altamente inappropriata e fuorviante: come può essere coerente una strategia che da una parte vuole alleati più forti, dall’altra li insulta e auspica il successo delle loro opposizioni radicali? Torrey Taussig evidenzia proprio l’incoerenza verso l’Europa: “combina un’ostilità partigiana all’Europa mainstream con il riconoscimento (pur riluttante) che gli USA hanno bisogno dell’Europa”, creando una linea contraddittoria. Daniel Fried la definisce “inconsistente, occasionalmente stramba, compromissoria nel linguaggio” verso l’Europa: un miscuglio di astio e necessità che la rende confusa e difficilmente attuabile.
L’incoerenza si nota anche nell’elenco di priorità. Lissner e altri riflettono che la NSS abbandona il fulcro bipartito Great Power Competition (Cina/Russia) che aveva portato a una chiarezza strategica nel 2017, e al suo posto inserisce miriadi di affermazioni ideologiche e contraddittorie. Ad esempio: condanna l’“espansione perpetua” della NATO come destabilizzante, ma poi chiede di rafforzare la NATO elevando spese e capacità. Su questo gli alleati si chiedono: vuole una NATO forte o la teme? (Il testo afferma che gli USA “si oppongono alla porta aperta” NATO e vogliono “prevenire la realtà di un’alleanza in perpetua espansione”, il che contraddice la politica di decenni di open door sostenuta dagli USA e confonde sul futuro di paesi come l’Ucraina). Altre contraddizioni sono il sostiene di volere l’Europa “civilizzationally confident”, ma la descrive come perduta; dice di volere la fine delle guerre infinite ma parla di usare forza militare in più aree (basti citare l’aumento senza precedenti di truppe nei Caraibi e potenziale attacco al Venezuela); condanna il globalismo ma poi enfatizza commercio e investimenti globali come soluzioni (vuole imporre protezionismo interno, però pure il “libero accesso al mercato USA” come incentivo agli alleati indo-pacifici). Insomma, appare un collage di proclami per accontentare varie fazioni: isolazionisti, ipernazionalisti, neoconservatori, realisti classici ecc., senza risolvere le tensioni tra tali visioni. Lindsay (CFR) twitta amaramente: “non vedo come le pedine della politica estera possano implementare questo guazzabuglio”.
Questa confusione riduce l’affidabilità USA. Gli alleati non sanno su cosa contare: su una partnership o su ulteriori attacchi? Ad esempio, la Germania appare non nominata se non nelle critiche generiche all’UE: deve prepararsi ad assumersi più difesa, ma con un America che al contempo strizza l’occhio a forze anti-Ue e sembra opporsi all’allargamento NATO (cosa che Berlino invece sostiene per Ucraina/Georgia). Il risultato potrebbe essere una paralisi decisionale: i partner potrebbero non fare mosse audaci in linea con USA (per esempio sanzioni dure alla Cina) perché non si fidano della coerenza di Washington, e gli apparati USA stessi potrebbero navigare a vista in base agli impulsi quotidiani di Trump, data la poca chiarezza strategica. Rebecca Lissner avverte: “Nessun documento scritto potrà mai davvero imbrigliare la politica estera di Trump, spesso impulsiva ed erratica”, e qui non c’è neanche un documento serio da provare a seguire. L’uscita tardiva e notturna (senza discorso) è, per alcuni, segno che finora l’amministrazione non aveva una rotta chiara. “Possiamo sperare che alleati e Capitol Hill ignorino questo documento e lo considerino per quello che è: propaganda interna”, suggerisce James Goldgeier. Ma ignorarlo significa tornare al “Trump being Trump”, cioè decisioni ad personam senza strategia, una situazione pericolosa.
La NSS 2025 è quindi una “strategia” solo di nome: in realtà è un documento fortemente partigiano, pieno di incoerenze e proclami propagandistici per la base di Trump, che offre poco orientamento pratico e semina confusione. Ciò la rende “unserious” (non seria), come l’ha definita Ivo Daalder, ma proprio per questo “dangerous”, perché politica estera e sicurezza richiedono linee chiare e affidabili, non tweet incendiari mascherati da dottrina. In ultima analisi, se la NSS deve servire a qualcosa, è dare al mondo il segnale di come gli USA agiranno: quella di Trump dà segnali contraddittori e incendia dispute interne, riducendo la credibilità degli USA. Una “non strategia” con simili difetti rischia di tradursi in improvvisazione costante, che è la negazione stessa della sicurezza. Come ha detto un funzionario NATO dietro anonimato: “non sappiamo se prendere alla lettera questo documento oppure no – il che significa che il danno di fiducia è già fatto”.
Nina Celli, 10 dicembre 2025
Realismo selettivo con Cina e Russia: deterrenza sì, crociate no
Un aspetto distintivo della NSS 2025 è il cambio di tono verso le grandi potenze rivali. La precedente strategia del 2017 (prima amministrazione Trump) e quella del 2022 (Biden) definivano Cina e Russia come revisionist powers che vogliono plasmare un mondo ostile ai valori e interessi USA. Nel nuovo documento, invece, questi avversari non sono più inquadrati in termini ideologici di scontro totale, ma in termini funzionali e circoscritti. I sostenitori lodano questo approccio come un atto di realismo selettivo, che evita pericolose esacerbazioni e punta a una gestione pragmaticamente vantaggiosa delle relazioni con Pechino e Mosca. In particolare, la Cina non è più definita “minaccia sistemica” o “concorrente strategico globale”, ma è menzionata (solo a pagina 19 di 29) soprattutto come competitore economico. La NSS afferma che “la posta in gioco ultima sono gli economics” e che l’obiettivo primario verso Pechino è assicurare “una relazione economica reciprocamente vantaggiosa”. Questo non significa ingenuità: il documento sottolinea la necessità di riequilibrare i rapporti commerciali e proteggere le filiere critiche da dipendenze cinesi. Ma non demonizza la Cina come nemico esistenziale, aprendo piuttosto alla cooperazione laddove possibile. I favorevoli apprezzano questa sfumatura, affermando che disinnesca l’inerzia bellicista in atto: se tratti una potenza nucleare come un nemico “civilizzazionale”, rischi di innescare profezie autoavveranti.
Trump, al contrario, distingue i piani: sì a competizione feroce sul piano economico e tecnologico (la NSS parla di “contenimento economico e tecnologico” della Cina e di mantenere il vantaggio su AI, biotech, quantistica), ma senza cercare uno scontro militare frontale. Anzi, si chiama esplicitamente gli alleati Indo-Pacifici a fare la loro parte per dissuadere Pechino da avventure a Taiwan, aumentando il burden-sharing (condivisione degli oneri) regionale. In pratica, la strategia indica agli alleati asiatici di rafforzare le proprie difese (Giappone, Corea del Sud, Taiwan stessa) in modo che gli USA non debbano fare il ruolo del poliziotto. Non c’è abbandono: la NSS ribadisce l’impegno a “dissuadere un conflitto su Taiwan, preferibilmente preservando il vantaggio militare USA”. Ma lo fa con toni sobri e una richiesta di contributo agli alleati locali. Questo ridimensionamento della retorica anticinese potrebbe, secondo i sostenitori, ridurre le tensioni globali. Scott Anderson (Brookings) nota che la NSS sembra più aperta a “sistemi di equilibrio regionale” e implicite sfere d’influenza, accettando la “timeless truth” che i grandi paesi hanno zone d’influenza e che la pretesa di dominare il mondo intero è illusoria. Ciò porta a un atteggiamento meno ideologico e più incline a gestire i rapporti con Pechino: competere dove serve (economia, Pacifico) ma anche cooperare dove conviene (ad esempio nel commercio in America Latina, come la NSS stessa menziona).
Su Mosca, la NSS compie un aggiustamento simile. Non c’è più traccia di frasi come “Putin vuole distruggere i valori occidentali”; piuttosto si afferma che molti europei vedono la Russia come minaccia esistenziale e che andrà ripristinata la stabilità strategica con Mosca dopo il conflitto ucraino. Questo suggerisce la disponibilità a un modus vivendi futuro. I proponenti argomentano che tenere aperta questa porta è saggio: la Russia, pur aggressiva, resta un attore con cui prima o poi occorrerà trattare (specie sul controllo degli armamenti e la sicurezza europea). Le mosse di Trump in questo senso – da Operation Midnight Hammer che ha colpito l’Iran filorusso, indebolendo un alleato di Mosca in Medio Oriente, fino ai paralleli canali diplomatici con il Cremlino – indicano un approccio carrot-and-stick: colpire dove la Russia supera la linea, ma lasciare intendere che gli USA non cercano il collasso della Russia. Al contrario, la NSS pare dire: una Russia stabile (pur restando autocratica com’è) può essere reintegrata in un equilibrio globale. Questa prospettiva è fortemente criticata dagli atlantisti puri, ma i pro la difendono: isolare per sempre una potenza nucleare grande come un continente non è realistico. Meglio puntare su un rapido cessate-il-fuoco in Ucraina e poi su un nuovo compromesso strategico con Mosca, come la NSS esplicitamente dichiara di voler fare.
C’è poi l’idea di focalizzare le risorse dove contano davvero: “non possiamo fare tutto ovunque”, sembra dire la NSS. E allora ecco il concetto di realismo selettivo: l’Asia-Pacifico e le Americhe sono teatri centrali, mentre il Medio Oriente e l’Africa vanno de-enfatizzati, salvo per aspetti specifici. Questo comporta concentrare la deterrenza militare su Taiwan e il Mar Cinese Meridionale e contestualmente ridurre gli impegni altrove. Matthew Kroenig dell’Atlantic Council apprezza le “soluzioni creative” per sfide nuove, come l’uso di armi economiche per competere senza dover ricorrere a conflitti militari diretti. Infatti, la NSS parla di tariffe, sanzioni e incentivi come parte integrante della strategia: “l’economia è l’arma totale” che l’America intende usare contro i rivali. Questo è un approccio duro ma non bellicoso: si riconosce che la concorrenza USA-Cina avviene su piani molteplici (mercati, tecnologie, supply chain) e la si affronta in quei termini, senza dipingerla subito come Terza Guerra Mondiale. I pro ritengono che ciò riduca il rischio di conflitto, perché permette spazi di convivenza: finché la Cina non sfida direttamente l’America (militarmente), gli USA cercano di competere con mezzi non militari e scoraggiano lo scontro armato (anche delegando parte del deterrente agli alleati locali).
Un effetto positivo di questo atteggiamento è che rende la politica estera USA più prevedibile e meno aggressiva agli occhi internazionali. “Reuters” ha notato che, già nei primi mesi del 2025, “i discorsi USA hanno ribaltato ipotesi post-guerra fredda” sul rapporto con l’Europa e il nemico russo, facendo contento il Cremlino ma anche spiazzando i competitor: Pechino probabilmente “amerà due parti di questa strategia e ne odierà il resto” – osserva un’analisi CSIS – “amerà la dichiarazione esplicita che gli USA preferiscono una relazione economica mutualmente vantaggiosa, odierà la nuova Dottrina Monroe che la invita a uscire dall’America Latina”. Questo indica che la NSS non è accomodante verso i rivali, ma nemmeno gratuitamente ostile: è assertiva dove serve (Monroe per cacciare la Cina dal cortile americano) e moderata dove possibile (cooperazione economica con Pechino in linea di principio).
I favorevoli alla NSS 2025 ne elogiano il realismo nell’approcciarsi a Cina e Russia: non amici, certo, ma neppure nemici “ontologici” con cui non parlare mai. La strategia di Trump preferisce gestire l’ascesa cinese (sul piano economico e militare) anziché lanciarsi in una nuova “crociata anti-dittature”; analogamente, congelare la minaccia russa e magari coinvolgerla in un equilibrio postbellico è considerato meglio che puntare a un collasso di Mosca. Questo distacco dal fervore ideologico riduce i rischi di conflitto globale e apre spazi di cooperazione selettiva su temi d’interesse comune (si pensi al cambiamento climatico o alla non proliferazione nucleare, che non possono prescindere da Cina e Russia). Mike Froman, presidente del CFR, ha commentato che la NSS “enuncia ciò che l’amministrazione intende fare prioritizzando certe aree (Emisfero Occidentale) e non menzionandone affatto altre (il terrorismo appena citato)”, segno di scelte chiare. I pro considerano ciò un pregio: focalizzazione delle risorse dove contano davvero e stop alla mentalità da gendarme mondiale ovunque. L’America di Trump seleziona le sue battaglie: in Estremo Oriente mantiene la supremazia militare per scoraggiare conflitti; in parallelo, offre a Pechino la prospettiva di un accordo di reciproco vantaggio economico (invece della guerra dei dazi infinita). Verso Mosca mostra i muscoli (come col colpo all’Iran) ma anche “ammicca” a una futura distensione se si chiude la questione ucraina. Questo mix di deterrenza e distensione calibrata richiama l’abilità diplomatica del periodo post-Seconda Guerra Mondiale, quando gli USA parlavano col nemico (URSS) mantenendo la pace con un equilibrio di potenza. I fan della NSS 2025 ritengono che Trump stia rifacendo esattamente questo: traccia linee rosse nette (niente Cina in casa nostra, niente invasioni lampo su Taiwan) e insieme cerca “global balances of power” stabili in varie regioni. Contrastano così la narrativa di chi vede la strategia come filorussa o arrendevole: in realtà, è “muscolare senza essere hawkish, contenuta senza essere dovish” (come cita “Reuters”), cioè difende con forza gli interessi USA ma evita di ideologizzare i conflitti. E in un’era multipolare rischiosa, questa prudenza calcolata è la ricetta della sicurezza sostenibile.
Nina Celli, 10 dicembre 2025
Minaccia sottovalutata: ignorare Cina e Russia è un grave errore strategico
Un’ultima critica di peso è che la NSS 2025 depotenzi la percezione delle minacce poste da Cina, Russia e altre autocrazie, con il rischio di far perdere terreno agli Stati Uniti nella competizione globale e di trovarsi di fronte ad avversari ancora più forti e aggressivi nel prossimo futuro. Secondo questa tesi, la visione di Trump secondo cui “Great Power Competition is a thing of the past” è pericolosamente miope e va contro l’evidenza. Gli stessi esperti del CFR (tra cui David Sacks, Liana Fix) hanno espresso allarme sul fatto che la NSS non menzioni affatto il concetto di “competizione tra grandi potenze” e non definisca la Cina come rivale globale per la prima volta dal 2017. “La stella polare della competizione con Cina e Russia – attorno a cui si era costruito un consenso bipartisan – è sparita”, nota Lissner. Al suo posto, la Cina è relegata a tema economico, mentre la Russia è menzionata quasi di sfuggita come ossessione europea più che minaccia USA. Questa rimozione ideologica può avere conseguenze molto concrete: può portare a sottostimare le mosse aggressive di queste potenze e a ridurre gli investimenti e la preparazione necessaria per contrastarle. Ad esempio, la NSS non cita affatto la Corea del Nord, definita fino a ieri “minaccia acuta” e motore di proliferazione. Ciò segnalerebbe un calo di attenzione proprio mentre Pyongyang continua a espandere il suo arsenale nucleare. “North Korea does not even get a mention” commenta Sacks, “passiamo dal vederla come minaccia globale nel 2017 al silenzio totale ora”. Ma l’assenza di Pyongyang non vuol dire che la minaccia è scomparsa, anzi, a dicembre 2025 il regime nordcoreano testava nuovi ICBM in grado di raggiungere gli USA. Ignorarlo sul piano strategico indica mancanza di un piano, sostengono i critici.
Similmente, sminuire la sfida cinese a mero affare economico è giudicato ingenuo. Jude Blanchette (CSIS) afferma che a Pechino “saranno tutt’altro che tranquilli leggendo la Monroe Doctrine rinnovata”, e ameranno che la priorità USA sembri più commerciale che valoriale, ma “odieranno tutto il resto” perché nel frattempo l’NSS spinge per una militarizzazione dell’emisfero anti-Cina. In pratica, distogliendo troppo l’attenzione dal teatro indo-pacifico e definendo incerte le alleanze, Trump può indebolire il deterrente vis-à-vis di Pechino. Ad esempio, la NSS riduce l’importanza dell’Indo-Pacifico: l’Asia tutta riceve 25 paragrafi, Europa+Medio Oriente+Africa solo 23 in totale, segno di un focus maggiore sull’Asia e Americhe. Tuttavia, la concezione di quell’Asia è giudicata “limitata”: come nota Markus Garlauskas, “è Cina-centrico, gli altri paesi contano solo in quanto aiutano a vincere la competizione economica e a dissuadere Pechino; ad esempio, Filippine e le isole del Pacifico non sono neppure menzionate”. Questo approccio strumentale ai partner asiatici potrebbe far calare la fiducia di Paesi come le Filippine o Vietnam nel sostegno USA, rendendoli più inclini ad accomodare la Cina localmente. In più, la NSS afferma che “la competizione tra grandi potenze sembra ormai appartenere al passato e la Cina non è rivale geostrategico ma solo economico”. I critici ritengono questo falso: la Cina sta costruendo il più grande esercito navale, nuclearizzando arsenali, militarizzando isole, espandendo influenza in regioni chiave (non ultima l’America Latina stessa). Minimizzarla può condurre a ritardi e tagli nei preparativi per scenari di scontro, “non nominare la Cina come competitor sistemico abbassa la guardia”.
Quanto alla Russia, la NSS evita di chiamarla minaccia. Parla di “alcuni europei vedono la Russia come una minaccia esistenziale” e auspica fine rapida ostilità in Ucraina per evitare il “la paralisi dell’Europa”, implicando che per gli USA la Russia non è una minaccia diretta. Questo appare come un “free pass” a Putin: “il documento risparmia qualsiasi critica alla Russia e, colpisce, non la menziona proprio nel contesto di minaccia agli USA”, nota Liana Fix. Non affermare che Mosca è un pericolo strategico significa sottovalutare il suo potenziale distruttivo. La NSS sembra riflettere la controversa posizione personale di Trump (spesso accusato di essere “soft on Russia” per ammirazione a Putin). Ciò indebolisce la deterrenza USA: se Putin percepisce che Washington vuole “ristabilire la stabilità strategica” con lui e non lo vede più come avversario, potrebbe sentirsi incoraggiato a tenere duro e continuare aggressioni (pensando che gli USA forzeranno un accordo a lui favorevole). Liana Fix ha infatti notato che il legame Russia-Cina nella guerra ucraina è scomparso dal discorso USA: mentre Biden spingeva gli europei a riconoscerlo (il supporto cinese consente alla Russia di proseguire guerra), ora quell’elemento è sparito sia dal dialogo transatlantico sia dalla NSS. Ciò significa chiudere un occhio su un asse autoritario che è invece reale e in crescita.
La detrattrice dell’American Enterprise Institute(AEI), Kori Schake, aggiunge: ridurre il terrorismo a nota a piè di pagina (“brevemente in Africa, altrove niente” notano Froman e altri) e omettere i temi come pandemie o spazi emergenti (cyber, spazio extra-atmosferico nominato a malapena) è rimuovere minacce concrete semplicemente perché ideologicamente non in linea col focus trumpiano, col rischio di farsi trovare impreparati.
I critici affermano dunque che la NSS 2025 “abbassa la guardia” degli Stati Uniti proprio nei confronti dei loro sfidanti più pericolosi. Dipinge un mondo meno minaccioso di quanto sia in realtà – forse per convincere l’opinione pubblica che “Trump ha già vinto queste sfide” (si veda l’enfasi su aver “significativamente degradato la minaccia iraniana”, aver “cementato la pace in 8 conflitti” ecc.). Ma i fatti suggeriscono il contrario: Cina e Russia non sono affatto ridimensionate, anzi esultano per il nuovo atteggiamento americano. La testata statale cinese “Global Times” ha celebrato che la NSS: “svela il fallimento dell’egemonia americana”, e invita la Cina a “cogliere l’occasione” per consolidare la propria influenza, mentre gli USA guardano altrove. Se l’avversario applaude, c’è motivo di preoccuparsi. In definitiva, Trump, per l’ansia di negare la narrativa del confronto globale, sta sottovalutando gravemente le minacce reali, abbassando prematuramente la guardia. Così facendo, rischia di guadagnare punti politici a casa nel breve (dipingendo un mondo meno pericoloso se guidato da lui), ma di trovarsi di fronte a potenze avversarie ancora più forti e audaci domani, avendo di fatto concesso loro tregua e vantaggi. I critici temono proprio questo: che la NSS 2025, esorcizzando superficialmente la “guerra delle grandi potenze”, prepari il terreno a sconfitte strategiche più gravi degli USA negli anni a venire.
Nina Celli, 10 dicembre 2025
L’NSS è una sveglia per l’Europa: un richiamo a essere più forti e indipendenti
Tra gli aspetti più dibattuti della NSS 2025 c’è il trattamento franco e ruvido riservato agli alleati europei. Paradossalmente, i sostenitori della strategia – compresi alcuni leader in Europa – difendono questo approccio come una necessaria sveglia per il Vecchio Continente. Secondo questa tesi, Trump ha avuto il coraggio di dire apertamente ciò che molti pensavano da tempo: l’Europa, adagiata sotto l’ombrello della sicurezza americana dal 1945, deve imparare a difendersi da sola se vuole contare e sopravvivere nel nuovo scenario globale. La ruvida franchezza di frasi come “l’Europa rischia la cancellazione della sua civiltà” non è (solo) un insulto gratuito, ma un monito brutale: continuare a ignorare problemi strutturali – declino demografico, apparati UE pachidermici, politiche migratorie divisive – porterà il continente alla marginalità e all’impotenza.
I sostenitori di questa idea citano un dato su tutti: la spesa militare. Da anni gli Stati Uniti chiedevano ai partner NATO di investire almeno il 2% del PIL in difesa; pochi lo hanno fatto. La NSS 2025 rilancia con un obiettivo ancor più ambizioso, il 5% del PIL (l’“Hague Commitment”), e afferma senza giri di parole che “i giorni in cui gli USA sorreggevano l’ordine mondiale come Atlante sono finiti”. Questo può suonare come un disimpegno, ma in realtà è un invito a diventare adulti rivolto all’Europa. “Quando appalti la tua sicurezza ad altri, c’è un prezzo da pagare”, ha osservato la premier italiana Meloni, commentando la strategia: e quel prezzo si chiama dipendenza e irrilevanza. Meloni (leader di un Paese storicamente filoamericano) concorda che l’Europa “non dev’essere autonoma contro gli USA, ma grande insieme a loro, portando però il proprio peso”. Dal suo punto di vista, la NSS ha il merito di “dire con toni assertivi qualcosa che il dibattito transatlantico affronta da tempo… un percorso storico inevitabile”. Insomma, l’Europa doveva prima o poi affrancarsi dalla tutela americana e Trump la costringe a farlo ora, drasticamente.
I sostenitori interni all’Amministrazione rimarcano che questa strategia non mira a distruggere la NATO, bensì a rafforzarla su basi nuove. Il concetto di “burden-sharing” (condivisione degli oneri) è portato alle estreme conseguenze: la NSS definisce gli USA non più il “garante ultimo” ma il “convocatore e sostenitore” di una rete di difesa comune. Ciò implica che gli europei devono coprire le lacune convenzionali nel dispositivo di deterrenza occidentale, mentre gli Stati Uniti manterranno soprattutto gli elementi di “overmatch” (tecnologia avanzata, dissuasione nucleare). Un report di “Reuters” ha rivelato che Washington vuole che l’Europa prenda in carico la maggioranza delle capacità difensive convenzionali della NATO (intelligence, missili, forze corazzate ecc.) nel giro di pochi anni. Alcuni a Bruxelles l’hanno definita una scadenza irrealistica, ma i difensori replicano: “irrealistico è pensare che gli USA possano farsi carico per sempre della difesa europea contro una Russia nucleare, mentre fronteggiano anche la Cina”. Con la guerra in Ucraina, l’Europa ha già dovuto rafforzarsi in tempi brevi: Trump ne accelera la trasformazione da protetta a partner.
L’idea che la strategia di Trump, per quanto scomoda, possa giovare all’Europa stessa è condivisa pure da alcuni esperti neutrali. Brad Bowman (Fondazione per la Difesa delle Democrazie) ha commentato sui social che nella “gara per tempo, risorse e attenzione” i vincitori sono l’Emisfero Occidentale e forse il Pacifico, mentre la perdente è l’Europa. Ciò suona negativo per gli europei, ma li costringe a reagire: ad esempio, la Polonia (ora guidata da Donald Tusk) ha compreso il messaggio e sta promuovendo il concetto di “autonomia strategica” europea non per ostilità anti-USA, ma per divenire un alleato più forte e credibile. Lo stesso Alto Rappresentante UE, Kaja Kallas, ha ammesso che “ci sono molte critiche [nella NSS] ma alcune sono vere” e ha ribadito: “Gli USA restano il nostro più grande alleato… Non sempre siamo stati d’accordo su tutto, ma il principio generale resta valido: dobbiamo restare i migliori alleati e dovremmo restare uniti”. In pratica, le figure più atlantiste invitano a non drammatizzare i toni di Trump, bensì a coglierne il segnale: “l’America resta con noi, ma chiede che ci difendiamo da soli quando possibile”. È un colpo potenzialmente benefico nel lungo termine, perché stimola investimenti e coordinamento continentale sulla difesa.
Già si vedono effetti: dopo l’uscita della NSS, vari governi UE hanno accelerato piani per aumentare le spese militari (la Germania valuta di portarle dal 2 al 3% entro un decennio, l’Italia ha promesso un salto al 2% entro pochi anni) e per rafforzare la cooperazione militare intra-europea. Alexandr Serban, analista romeno, osserva che l’Europa centro-orientale dovrà puntare su più autosufficienza e cooperazione regionale, il che in fondo si allinea con obiettivi che alcuni Paesi, come la Romania, già perseguono (modernizzare le forze armate, snellire le strutture NATO in Europa). Meno dipendenza dagli USA può inoltre significare maggiore libertà d’azione europea in aree dove finora attendeva la guida di Washington, come la gestione di crisi nel vicinato (Balcani, Mediterraneo) o politiche industriali per la difesa.
I sostenitori fanno notare che Trump non “abbandona” davvero l’Europa, ma la tratta con schiettezza per spronarla. Prova ne sia che la NSS ribadisce l’impegno americano a evitare che la Russia espanda il conflitto ucraino e a mantenere la “stabilità strategica” in Europa. Inoltre, sebbene critico verso Bruxelles, Trump valorizza i legami bilaterali con singoli Paesi europei che ritiene affidabili. Il testo sottolinea che gli USA “vogliono che l’Europa ritrovi la fiducia in se stessa come civiltà” e ritiene “vitali” i mercati e le industrie avanzate europee, definendo l’Europa un “alleato indispensabile” – pur “culturalmente inaffidabile” finora. Dietro la sferzata retorica, insomma, c’è l’auspicio che l’Europa diventi forte (ma non autonoma al punto da divergere dagli USA). Si chiede un’Europa “grande, ma sotto tutela” americana nelle questioni cruciali, una critica forse paternalistica, ma che implica comunque volontà di collaborazione se i partner si mostrano solidi. Come ha detto la stessa Meloni: “non parlerei di incrinatura dei rapporti UE-USA… l’America dice qualcosa di vero e inevitabile”, ovvero che “la difesa europea ha un costo che l’Europa deve assumersi”.
Dunque, la NSS 2025 fa bene all’Europa svegliandola dal torpore. Vengono rimossi i guanti diplomatici e dette verità scomode affinché gli alleati escano dalla comfort zone e diventino partner maturi. È un percorso forse traumatico, ma “storicamente inevitabile” e in ultima analisi benefico sia per l’Europa (che rafforza la propria capacità di difesa e peso globale) sia per gli USA (che avranno alleati più affidabili e meno oneri unilaterali).
Nina Celli, 9 dicembre 2025
Dottrina Monroe 2.0: un pericoloso neoimperialismo che destabilizza le Americhe
La decisione di Trump di riproporre in chiave moderna la Dottrina Monroe ha destato forti critiche, specie in America Latina, dove viene percepita come un ritorno all’interventismo prepotente degli Stati Uniti nella regione. Secondo questa tesi, il “Trump Corollary” allontanerà ulteriormente i vicini del Sud, alimentando instabilità e sentimenti antiamericani e nel lungo periodo non migliorerà la sicurezza USA ma la comprometterà. Storicamente, la Dottrina Monroe (1823) dichiarava il Latinoamerica sfera di influenza esclusiva USA e servì a giustificare decine di ingerenze negli affari interni di quelle nazioni: dai supporti a colpi di Stato (come il rovesciamento di governi di sinistra) a occupazioni militari dirette (Haiti, Repubblica Dominicana, Cuba, Panama) durante l’“era delle cannoniere”. Proprio per questo in America Latina “Monroe” è quasi sinonimo di imperialismo a stelle e strisce. Il fatto che la NSS 2025 la rievoci esplicitamente e anzi la rivendichi come “restaurazione del potere americano” ha suscitato allarme e irritazione diffuse tra intellettuali e governi latinoamericani. Il quotidiano spagnolo “El País” titola: “Gli USA aprono una nuova epoca di interventi in America Latina” e nota che il concetto è già stato soprannominato la “Dottrina Donroe” (Donald + Monroe). Questo sarcasmo rivela la percezione negativa: si vede il Corollary come un Monroe “con caratteristiche trumpiane”, dunque ancora più brutale e noncurante.
La NSS chiede infatti ai Paesi latini di “cooperare o perire” su tre fronti: frenare ogni migrazione verso gli USA, neutralizzare i cartelli della droga/narcoterroristi e sradicare la presenza cinese nella regione. Il tono è imperativo: “vogliamo un emisfero in cui i governi cooperino con noi contro narcos e altro… e resti libero da incursioni ostili straniere”. Ai governi latinoamericani viene, cioè, intimato di allinearsi agli obiettivi USA di sicurezza e anche di seguire la sua linea di politica estera (tagliare i legami con Cina e Russia). L’offerta “positiva” è qualche incentivo economico: “on good terms via economic collaboration, or else” – scrive “El País”. Questa approccio ultimativo viene fortemente criticato come miope e destinato al fallimento. Perché? In primo luogo, ignora la sovranità e la dignità di nazioni che non accetteranno volentieri di farsi “commissariare” da Washington. Molti governi latinoamericani, anche moderati, sono sensibili al tema del rispetto reciproco dopo secoli di paternalismo USA. Un ex diplomatico, John Feeley, ha commentato che Trump “tratta l’America Latina come un condominio di sua proprietà”: con quell’elenco di pretese (niente migranti, niente Cina, niente droga), sta dando ordini ai vicini invece di proporre partnership. Questa attitudine rischia di innescare una reazione nazionalista contraria: in paesi come Messico, Argentina, Brasile, persino governi non ostili verso gli USA saranno costretti dalla propria opinione pubblica a rifiutare imposizioni così sfacciate. Il risultato potrebbe essere un inasprimento dei rapporti invece che una maggiore cooperazione. Ad esempio, la minaccia di usare forza militare contro i cartelli in altri Paesi (il testo menziona proprio “l’uso di forza letale” contro i narcos dove necessario, segnalando operazioni in stile drone strikes sul territorio altrui) è stata accolta con sdegno in Messico: tutti i partiti – dal governo di sinistra di AMLO all’opposizione di destra – hanno condannato la prospettiva come violazione inaccettabile della sovranità. Persino chi riconosce il problema dei cartelli difficilmente accetterà Marines o raid USA in casa propria. Immaginiamo se la situazione degenerasse: gli USA intraprendono operazioni in stile War on Drugs 2.0 (già suggerite dalla retorica “narcoterroristi = Al Qaeda dei Caraibi”). Questo avrebbe l’effetto di incrementare l’antiamericanismo popolare e unire molti governi nel condannare Washington presso OSA e ONU, isolandola diplomaticamente.
Un secondo problema è la sottovalutazione della dimensione locale e delle cause di fondo. La NSS parla di “interventi elettorali” per favorire politici amici nella regione e di possibili operazioni militari in Venezuela. Di fatto annuncia (o minaccia) di voler rovesciare il regime di Maduro se non cade con le buone. Questo è pericoloso: il Venezuela odierno è sostenuto militarmente da Russia ed economicamente dalla Cina. Un intervento americano (anche limitato) potrebbe degenerare in conflitto più ampio o in nuove guerre civili stile Iraq. Gli oppositori interni di Maduro stessi, finora, hanno evitato di chiedere invasioni straniere, consapevoli del caos che ne seguirebbe. Se gli USA intraprendessero questa strada da soli (perché è chiaro che nessun altro li seguirebbe), potrebbero trovarsi impantanati in un nuovo scenario bellico sudamericano, con conseguenze drammatiche per la stabilità regionale e nuove ondate di profughi (esattamente ciò che la NSS vorrebbe evitare). In più, la deliberata volontà di “interferire in favore di governi amici” (cioè, piegare i processi democratici locali per mettere leader pro-USA) è la reincarnazione delle politiche di inizio ‘900 che gli USA avevano poi rigettato. Ciò distruggerà la credibilità americana come partner rispettoso della democrazia in Latinoamerica. Come evidenzia Macarena Vidal, due secoli dopo Monroe, la dottrina torna con “caratteristiche trumpiste: campagna militare su Venezuela, pressioni fino all’ingerenza elettorale per installare governi affini in una regione polarizzata”. Non esattamente la ricetta per la pace e l’amicizia.
Gli analisti notano inoltre che la NSS semplifica eccessivamente: immagina di poter “cacciare via” tutte le influenze esterne (Cina, Russia, Iran) dall’emisfero con “qualche base navale e prestito agevolato”, ma molti governi latini oggi considerano la competizione tra potenze “un’opportunità, non una minaccia”. Paesi come Brasile o Argentina usano abilmente i rapporti sia con USA che con Cina per ottenere investimenti e margine di manovra. Dire loro “niente più affari con Pechino” li porrebbe di fronte a una scelta impossibile, che probabilmente rifiuteranno (Cina è il primo partner commerciale per molti). Forzarli potrebbe spingerli più verso la Cina, paradossalmente, alla ricerca di un contrappeso all’egemonismo di Washington. Liana Fix (CFR) osserva che l’approccio di Trump “non riconosce che molti governi latini vedono la competizione USA-Cina come un vantaggio da sfruttare” e che tentare di espellere tutti gli altri con la forza è non capire il mondo multipolare attuale.
Infine, i critici sottolineano il doppio standard ipocrita e i rischi derivanti: Trump rivendica “diritto di impedire basi e controllo straniero” in tutto l’emisfero, però quando la Russia ha invocato dottrine simili per la sua sfera (come l’Ucraina fuori dalla NATO), gli USA giustamente l’hanno rigettato. Tornare a logiche ottocentesche di “sfera esclusiva” legittima altri a fare lo stesso altrove: ecco perché paesi neutrali come l’India guardano con sospetto il Monroe redivivo – temono che analoghe pretese cinesi su Asia Orientale trovino appiglio. L’idea che “tutto l’emisfero è condizione della nostra sicurezza e prosperità” appare a molti come un greenlight al neocolonialismo, col rischio di alimentare conflitti. John Walsh (WOLA) denuncia che “stiamo assistendo a una diplomazia delle cannoniere 2.0: Trump non crede nel soft power, pensa solo al potere di costringere”. Questo atteggiamento, afferma, è destinato a generare contraccolpi: ricordando come gli episodi peggiori del passato (dittature appoggiate dagli USA, invasioni come Panama 1989) abbiano lasciato traumi, ritiene che ripetere simili azioni nel XXI secolo potrebbe destabilizzare fortemente l’area e macchiare irreparabilmente l’immagine americana.
Insomma, i critici vedono la Monroe 2.0 di Trump come un passo indietro di decenni nelle relazioni interamericane – un ritorno all’arroganza imperialista che ha storicamente seminato rancore e conflitto. Invece di maggiore sicurezza, questa dottrina rischia di provocare nuove tensioni (fino a scontri militari) al sud, alienare interi popoli e spingere molti Paesi latinoamericani nelle braccia di potenze rivali per cercare protezione da Washington. Gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi con un “giardino di casa” in fiamme e ostile, esattamente l’opposto di ciò che la NSS dice di voler ottenere. Come scrive “El País”, “due secoli dopo Monroe torna l’era degli interventi… con fantasmi dei suoi episodi più atroci”. Rievocarli non porterà “stabilità nel cortile”, ma ricordi di Pinochet e operazione Condor – ombre che l’America Latina non ha dimenticato e contro cui reagirà. In sintesi, la “Dottrina Donroe” appare ai critici pericolosa e anacronistica: un cowboy solitario che spara nel villaggio globale sperando di ristabilire l’ordine, ma finendo per far scappare gli abitanti e far saltare la banca. La sicurezza USA, invece di crescere, ne risentirà quando il suo vicinato sarà nel caos e rancoroso verso di essa.
Nina Celli, 9 dicembre 2025
L’America torna nel proprio emisfero: prima la sicurezza di casa
La NSS 2025 segna un deciso ritorno al vicinato come fulcro della sicurezza nazionale statunitense. I sostenitori applaudono questa scelta definendola un atto di realismo geopolitico atteso da tempo. Dopo due decenni concentrati su Medio Oriente e Asia, la nuova strategia riconosce che minacce concrete e immediate per gli USA provengono dall’Emisfero Occidentale e vanno affrontate alla radice. Il documento afferma chiaramente che gli Stati Uniti “reinstalleranno la loro preminenza” nelle Americhe come condizione della propria sicurezza e prosperità. Ciò si traduce, in primis, in un’attenzione prioritaria al confine meridionale e ai Caraibi, ritenuti fronti esposti a traffici illeciti e instabilità. Non è un caso, sottolineano i favorevoli, che l’amministrazione abbia già dispiegato oltre 10.000 soldati e unità navali nelle acque caraibiche per contrastare le “narcolance” dei cartelli della droga e altre minacce transnazionali. Questa proiezione di forza dimostra che Washington fa sul serio: stop al dilagare di fentanyl e gang che ha causato decine di migliaia di morti per overdose negli USA. Di fronte a un traffico di stupefacenti che il solo approccio di polizia non è riuscito a domare, la strategia Trump sostiene l’impiego di metodi più muscolari: la marina USA ha già affondato decine di imbarcazioni dei narcos e “non esclude azioni dirette” contro basi criminali in Paesi come il Venezuela, se necessario. I sostenitori di questa visione ammettono che si tratta di misure dure, ma le reputano giustificate dall’emergenza: “i cartelli vanno affrontati come Al Qaeda dei Caraibi”, ha dichiarato un alto funzionario, sottolineando che si userà tutta la forza occorrente.
La dottrina Monroe rivisitata – il cosiddetto Trump Corollary – viene difesa come un “ritorno al buon senso”. Alexander B. Gray, ex consigliere di Trump, la definisce il riconoscimento che la sicurezza della patria parte dal proprio emisfero e che prevenire minacce lì è più efficace che rincorrerle lontano. Invece di disperdere risorse in missioni remote, l’America tornerà a presidiare i propri mari e confini: nessun attore ostile (dai network jihadisti a potenze rivali) deve poter stabilire teste di ponte nel “giardino di casa” USA. Questa enfasi regionale ha anche una logica preventiva: stabilizzando il Centro-Sud America, frenando i collassi economici e le crisi politiche che spingono ondate migratorie, gli USA evitano migrazioni di massa verso il loro territorio. Will Freeman (“CFR”) ha salutato come una “correzione a lungo dovuta” il posizionamento del Western Hemisphere “al di sopra di ogni altra regione”: dopo anni di trascuratezza, sostiene, gli USA fanno bene a occuparsi delle minacce sotto casa propria, che finora hanno pagato in overdose, criminalità e flussi ingestibili.
I sostenitori rilevano inoltre che l’approccio emisferico può rafforzare partnership regionali positive. La dottrina di Trump non è isolazionista, notano, ma piuttosto regionalista: vuole “arruolare e ampliare” una rete di Paesi americani disposti a collaborare su sicurezza e crescita. L’idea è che molte nazioni vicine condividono gli obiettivi di ordine pubblico e sviluppo economico: se gli USA offrono investimenti e progetti infrastrutturali (ad esempio in telecomunicazioni, porti, energia), questi partner preferiranno Washington alla Cina. Una maggiore presenza economica USA nell’area – evidenziano gli esperti atlantisti – può essere ben accolta, dato il “desiderio diffuso per più investimenti americani” in settori come telecomunicazioni e portualità. La NSS prevede proprio un impegno di tutto il governo per elevare il ruolo statunitense in tali settori cruciali. L’America Latina cessa insomma di essere retroguardia dimenticata e diventa parte integrante della strategia di potenza USA, con benefici potenziali anche per i vicini: più commercio, infrastrutture e sicurezza condivisa.
In sintesi, la NSS 2025 aggiusta la mira della politica estera USA sul bersaglio giusto: il proprio emisfero. Questo focus locale, unito alla disponibilità a usare mezzi energici contro minacce come narcotraffico e immigrazione clandestina, è visto come un approccio concreto e risoluto a problemi reali. Riducendo gli impegni lontani e mettendo ordine “in casa”, gli Stati Uniti possono costruire una base di sicurezza solida sul continente americano – condizione, secondo la NSS, per poi “potersi affermare con certezza dove e quando necessario” altrove. La massima “prima il nostro emisfero” è dunque interpretata dai favorevoli non come egoismo, ma come prioritizzazione intelligente: prima spegni gli incendi nel tuo giardino, poi guardi oltre la siepe. E per l’America, storicamente, il “giardino di casa” coincide con la propria sicurezza nazionale.
Nina Celli, 9 dicembre 2025
È una frattura transatlantica: l’attacco all’Europa indebolisce l’Occidente
Tra le critiche più immediate e diffuse alla NSS 2025 vi è la violenta invettiva contro gli alleati europei, ritenuta controproducente e pericolosa. Secondo questa tesi, la strategia di Trump rischia di aprire una profonda frattura transatlantica, minando decenni di fiducia reciproca e indebolendo il fronte occidentale di fronte alle sfide globali. Le parole usate nel documento verso l’Europa non hanno precedenti nella storia della NATO: esso parla di “prospect of civilizational erasure” (prospettiva di cancellazione di una civiltà) riferito al continente europeo se non cambia corso. Accusa l’UE e organismi transnazionali di “rischiare la libertà politica” dei Paesi membri e “sopprimere l’opposizione”. Suggerisce persino che “entro pochi decenni, alcuni membri NATO diventeranno a maggioranza non-europea”, mettendo in dubbio che in quel caso sarebbero ancora affidabili alleati. Queste affermazioni – sottolineano i critici – riecheggiano la retorica dell’estrema destra europea (sostituzione etnica, declino dell’Occidente) e offendono gravemente i partner. Non sorprende che tali frasi siano state accolte con indignazione e allarme nelle capitali europee. Donald Tusk, primo ministro polacco (pro-USA di lungo corso), ha reagito su X implorando: “Cari amici americani, l’Europa è il vostro alleato più stretto, non il vostro problema… Abbiamo nemici comuni da 80 anni, restiamo uniti”. Questo appello quasi disperato evidenzia quanto la NSS abbia messo in dubbio i fondamenti dell’alleanza: se gli USA iniziano a vedere l’Europa come un peso o addirittura un modello nemico, l’intero sistema di sicurezza occidentale vacilla.
I critici sostengono che questi strappi verbali giocano a vantaggio di Russia e Cina. Non a caso Dmitrij Peskov, portavoce di Putin, ha definito “in gran parte coerenti con la nostra visione” i cambiamenti di Trump sulla strategia USA verso l’Europa. Il Cremlino ha addirittura parlato di “spiragli per un lavoro costruttivo insieme” sulla pace ucraina. Ciò suona un campanello d’allarme: se Mosca applaude, vuol dire che la NSS sta spaccando il fronte antirusso e avvicinando le posizioni Washington-Mosca alle spalle degli europei. Di fatto, Putin ottiene con la penna di Trump ciò che non era riuscito a ottenere con anni di propaganda: mettere Washington contro Bruxelles. Similmente, i media cinesi hanno evidenziato con soddisfazione la parte in cui la NSS critica l’UE per censura e immigrazione: disaccordi transatlantici su questi temi sono una manna per Pechino, che vede erosasi la coesione occidentale. Macron, solo un anno prima, aveva avvisato del “rischio di morte cerebrale della NATO”; la NSS 2025 rischia di dare corpo a quella profezia, isolando politicamente gli USA dai loro storici alleati.
A preoccupare non è solo la retorica, ma anche il messaggio sostanziale: Trump sembra indicare di non vedere più valore nell’alleanza con un’Europa “decadente e inaffidabile”. Fa dubitare che alcuni Paesi (implicitamente, i grandi dell’Europa occidentale) avranno ancora economie ed eserciti abbastanza robusti per restare alleati degni entro 20 anni. Insomma, mette in forse l’intera idea di un Occidente unito. Questo rischia di provocare reazioni a catena: sentimenti antiamericani in Europa potrebbero rafforzarsi, partiti filorussi (già nominati con favore da Trump) potrebbero acquisire legittimità. Daniel Fried, ex ambasciatore USA all’UE, avverte che la NSS è piena di “posturing ideologico contro l’Europa” che rischia di tradursi in un ritiro degli USA dalla leadership del mondo libero. Questo, oltre a essere un tradimento dei valori storici americani, creerebbe un vuoto di potere in cui le democrazie sarebbero più vulnerabili. Una NATO indebolita dalla diffidenza reciproca è esattamente ciò che Putin sperava di ottenere invadendo l’Ucraina; la NSS, paradossalmente, glielo sta consegnando.
I critici puntualizzano anche che l’approccio di Trump non considera le conseguenze pratiche sul campo. Ad esempio, l’amministrazione Biden era riuscita a mantenere una solida unità transatlantica nel supporto all’Ucraina. Persino con differenze interne (Polonia vs Ungheria ecc.), l’UE e la NATO avevano marciato abbastanza compatte nel sostenere Kiev. Ora Trump definisce il sostegno europeo “irrealistiche aspettative”, accusa i governi UE di essere instabili e tirannici con le opposizioni, e sostiene che “una larga maggioranza europea vuole la pace” ma è tenuta ostaggio da élite bellicose. Questo retropensiero (“popolo europeo stanco della guerra vs leader guerrafondai”) rischia di minare la determinazione europea nel continuare il supporto a Kiev. Se gli USA mostrano dubbi sulla rotta e strizzano l’occhio alle narrazioni populiste (“governi di minoranza instabili che calpestano la democrazia”), è plausibile che alcune capitali UE invertano la marcia sul sostegno all’Ucraina. Il documento appare incoraggiare tale scenario citando positivamente i “partiti patriottici” anti-immigrati in Europa come esempi di rinascita. In pratica, il presidente USA sta dicendo che preferisce in Europa i movimenti euroscettici e filo-nazionalisti (molti dei quali guardano a Putin con simpatia) rispetto ai governi attuali eletti. È difficile immaginare un sabotaggio transatlantico più plateale di questo.
Dal punto di vista dei critici, dividere l’Occidente è autolesionista per gli Stati Uniti stessi. Ursula von der Leyen ha affermato: “mai come ora l’unità transatlantica è stata importante” di fronte alle autocrazie aggressive, messaggio che la NSS ignora completamente. Se l’America spinge l’Europa “fuori dal nido” in questo modo brutale, l’Europa potrebbe scegliere una rotta propria e divergere dagli interessi USA. Già si vedono segnali: leader europei come Macron parlano di “autonomia strategica” che non faccia sempre affidamento sugli USA. Finché Biden ricuciva, queste velleità restavano moderate. Ma se gli USA li trattano da nemici culturali, gli europei potrebbero decidere di non seguire più Washington su questioni cruciali (ad eempio, sanzioni alla Cina, posture su Taiwan). Kaja Kallas, ministra degli Esteri UE, ha provato a mitigare dicendo “gli USA restano nostro maggior alleato… anche se alcune critiche di Trump sono vere”, segno però di imbarazzo e tentativo di salvare il salvabile. Tusk e Kallas hanno fatto i pompieri, ma non è garantito che l’opinione pubblica e altri leader faranno altrettanto: già oggi in Germania e Francia crescono sentimenti per “non essere più vassalli” degli USA (alimentati da partiti di sinistra e di destra). La NSS fornisce argomenti a questi movimenti.
Dunque, l’attacco frontale di Trump all’Europa è un grave errore strategico. Erode la coesione dell’alleanza proprio mentre la Russia è ancora aggressiva a Est e la Cina preme a Ovest. “Divide et impera” è stato sempre il motto dei nemici dell’Occidente: ora, dicono i critici, sembra diventato il motto del presidente americano verso i suoi amici. Il rischio è di trovarsi, tra pochi anni, con una NATO svuotata dalla diffidenza, un’UE più filocinese o filorussa in alcuni segmenti, e l’intero pilastro occidentale indebolito. Trump potrà anche far aumentare di colpo la spesa militare europea per puntiglio (cosa comunque incerta nei fatti), ma a che serve un’Europa più armata se politicamente disallineata dagli USA? I legami di fiducia e valori condivisi, costruiti in 80 anni, non si recuperano facilmente dopo essere stati lacerati pubblicamente. Invece di un partner affidabile, Washington rischia di ritrovarsi un’Europa risentita e divisa al suo fianco. In definitiva, la NSS 2025 mina dall’interno l’unità dell’Occidente, regalando ai veri avversari – Russia e Cina – proprio ciò che speravano: un fronte democratico spaccato e titubante. E questo, per la sicurezza americana, è un colpo ben peggiore di qualunque “fardello” Trump creda di togliersi di dosso denigrando gli alleati.
Nina Celli, 9 dicembre 2025
Quello di Trump è un pragmatismo anti-utopico: basta guerre infinite, più spazio alla pace
La NSS 2025 viene celebrata dai suoi sostenitori come un ritorno al pragmatismo dopo anni di idealismo e impegni militari a tempo indeterminato. In particolare, la nuova strategia rompe con la retorica delle “guerre per la democrazia” e abbraccia il concetto di pace negoziata e stabilità come obiettivi supremi, anche a costo di compromessi. Per i favorevoli, questo approccio anti-utopico era necessario: troppe volte gli Stati Uniti hanno perseguito missioni ambiziose (esportare la democrazia, rifare nazioni) finendo impantanati in conflitti senza fine – dall’Iraq all’Afghanistan – senza risultati proporzionati ai sacrifici. La dottrina Trump, al contrario, afferma con franchezza che la politica estera sarà guidata “soprattutto da ciò che funziona per l’America”, rifuggendo crociate ideologiche.
Uno scenario emblematico è la guerra in Ucraina. Mentre l’amministrazione precedente insisteva su una “vittoria totale” di Kiev e il ripristino dell’ordine internazionale violato, la NSS 2025 adotta una prospettiva diversa: “È un interesse prioritario degli Stati Uniti negoziare una rapida cessazione delle ostilità in Ucraina”, recita il testo, esplicitando che la priorità americana è prevenire escalation e stabilizzare l’Europa. I proponenti interpretano queste parole come salutari: l’obiettivo realistico non è inseguire una vittoria idealistica su Mosca, che potrebbe non arrivare mai, ma ottenere un cessate-il-fuoco che salvi vite, eviti rischi di guerra nucleare e consenta di “ricostruire un’Ucraina vitale”. In sostanza, la pace – sia pure imperfetta – viene considerata preferibile a un conflitto prolungato. Un commentatore favorevole ha osservato che questa NSS “sostituisce il massimalismo con il realismo”: riconosce che Putin non accetterà mai una pace vissuta come propria sconfitta totale e che insistere su obiettivi massimi rischia solo di prolungare il bagno di sangue. Meglio dunque trattare, finché c’è ancora un’Ucraina da salvare.
La “dottrina Trump”, d’altronde, rivendica risultati tangibili già ottenuti con questo approccio pragmatico. Nel documento Trump si autodefinisce “Presidente della Pace” e l’Amministrazione elenca una serie di successi diplomatici lampo ottenuti nei primi mesi del mandato. Si parla – con toni forse autocelebrativi, ma non smentiti – di otto conflitti risolti tramite mediazione diretta di Trump in soli otto mesi. Tra questi, figurano accordi di pace sorprendenti come tra Cambogia e Thailandia, Kosovo e Serbia, Repubblica Democratica del Congo e Rwanda, India e Pakistan, oltre a un cessate il fuoco a Gaza con restituzione di tutti gli ostaggi. Se anche alcune di queste iniziative erano in preparazione da anni e sono frutto di sforzi multilaterali, i sostenitori attribuiscono a Trump il merito di aver avuto il “tocco da negoziatore” e l’urgenza necessari per chiudere partite aperte da decenni. Rebecca Lissner, pur critica su altri fronti, ammette che la NSS 2025 “non ha il tono grave dei predecessori” ma piuttosto uno slancio quasi pamphlettistico: questa mancanza di reverenza verso i canoni diplomatici tradizionali potrebbe aver paradossalmente aiutato Trump a spezzare alcuni stalli storici. In altre parole, il documento riflette lo stile del suo autore: polemico, spregiudicato, ma orientato al risultato concreto.
Un altro aspetto pragmatico è la chiusura delle cosiddette “Endless Wars” (guerre infinite). La NSS proclama la fine dell’era degli interventi militari di lunga durata per “esportare la democrazia” o “costruire nazioni”. Invece, si promettono accordi diplomatici mirati e la riduzione della presenza militare nelle aree che hanno dominato l’agenda americana per 50 anni (Medio Oriente in primis). Grazie all’indipendenza energetica raggiunta e agli Accordi di Abramo (eredità del primo mandato Trump), la NSS dichiara “conclusa quell’epoca” in cui il Medio Oriente dettava la politica estera USA. Anche qui, i favorevoli vedono saggezza: consolidare i successi (ad esempio l’avvicinamento storico tra Israele e Paesi arabi, definito ora “processo di normalizzazione” che Trump intende perfezionare) e passare dalla guerra alla gestione del rischio. Si tratta di accettare la realtà sul campo, che include regimi non democratici ma partner negli “accordi pragmatici”, al fine di evitare nuovi conflitti sanguinosi. Come ha affermato Giorgia Meloni commentando questa linea, “la pace non si costruisce con le buone intenzioni ma con la deterrenza”, cioè con un mix di forza e compromesso che convinca tutte le parti a posare le armi.
I sostenitori riconoscono che parlare di pace contrattata con gli avversari può suonare come una rinuncia ai principi; tuttavia, ribattono che la vera responsabilità di un leader è massimizzare la sicurezza e gli interessi del proprio popolo, non sostenere cause astratte all’infinito. Se ciò significa accettare soluzioni imperfette (ad esempio un compromesso territoriale in Ucraina o accordi con regimi non liberali in Medio Oriente) è un prezzo da pagare per evitare catastrofi peggiori. In quest’ottica, Trump viene dipinto come un deal-maker realista: lui stesso rivendica di aver “reso l’America di nuovo capace di fare pace proprio perché percepita come potenza incontestabile”. È un concetto di pace basato sul rapporto di forza: prima ristabilisci la deterrenza (con attacchi mirati come Operation Midnight Hammer che ha indebolito il programma nucleare iraniano, o con il dispiegamento massiccio ai Caraibi che ha spaventato Maduro), poi offri un accordo vantaggioso a tutti. Da posizioni di forza, Trump ha ad esempio convinto Iran e Hamas a un cessate il fuoco duraturo in Medio Oriente e “unito il mondo arabo a Sharm el-Sheikh” sulla strada della normalizzazione israelo-palestinese. I pro-NSS vedono in questi risultati la prova che abbandonare l’ideologia a favore del pragmatismo paga: l’amministrazione Biden, sostengono, ha enfatizzato i principi (democrazie vs autocrazie) ottenendo poco, mentre Trump parlando di “ciò che funziona” e barattando concessioni reciproche ottiene progressi tangibili.
La NSS 2025 riporta la politica estera USA coi piedi per terra. Basta obiettivi irrealistici e “missioni civilizzatrici” infinite; sì a trattative, compromessi e rapide soluzioni diplomatiche quando possibile. La pace è concepita non in senso idealizzato, ma come cessazione dei combattimenti alle migliori condizioni possibili. Questo, per i sostenitori, non è cinismo bensì buon governo: garantire sicurezza e stabilità minimizzando i costi umani e finanziari. “Nessuna pace è perfetta, ma una pace imperfetta è meglio di una guerra perpetua” sembra essere il motto di Trump. Alla luce dei conflitti scongiurati (o almeno congelati) in pochi mesi di diplomazia spregiudicata, i fautori della NSS credono che questo motto abbia dimostrato la sua validità.
Nina Celli, 9 dicembre 2025
NSS segna la fine della leadership liberale USA e maggiore rischio per la sicurezza globale
La NSS 2025 di Trump equivale a un ritiro sostanziale degli Stati Uniti dal ruolo di guida dell’ordine liberale internazionale, con conseguenze potenzialmente disastrose per la stabilità globale. Pur non dichiarando apertamente l’isolazionismo, la strategia di fatto smantella i principi e le architetture che hanno mantenuto la sicurezza mondiale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, senza offrire valide alternative. Innanzitutto, la NSS liquida come “illusione” la visione bipartisan che inquadra le relazioni internazionali come uno scontro tra democrazie e autocrazie. Definisce “fallita” l’idea di poter plasmare un mondo secondo i valori USA e rigetta la “global domination” che imputa a precedenti élite. Questa abiura suona bene a chi è stanco di interventismi, ma i critici notano che lascia un vuoto concettuale: se gli USA non aspirano più a promuovere un ordine basato su democrazia, diritti umani e regole, che tipo di ordine globale risulterà? La NSS parla vagamente di “equilibri globali e regionali di potere”, il che sembra suggerire un ritorno a zone d’influenza e concerti tra grandi potenze, reminiscenti dell’800. Una tale impostazione però ignora insegnamenti storici dolorosi: il mondo puramente multipolare senza norme condivise fu quello che precipitò nelle due guerre mondiali. Gli USA di Truman e Marshall lo sostituirono con un sistema di alleanze e istituzioni (ONU, NATO, Bretton Woods) che – pur imperfetto – ha evitato grandi conflitti per 75 anni e garantito straordinari progressi economici e di libertà.
Trump nella NSS sembra gettare alle ortiche questo patrimonio. Ad esempio, la strategia critica apertamente istituzioni come l’Unione Europea (accusata di opprimere la sovranità degli Stati) e mostra disprezzo verso le organizzazioni internazionali e accordi globali, dal clima al commercio. Questa attitudine è a vantaggio degli autocrati, che vedono nei consessi multilaterali (dove spesso vengono richiamati sui diritti umani o vincolati su regole) un ostacolo. Aslı Aydıntaşbaş (Brookings) scrive che la NSS appare “straordinariamente trasparente nel desiderio di normalizzare le relazioni con la Russia” e ruvida verso l’Europa, e invita a immaginare “una contro-NSS post-Trump” che dovrà riparare i danni: perché il mondo e il clima intellettuale del 2025 non sono più quelli del 2021 e molte certezze si sono incrinate. In altre parole, se e quando arriverà un altro presidente USA, dovrà faticare a ricostruire quell’aura di leadership benigna che Trump avrà demolito. Ciò, nel frattempo, avrà creato una finestra di vulnerabilità globale: attori malintenzionati si sentono liberi di agire sapendo che l’America “non farà il poliziotto morale”. Ad esempio, già con Trump di nuovo alla Casa Bianca, vediamo Israele calcare la mano a Gaza e Cisgiordania senza freni (forte del fatto che la NSS preme per porre fine ai “piani di pace” dell’era Biden e tornare a un Medio Oriente “meno prioritario” e accomodante verso regimi autoritari). Allo stesso modo, dittatori e aspiranti tali in tutto il mondo recepiscono il segnale: gli USA non vi faranno più prediche sui modelli democratici. La NSS lo dice chiaramente, “tratteremo i partner mediorientali per come sono, senza pretendere di esportare modelli democratici”, quindi si sentiranno più liberi di attuare repressioni, colpi di mano, proroghe infinite al loro potere.
Gli esperti contrari avvertono che la NSS di Trump coincide essenzialmente con ciò che Ivo Daalder (ex ambasciatore NATO) ha definito “ritiro USA nell’unilateralismo nazionalista”: rifuggire da ogni impegno verso cause e principi comuni significa di fatto cedere terreno alle potenze revisioniste. Egli l’ha chiamata “unserious but dangerous strategy”, perché va oltre la retorica: licenzia concetti cardine come la promozione della democrazia come se fossero frivolezze, quando in realtà erano strumenti di influenza e sicurezza: creare un mondo più democratico ha sempre coinciso con creare un mondo più sicuro per l’America. Ora gli USA di Trump dicono “quei principi non ci importano più”. Il rischio è che gli alleati e paesi neutrali perdano fiducia nella serietà e nella costanza americana. Vanda Felbab-Brown osserva che la NSS 2025, con la sua riaffermazione di un ruolo quasi “neo-imperialista” degli USA nell’emisfero e il rifiuto di scusarsi per i comportamenti passati (golpe, invasioni), “alimenta i profondi risentimenti” contro gli Stati Uniti e compromette le sue politiche. Questo è vero in America Latina, ma su scala più ampia può avvenire ovunque: Trump sta dipingendo un’America che non pretende più di essere “quella buona”, ma solo “quella forte”. Ciò può apparire onesto, ma ha conseguenze: perché altri Paesi dovrebbero seguirne la guida o fidarsi, se gli USA esplicitamente rifiutano l’idea di un bene comune internazionale e agiscono solo “in base al proprio tornaconto”? “America First – e chi se ne importa del resto” è la vibrazione che il mondo percepisce dalla NSS. Questo, secondo i critici, erode la legittimità morale e l’influenza diplomatica costruite dagli USA in 70 anni.
In Asia e Africa, ad esempio, la riduzione dell’impegno USA (specie su temi come la governance e i diritti) lascia campo libero alla Cina di presentarsi come partner alternativo senza condizionalità. Il documento afferma di voler contrastare Pechino in Latino-America, ma in Africa adotta un approccio diverso: la “logica di investimenti e scambi” privilegiando i Paesi “affidabili e aperti al business USA”, dedicando “pochissimo spazio” a governance, disuguaglianze e conflitti locali. Rama Yade nota che la NSS appare “una svolta drammatica” ma poi finisce per ignorare aspetti chiave e non sa dire come affrontare estremismi e malgoverni in Africa se non col solito business. La strategia vede l’Africa come “grande magazzino da cui estrarre materie prime e consenso diplomatico”, non come insieme di società complesse. Questo approccio mercantilista senza attenzione ai valori è destinato a fallire, perché non risolve le cause profonde (corruzione, instabilità) e anzi accentua il clientelismo e la frammentazione interna, alimentando competizione tra potenze esterne. Se gli USA abdicano alla promozione di governance e si limitano a cercare “Stati affidabili” che li supportino, finiranno per appoggiare dittatori impopolari, cosa che a lungo termine genererà più conflitti e sentimenti antiamericani. Ciò è tanto più vero in Medio Oriente: Steven Cook (CFR) sottolinea che la NSS dichiara “finita l’epoca di aspirare a modelli democratici” nella regione e propone di trattare coi partner “per come sono” (cioè, regimi autoritari) purché garantiscano corridoi energetici e cooperazione antiterrorismo. Egli avverte che questa visione “ottimistica” ignora che tutte le faglie storiche (rivalità settarie, regimi repressivi, milizie) restano aperte e che, quando la zona entra in crisi, persino le potenze che volevano solo “gestire il rischio” finiscono risucchiate in interventi sempre più profondi. In altri termini: l’isolazionismo mascherato da realismo di Trump può sembrare economico sul breve termine (meno coinvolgimenti idealistici), ma sul medio termine rischia di costringere gli USA a interventi d’emergenza ancora peggiori quando situazioni trascurate esploderanno.
I critici, inoltre, contestano l’idea trumpiana secondo cui il ritiro dall’ordine liberale e il rifugio nell’egoismo renderebbero l’America più sicura e libera. La NSS afferma di voler “sfuggire al concetto fallito di dominazione globale”, come se fino a ieri gli USA avessero cercato di conquistare il mondo, mentre ora saggiamente si accontentano di equilibri di potere limitati. Questo è giudicato un falso storico: la leadership USA post-’45 non fu dominio imperialista, ma cooperazione e costruzione di istituzioni che – sebbene guidate dagli USA – hanno portato prosperità anche agli altri. Abbandonarle non significa tornare a un placido isolazionismo prebellico: significa creare un globo più anarchico e aprire la strada ai veri imperialismi di Russia e Cina. L’esperta Anne Applebaum definisce la NSS 2025 “Un manifesto del neo-isolazionismo 2.0 mascherato da pragmatismo”: teme che togliendo gli USA dal ruolo di ancoraggio dei principi, il sistema internazionale entri in instabilità cronica, come già si intravede nelle guerre regionali in Ucraina e Medio Oriente. Con Trump che dice “non esiste un concetto di libero mondo vs mondo autocratico”, “è difficile immaginare un ritorno alla cornice Biden del ‘democrazie vs autocrazie’ o a un confronto ideologico con Cina e Russia”, scrive Aydıntaşbaş. Ciò significa che nemmeno un futuro presidente democratico potrà ripristinare facilmente la situazione: la fiducia nel ruolo americano sarà irrimediabilmente compromessa.
Dunque, la NSS 2025 fa saltare il pilastro della leadership USA nel sistema liberale, e questo è pericolosissimo. L’isolazionismo senza responsabilità globali è un’illusione: il mondo non aspetta altro che riempire quel vuoto con dinamiche più dure e conflittuali. La sicurezza americana a lungo termine si basa su alleanze solide, valori attrattivi e istituzioni efficaci: tutti elementi che Trump sacrifica sull’altare di un nazionalismo di breve respiro. Il risultato può essere un mondo “free-for-all” dove la legge del più forte prevale e l’ombrello di sicurezza USA – sotto cui prosperavano anche gli americani – scompare, lasciando gli stessi USA più soli e insicuri di prima.
Nina Celli, 9 dicembre 2025