Nucleare di nuova generazione
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Nel contesto della crisi climatica e della transizione energetica, il dibattito sul nucleare torna d’attualità: i sostenitori dei reattori nucleari di nuova generazione li presentano come una soluzione “green” a basso contenuto di carbonio, in grado di fornire energia continua senza emissioni di CO₂. Dall’altro lato, movimenti ambientalisti, parte della comunità scientifica e alcuni governi sostengono che l’atomo resti una tecnologia rischiosa e obsoleta, con costi elevati, scorie radioattive pericolose e tempistiche incompatibili con l’urgenza climatica. Nel mezzo vi è l’Unione Europea, divisa sul ruolo del nucleare: se nel 2022 la Commissione europea ha incluso il nucleare (e il gas naturale) nella tassonomia verde degli investimenti sostenibili, definendolo a determinate condizioni un contributo alla mitigazione climatica, Paesi come Austria e Germania hanno protestato (Vienna ha anche tentato invano di impugnare la decisione in sede legale). Altri Stati, guidati dalla Francia e dai Paesi dell’Est, hanno invece formato un’“Alleanza per il nucleare” proiettata a promuovere congiuntamente i nuovi impianti atomici come strumento per la decarbonizzazione e la sicurezza energetica. A metà 2025 l’Italia ha deciso di unirsi a questa alleanza: un cambiamento storico, dato che dal 1990 il nostro Paese non produce più elettricità da fonte nucleare, in seguito ai referendum popolari del 1987 e del 2011 che ne avevano sancito l’uscita.
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
L’atomo di nuova generazione offre elettricità senza CO₂, indispensabile per centrare i target climatici nei tempi richiesti.
I reattori nucleari richiedono investimenti enormi e decenni di costruzione: distoglierebbero risorse da rinnovabili, più economiche e rapidamente disponibili.
Il nuovo nucleare garantisce sicurezza e la possibilità di riciclare il combustibile esausto, minimizzando sia il rischio sia la quantità di scorie.
Il nucleare fornisce una base stabile 24/7, riducendo la dipendenza da gas e petrolio importati e mettendo al riparo da crisi di approvvigionamento.
I nuovi reattori non eliminano il problema dei rifiuti nucleari. L’assenza di soluzioni definitive per lo smaltimento rende il nucleare non sostenibile.
Nessuna tecnologia può azzerare il rischio di incidente grave. L’opinione pubblica rimane diffidente e le comunità locali osteggiano nuovi impianti.
Tornare nel nucleare significherebbe rilanciare filiere hi-tech italiane, creando lavoro qualificato e mettendo l’Italia all’avanguardia in un settore di frontiera.
Il nucleare è essenziale per il clima e la transizione energetica
I sostenitori del nucleare di nuova generazione evidenziano innanzitutto il beneficio climatico: l’energia atomica è una fonte a emissioni quasi nulle di gas serra durante l’operatività, caratteristica che la pone sullo stesso piano di rinnovabili come eolico e solare in termini di impatto sul riscaldamento globale. In uno scenario mondiale in cui la domanda di energia continua a crescere e le emissioni di CO₂ legate ai combustibili fossili raggiungono record storici (35,5 miliardi di tonnellate nel 2023), “non abbiamo il lusso di escludere alcuna tecnologia pulita se vogliamo davvero contrastare il cambiamento climatico”, afferma l’Executive Director dell’IEA Fatih Birol. Lo stesso Birol ha dichiarato senza mezzi termini che senza il contributo dell’energia nucleare non c’è chance di centrare in tempo gli obiettivi climatici concordati a livello globale. Questa posizione poggia anche sulle evidenze numeriche: in molte economie avanzate le rinnovabili variabili (sole e vento) stanno crescendo rapidamente ma non abbastanza da soppiantare il ricorso alle fonti fossili. Basti pensare che a livello mondiale oltre il 70% dell’energia primaria è ancora di origine fossile, esattamente come 30 anni fa. Paesi come Cina, India e Indonesia stanno addirittura aumentando la capacità a carbone (oltre 180 GW di nuove centrali in costruzione in questi tre Paesi) e perfino in Europa la chiusura del nucleare tedesco ha portato a un maggiore uso di lignite e nuovi impianti a gas. I favorevoli sostengono dunque che il nucleare possa dare un contributo determinante alla decarbonizzazione in sinergia con le rinnovabili: una strategia integrata che unisca energia eolica, fotovoltaica, idroelettrica e nucleare permetterebbe di coprire sia la domanda di punta sia il baseload, senza emissioni e riducendo la dipendenza dalle fonti fossili. Del resto, la stessa Unione Europea ha riconosciuto il potenziale ruolo “verde” dell’atomo, includendolo (seppur con rigidi criteri) nella tassonomia delle attività sostenibili: la decisione, confermata nel 2025 dalla giustizia europea, si basa sul fatto che la generazione nucleare ha emissioni di CO₂ prossime allo zero e può garantire una fornitura stabile là dove le sole rinnovabili non bastano. Il nucleare è quindi visto come complementare alle fonti pulite intermittenti: per limitare il riscaldamento globale a +1,5 °C servono immense quantità di elettricità decarbonizzata e sarebbe miope rinunciare a priori a una tecnologia collaudata che già oggi fornisce circa il 25% dell’elettricità carbon-free mondiale. Anche dal punto di vista della sicurezza energetica, l’atomo di nuova generazione viene considerato un alleato strategico della transizione: l’Alleanza europea per il nucleare (a cui aderiscono 14 Paesi UE, tra cui la Francia capofila e l’Italia dal 2025) punta proprio a promuovere il ruolo dell’energia nucleare nel mix futuro “al pari delle altre fonti” per conseguire gli obiettivi climatici, in nome della neutralità tecnologica.
L’umanità non può permettersi di escludere alcuna opzione a zero emissioni nella corsa contro il tempo per azzerare le emissioni nette entro il 2050. Ogni tecnologia pulita – rinnovabili, stoccaggi, efficienza energetica e anche nucleare avanzato – dovrà contribuire in maniera complementare. Come ha sintetizzato Fatih Birol: “Le rinnovabili devono avere un ruolo primario, ma abbiamo bisogno anche del nucleare, specialmente nei Paesi in cui non vi è sufficiente potenziale rinnovabile”. Ignorare questa possibilità, secondo i favorevoli, equivarrebbe a “fare un torto ai nostri figli ideologizzando la tecnologia”, rifiutando dogmaticamente uno strumento che potrebbe invece accelerare la decarbonizzazione senza compromettere gli ecosistemi (in virtù delle sue emissioni nulle). Questa prospettiva, quindi, inquadra il nucleare di nuova generazione come una soluzione green (nel senso di sostenibile dal punto di vista climatico) e come un tassello fondamentale per garantire energia pulita, affidabile e in grandi quantità in un futuro libero dai combustibili fossili.
Madeleine Maresca, 4 dicembre 2025
Costi proibitivi, lentezza e incertezza: il nucleare non conviene rispetto alle vere soluzioni verdi
I critici sostengono che il nucleare di nuova generazione sia tutt’altro che una “soluzione green” sul piano economico e pratico: al contrario, lo considerano antieconomico e troppo lento per incidere positivamente sulla transizione ecologica, specie se confrontato con le alternative disponibili. Un primo dato spesso citato è quello dei costi. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), l’elettricità prodotta da centrali nucleari di fissione risulta oltre tre volte più costosa di quella da impianti eolici o fotovoltaici. Questo perché realizzare e gestire una centrale atomica comporta spese enormi: cantiere ultra-specializzato, sistemi di sicurezza ridondanti, personale qualificato in continuo addestramento, e poi lo smantellamento finale e la gestione delle scorie. Tutti questi costi ricadono sulle bollette o sulla fiscalità. Esempi concreti abbondano: in Francia, il reattore EPR in costruzione a Flamanville doveva costare 3,3 miliardi € con avvio nel 2012, ma è ancora incompiuto dopo 15 anni e il budget lievitato oltre gli 11 miliardi €. In Finlandia, l’EPR di Olkiluoto-3 è entrato in servizio nel 2022 con 12 anni di ritardo e un costo doppio rispetto al previsto. Questi sforamenti sono la norma piuttosto che l’eccezione per i grandi progetti nucleari in Occidente. I reattori modulari piccoli (SMR) sono propagandati come più economici perché di potenza ridotta e replicabili: ma i critici fanno notare che perdendo le economie di scala (un impianto da 300 MW non produce al costo per kW di uno da 1200 MW) e aggiungendo le complessità di serie, il vantaggio è tutt’altro che garantito. Anzi, recenti stime indipendenti indicano che il costo livellato dell’energia (LCOE) degli SMR potrebbe essere 3-5 volte maggiore di quello di solare+eolico con batterie. La società di ricerca CSIRO ha comparato uno scenario 100% rinnovabili con accumuli versus uno nucleare+fossili, trovando il primo nettamente più economico persino includendo i costi di stoccaggio. Inoltre, i costi nominali spesso non includono i sussidi statali (assicurazione per incidenti, garanzie di credito ecc.) di cui il nucleare tipicamente necessita. Oltre al costo viene sottolineata la lentezza: la costruzione di reattori richiede tempi incompatibili con l’urgenza climatica. Un paper del Politecnico di Milano stima che anche partendo subito, in Italia non avremmo alcuna centrale operativa prima del 2035-2040, e solo dopo il 2040 il nucleare potrebbe iniziare a dare un contributo non trascurabile al mix elettrico (comunque minoritario, ~10-13%). Il grosso arriverebbe attorno al 2050 (fino al 20% del fabbisogno). Ma il prossimo decennio (2020-2030) è cruciale per tagliare le emissioni e rispettare gli impegni di Parigi: puntare su una strategia che produce risultati solo dopo il 2040 sarebbe un grave errore di pianificazione. Le energie rinnovabili, al contrario, possono essere installate in pochi mesi o anni: nel 2024 a livello mondiale sono stati aggiunti circa 565 GW di nuova capacità rinnovabile (solare+eolico) in un solo anno, mentre il nucleare è avanzato di soli 5,4 GW netti. È una differenza di due ordini di grandezza. Continuando di questo passo, l’atomo è destinato ad avere un peso sempre più marginale, mentre il grosso della decarbonizzazione lo faranno le rinnovabili. Perché investire enormi risorse – si chiedono gli ambientalisti – in poche centrali costose che vedremmo forse tra 15-20 anni, quando la stessa spesa potrebbe finanziare gigawatt di eolico, solare, batterie e reti oggi? Greenpeace, Legambiente e WWF hanno definito il ritorno al nucleare un “dibattito sterile” che rischia solo di rallentare la vera rivoluzione energetica in corso. Le associazioni stimano che con politiche decise l’Italia potrebbe coprire con rinnovabili il 100% dell’elettricità già entro il 2040, evitando di intraprendere avventure nucleari antieconomiche. Segnalano inoltre che i capitali privati fuggono dal nucleare: la maggior parte dei nuovi progetti ha bisogno di forti garanzie pubbliche o addirittura della statalizzazione (si veda EDF in Francia, rinazionalizzata per sostenere il programma nucleare). Al contrario, solare ed eolico attraggono investitori per via dei costi in picchiata: dal 2010 ad oggi il costo del fotovoltaico è diminuito di oltre l’80%, quello delle batterie del 90%, rendendo queste tecnologie competitive senza incentivi in molte regioni. In Italia, la potenza rinnovabile installata potrebbe raddoppiare in pochi anni se si snellissero le procedure. L’obiezione che “le rinnovabili da sole non bastano” viene contrattaccata evidenziando i progressi nell’accumulo energetico e nelle smart grid: già oggi esistono soluzioni di stoccaggio (dalle batterie al pompaggio idroelettrico) che consentono di compensare l’intermittenza su scale di ore o giorni, e all’orizzonte vi sono tecnologie per la stagionalità (idrogeno verde, impianti power-to-gas). I critici ricordano soprattutto che efficienza energetica e riduzione degli sprechi possono ridurre notevolmente il fabbisogno, rendendo gestibile la fornitura con fonti pulite. Continuare a investire in centrali nucleari, per loro, significherebbe dirottare risorse e attenzione da questo sforzo prioritario, rischiando di compromettere gli obiettivi 2030.
Il nucleare, dunque, non sia né economicamente né temporalmente “green”: i suoi costi sociali (bollette più care, oneri a carico dello Stato) e i suoi tempi lunghi lo rendono un ostacolo più che un aiuto nella lotta alla crisi climatica. La vera soluzione verde consisterebbe nel concentrare gli sforzi su ciò che sta già funzionando – rinnovabili, accumuli, reti, efficienza – evitando di replicare errori del passato con progetti nucleari destinati a rivelarsi insostenibili e ad arrivare fuori tempo massimo.
Madeleine Maresca, 4 dicembre 2025
Con i reattori avanzati c’è più sicurezza e innovazione, meno scorie pericolose
I fautori dell’atomo riconoscono che la tecnologia nucleare tradizionale presenta criticità storiche, ma sostengono che le nuove generazioni di reattori siano progettate proprio per superare quei limiti, inaugurando di fatto un “nuovo nucleare” più sicuro e sostenibile. Sul fronte della sicurezza, i reattori di III+ e IV generazione integrano sistemi di sicurezza passiva che li rendono assai meno vulnerabili agli incidenti: ad esempio, la capacità di raffreddamento automatico per circolazione naturale (senza bisogno di alimentazione esterna) e l’assenza di componenti – come le pompe di emergenza – la cui mancata attivazione fu determinante in incidenti come Fukushima. Molti concept di piccoli reattori (SMR) prevedono l’installazione sotterranea o in contenitori sigillati, per proteggerli da eventi esterni e impedire rilasci radioattivi in caso di guasto. Inoltre, poiché si tratta di unità con potenza limitata (50-300 MW contro i ~1000 MW dei reattori convenzionali) e spesso collocate in pool di raffreddamento di ridotte dimensioni, il potenziale impatto di un incidente viene drasticamente ridotto in termini assoluti. Alcuni design avanzati – come i reattori veloci refrigerati al piombo su cui lavora Newcleo – operano in condizioni “subcritiche”: ciò significa che la reazione a catena nel nocciolo non si autosostiene senza un fascio di particelle esterno (acceleratore) e dunque, per costruzione, non può andare fuori controllo. Questo elimina alla radice scenari di fusione catastrofica del nocciolo. Sul versante scorie, i reattori di IV generazione puntano a chiudere il ciclo del combustibile: la fissione veloce consente di utilizzare come combustibile il plutonio e gli attinidi minori presenti nei rifiuti ad alta attività delle centrali attuali, “bruciandoli” e trasformandoli in isotopi meno radiotossici e a vita più breve. In pratica, ciò che oggi è un rifiuto radioattivo di lunghissimo periodo potrebbe diventare materia prima per produrre altra energia nei reattori di nuova concezione, riducendo sia la quantità sia la pericolosità delle scorie finali da stoccare. I sostenitori sottolineano che i nuovi impianti non produrranno plutonio in eccesso da smaltire: al contrario, potranno consumare quello esistente. Ad esempio, i reattori veloci (LFR) al piombo di Newcleo mirano proprio a “non produrre scorie ad alto decadimento, perché i prodotti di risulta diventano nuovo combustibile”. Un altro esempio di innovazione è l’uso di combustibili alternativi: alcuni design impiegano il torio, un elemento più abbondante e meno problematico dell’uranio (i suoi residui hanno vita media più breve). Tutte queste soluzioni nascono da decenni di ricerca internazionale e confermano che il settore nucleare è tutt’altro che statico: c’è una evoluzione tecnologica continua volta a rendere l’atomo più pulito e sicuro. La stessa Unione Europea, nel lanciare nel 2025 la nuova strategia per gli SMR, ha evidenziato la necessità di accelerare l’innovazione in quest’ambito e di armonizzare gli standard di sicurezza, proprio per permettere ai reattori avanzati di integrarsi nel futuro mix energetico in modo affidabile. I proponenti citano inoltre casi concreti: reattori modulari prototipo sono già operativi (ad esempio il cinese ACP100 con 125 MW, connesso alla rete nel 2021, o la centrale galleggiante russa Akademik Lomonosov, 2×35 MW) e molti altri (circa 20) sarebbero in fase avanzata di costruzione nel mondo con avvio previsto entro il 2026 Questa “nuova ondata” dimostrerebbe che gli SMR stanno passando dalla teoria alla pratica. La maggiore compattezza e modularità consente, secondo i favorevoli, di tenere sotto controllo tempi e costi: i componenti fabbricati in serie in stabilimento riducono le complessità di cantiere e le possibilità di errori, un approccio industriale diverso dalle mega-opere tradizionali (dove personalizzazione e cantieristica one-off hanno spesso causato sforamenti). “Non c’è da sorprendersi se il ministro Cingolani ha aperto a queste tecnologie: nel mondo economico queste iniziative vanno avanti da tempo”, ha commentato Enrico Minopoli, presidente Associazione Italiana Nucleare, quando si è acceso il dibattito in Italia, sottolineando che “sono reattori piccoli, avanzati, senza pompe ed elementi manuali – il che elimina fattori critici – e che non producono scorie ad alta attività perché chiudono il ciclo del combustibile”.
Il nucleare di nuova generazione, quindi, non è quello del passato: grazie a innovazioni su sicurezza intrinseca, design semplificato e gestione del combustibile, i reattori di domani puntano a rendere realtà ciò che finora era ideale, ovvero centrali nucleari senza rischio significativo di incidenti e con un impatto ambientale minimo in termini di rifiuti radioattivi. Questo li qualificherebbe come una soluzione decisamente più “green” rispetto alle centrali nucleari di ieri, superando molte delle obiezioni tradizionali mosse all’atomo.
Madeleine Maresca, 4 dicembre 2025
L’atomo è un pilastro energetico stabile: garantisce affidabilità, continuità e indipendenza
Uno degli argomenti centrali dei favorevoli riguarda il ruolo strategico che il nucleare può giocare nel garantire una fornitura elettrica continua, programmabile e svincolata dalle fluttuazioni geopolitiche, soprattutto in un contesto di transizione dove le rinnovabili variabili saranno sempre più importanti. A differenza di sole e vento – la cui produzione dipende dalle condizioni meteo e dall’alternanza giorno/notte – una centrale nucleare eroga potenza stabile 24 ore su 24, con capacità di modulazione limitata ma prevedibile. Questo la rende ideale per coprire il fabbisogno di base (baseload), fornendo quell’“ossatura” energetica che poi le fonti rinnovabili vanno a integrare. Ad esempio, la Francia ha per decenni assicurato ~3/4 della sua elettricità con le centrali nucleari, mantenendo emissioni elettriche bassissime e al contempo esportando energia ai vicini. I sostenitori evidenziano che oggi l’Europa affronta una duplice sfida: decarbonizzare il sistema e insieme mantenere la sicurezza energetica in un’epoca di instabilità internazionale (si pensi alla crisi del gas scatenata dalla guerra in Ucraina nel 2022). Il nucleare risponde a entrambe: è carbon-free e riduce la dipendenza da combustibili fossili d’importazione, il cui approvvigionamento può essere soggetto a tensioni o ricatti politici. La crisi del gas russo, che ha visto i prezzi schizzare da 20 a oltre 300 €/MWh nell’estate 2022, è spesso citata come monito: i Paesi privi di fonti stabili nazionali hanno sofferto di più l’impatto. Una fonte come l’atomo, alimentata da piccole quantità di combustibile facilmente stoccabili (diversi anni di funzionamento con pochi container di uranio), offre una stabilità di costi e forniture impareggiabile: “il kWh nucleare dipende all’85% dal costo d’impianto; quindi, non è soggetto alla volatilità delle commodity”, notano gli esperti. In altri termini, una volta costruita la centrale, il prezzo dell’elettricità resta stabile per decenni, indipendentemente dalle oscillazioni di petrolio o gas sui mercati. Questo è particolarmente importante per l’industria energivora e per la pianificazione economica di lungo periodo. In Italia, l’assenza di nucleare e la forte dipendenza dal gas (ancora ~40% della generazione) hanno esposto famiglie e imprese a bollette altalenanti: il governo attuale cita proprio la necessità di “energia a basso costo e sicura” come motore per rilanciare la competitività del Paese. Inoltre, avere un parco nucleare nazionale equivarrebbe a rafforzare la sovranità energetica: meno import di combustibili significa minor esposizione a crisi globali e più controllo sui prezzi domestici. I proponenti sottolineano poi che i reattori compatti di nuova generazione permetteranno un’ulteriore flessibilità: diversamente dalle grandi centrali concepite solo per la rete elettrica, gli SMR potranno essere collocati “dove servono”, ad esempio all’interno di distretti industriali energivori, fornendo energia termica ed elettrica in situ. Ciò consente di decarbonizzare anche usi difficili (processi industriali, produzione di idrogeno verde) fornendo calore ad alta temperatura e vapore alle fabbriche, senza gravare sulla rete nazionale. Un singolo SMR potrebbe alimentare stabilmente un cluster industriale o una grande città, e la natura modulare consente di aggiungere unità in base alla crescita della domanda. Questa scalabilità locale riduce dispersioni e perdite di trasmissione e incrementa la resilienza del sistema (una rete con più piccole centrali distribuite è meno vulnerabile di una con pochi grossi poli). Dal punto di vista geopolitico, infine, il nucleare civile offre un vantaggio: l’uranio (o il torio, se utilizzato in futuro) è presente in vari Paesi stabili (Canada, Australia ecc.) e non è soggetto alle stesse dinamiche oligopolistiche del petrolio/gas e il combustibile incide poco sul costo finale dell’energia. Una centrale può fare scorta di fuel per anni: ad esempio, Francia e Belgio hanno mantenuto reattori operativi anche durante gli shock petroliferi degli anni ’70 o crisi politiche, grazie all’indipendenza dal gas russo garantita dal loro parco nucleare. Per l’Italia, che importa ~90% dell’energia primaria, reintrodurre l’atomo significherebbe diversificare mix e fornitori, riducendo fatture energetiche verso l’estero. Non a caso esponenti governativi come il ministro Gilberto Pichetto Fratin sottolineano la “piena sicurezza energetica” che il nucleare può offrire all’Italia per affrontare le sfide future.
Il nucleare di nuova generazione è quindi un pilastro affidabile attorno a cui costruire un sistema elettrico pulito e robusto: la sua capacità di generare potenza costante, il basso costo variabile e l’indipendenza da fonti fossili volatili ne fanno uno strumento ideale per garantire continuità di approvvigionamento e stabilità economica durante la transizione ecologica e oltre.
Madeleine Maresca, 4 dicembre 2025
I rifiuti radioattivi e gli impatti ambientali del nucleare sono un fardello per generazioni
Un elemento chiave per cui molti contestano l’etichetta “green” applicata al nucleare è l’irrisolto problema delle scorie radioattive. A differenza di eolico, solare o altre fonti rinnovabili, infatti, l’energia nucleare comporta la produzione di rifiuti pericolosi che rimangono attivi per tempi enormi, richiedendo gestione e isolamento sicuri per decine di migliaia di anni. Gli impianti di nuova generazione promettono di ridurre la quantità e pericolosità delle scorie, ma non le eliminano affatto. Anche ipotizzando reattori capaci di riciclare parte del combustibile esausto, resterebbero comunque frazioni di residui altamente radioattivi da stoccare. Ne sono consapevoli gli stessi governi pro-nucleare: ad esempio il regolamento UE che ha incluso il nucleare nella tassonomia impone come condizione che gli Stati presentino un piano credibile per un deposito geologico definitivo delle scorie entro il 2050, riconoscendo implicitamente che senza soluzioni per i rifiuti il nucleare non può dirsi sostenibile. Ebbene, fanno notare i critici, nessun Paese al mondo dispone ancora di un deposito geologico operativo per combustibile irraggiato ad alta attività. La Finlandia sarà probabilmente la prima (Onkalo, forse attivo dal 2025), la Francia punta a Cigéo non prima del 2035; altrove il processo è bloccato da difficoltà tecniche e opposizioni pubbliche. In Italia la situazione è emblematica: a 35 anni dall’uscita dal nucleare, non abbiamo ancora un Deposito Nazionale nemmeno per le scorie a media e bassa attività, attualmente disperse in decine di siti provvisori spesso inadeguati. La Carta dei siti idonei (CNAPI) è stata pubblicata solo nel 2021 dopo anni di ritardi e già sconta contestazioni da territori e Regioni coinvolte. Legambiente denuncia criticità nei criteri di scelta (rischi geologici sottovalutati, aree protette coinvolte ecc.) e sottolinea come occorra la massima trasparenza e dibattito pubblico per riuscire a individuare un sito in modo condiviso. Questo per i rifiuti esistenti. Immaginare di aggiungerne di nuovi (da centrali future) senza aver risolto quelli passati appare, agli occhi di molti, poco responsabile. Le scorie di III categoria (alta attività, come il combustibile esausto) contengono isotopi come il Plutonio-239, la cui radioattività impiega 24.000 anni a dimezzarsi. Ciò significa che vanno isolati dall’ambiente umano per tempi paragonabili alla durata dell’intera civiltà umana fin qui: un compito che mette seri dubbi sulla qualifica di “sostenibile” per questa fonte. L’aggettivo “green”, per i detrattori, implica un ciclo di vita che non lasci problemi alle generazioni future, cosa che l’atomo, con le sue scorie, non può garantire. Anche i reattori di IV generazione, ammesso funzionino come promesso, genereranno comunque dei residui (fission products) che rimarranno radioattivi per secoli; e nel frattempo l’uranio va estratto e arricchito, con impatti ambientali non trascurabili. Oltre ai rifiuti, vengono ricordati gli altri impatti ambientali: le centrali termonucleari consumano grandi quantità di acqua per il raffreddamento, restituendola più calda nei fiumi/mari (con effetti sugli ecosistemi acquatici). In periodi di siccità o riscaldamento globale, questo può diventare un problema serio (in Francia varie centrali hanno dovuto ridurre la potenza in estati calde per scarsità d’acqua nei fiumi). Inoltre, i siti nucleari occupano superfici notevoli e richiedono una “zona di rispetto” attorno per motivi di sicurezza, sottraendo terreno ad altri usi (anche se in misura minore rispetto ad alcune rinnovabili diffuse). Ma l’impatto più preoccupante resta il potenziale danno ambientale e sanitario in caso di incidente o di gestione scorretta dei rifiuti. Un disastro nucleare può contaminare vaste aree rendendole inabitabili per decenni: Chernobyl (1986) ha sparso radionuclidi su mezza Europa; ancora oggi oltre 5 milioni di persone vivono in zone contaminate tra Bielorussia, Ucraina e Russia e subiscono conseguenze sulla salute (come l’aumento di tumori tiroidei nei bambini); Fukushima (2011) ha provocato lo sversamento di cesio radioattivo nell’Oceano Pacifico e la perdita di utilizzo di territori agricoli e urbani in Giappone. Gli antinuclearisti sottolineano che un’energia che porta con sé un rischio – per quanto remoto – di contaminare irreversibilmente l’ambiente in caso di errore, non può essere definita verde. Anche i reattori avanzati non possono escludere al 100% eventi catastrofici: magari c’è meno probabilità di fusione del nocciolo, ma restano possibili incidenti da fattori esterni (terremoti, alluvioni estreme, atti dolosi di terrorismo o conflitti). La guerra in Ucraina ha mostrato come le centrali possono diventare teatri di conflitto: a Zaporizhzhia (grosso impianto sovietico) la comunità internazionale ha temuto per mesi potenziali rilasci radioattivi a causa dei combattimenti intorno alla centrale occupata. Il nucleare civile, insomma, porta con sé un “rischio sistemico” che le rinnovabili non hanno: non esistono incidenti solari o eolici in grado di devastare intere regioni. Infine, c’è il capitolo traffico illecito di rifiuti radioattivi: in Italia negli anni ’80-’90 bidoni con scorie medicali o industriali vennero sepolti illegalmente in Sud Italia dalla criminalità organizzata (“navi dei veleni”). Ogni produzione di nuovi rifiuti genera nuovi oneri di controllo e sorveglianza per secoli, con la spada di Damocle di possibili dispersioni se anche solo uno degli anelli della catena fallisce. Legambiente parla a tal proposito di “pericolosa eredità” nucleare che l’Italia ha il dovere di chiudere in sicurezza e di vigilare per impedire smaltimenti illeciti. Tutto questo conduce la tesi contraria ad affermare che il nucleare non soddisfa il principio di sostenibilità ambientale integrale (non fare danni all’ambiente): può essere a basso carbonio, ma lascia scorie e rischi incalcolabili alle generazioni future. Definirlo “green” appare quindi improprio. Secondo le ONG ambientaliste, una vera transizione ecologica deve basarsi su fonti che “non lasciano macerie” (eolico, solare, geotermia, efficienza) mentre l’atomo continua a lasciare un problema aperto. Fino a che non esisterà un sistema sicuro per gestire le scorie per migliaia di anni (cosa assai complessa da dimostrare), il nucleare resterà per i critici un’energia intrinsecamente non sostenibile e dunque non accettabile come soluzione verde.
Madeleine Maresca, 4 dicembre 2025
L’atomo spaventa ancora, non ha superato la prova sociale
Un aspetto spesso trascurato nei freddi calcoli costi-benefici è la dimensione sociale e politica del nucleare. Questa tecnologia ha un problema di accettazione pubblica tutt’altro che risolto: l’evocazione di disastri passati e la percezione diffusa del rischio nucleare generano opposizioni e timori che possono bloccare o ritardare indefinitamente qualsiasi progetto. L’Italia ne è esempio lampante: ben due referendum popolari (1987 e 2011) hanno sancito la contrarietà dei cittadini alla produzione di energia nucleare. Ignorare questa volontà espressa a livello plebiscitario è visto da molti come politicamente pericoloso e poco democratico. “I referendum si possono scavalcare con nuove leggi, ma governo e Parlamento si assumono la responsabilità politica di andare contro la volontà popolare”, ha ammonito Edo Ronchi (ex ministro dell’Ambiente) quando il tema è riemerso. Anche se le consultazioni abrogative non impediscono tecnicamente di legiferare ex-novo sul nucleare dopo un certo tempo, farlo senza un consenso sociale ampio rischia di causare fratture e proteste. Già ora, all’annuncio del Ddl nucleare 2025, si sono moltiplicate le prese di posizione contrarie: numerose Regioni (anche governate dalla maggioranza di centrodestra) hanno dichiarato di non voler centrali sul proprio territorio; leader dell’opposizione (Movimento 5 Stelle, Verdi) hanno promesso battaglia istituzionale e nelle piazze; comitati locali si preparano a fare muro. Queste resistenze non sono un capriccio irrazionale: discendono dall’esperienza storica di incidenti (Chernobyl contaminò anche zone d’Italia, ad esempio provocando nel 1986 limitazioni al consumo di latte fresco in alcune regioni del nord) e dalle preoccupazioni per la salute e l’ambiente. Nella percezione pubblica, un impianto nucleare è associato a pericoli che vanno oltre il normale: non a caso l’iter per costruirne uno è complesso non solo tecnicamente ma anche per le valutazioni di sicurezza e protezione civile. Occorre predisporre piani d’emergenza, zone di evacuazione preventiva attorno al sito, misure antiterrorismo ecc., aspetti che generano ansia nelle comunità locali e possono far scattare la sindrome Nimby (“non nel mio giardino”). Nel dibattito attuale, i pro-nucleare invitano a “non ideologizzare” e guardare ai dati, ma per i critici è proprio il confronto coi numeri degli incidenti e dei rischi a sconsigliare il nucleare. Uno studio europeo (project ExternE) valutò che un incidente grave ha una probabilità bassa ma un costo potenziale altissimo in termini di danni: includendo questo rischio nella valutazione, il nucleare diverrebbe non competitivo. Per chi vive vicino, conta la paura di dover evacuare la propria casa un giorno: scenario non impossibile (a Fukushima oltre 150.000 persone furono sfollate a lungo termine). La sicurezza nazionale è un altro aspetto: un impianto atomico può diventare bersaglio in caso di conflitti o atti terroristici, con implicazioni gravissime. L’Austria, nel suo ricorso contro la tassonomia UE, ha proprio sostenuto che il nucleare “non rispetta il do-no-harm” anche per i rischi di incidenti e aggressioni esterne. Un’ulteriore dimensione è la responsabilità intergenerazionale: come spiegare alle generazioni future di aver riaperto centrali che producono scorie e possibili pericoli, dopo che generazioni precedenti le avevano chiuse? C’è chi parla di “tradimento” verso i giovani, che scendono in piazza per il clima chiedendo energie pulite: molti movimenti ecologisti giovanili includono il no-nucleare nelle loro piattaforme (es. Fridays for Future in Italia si è espresso contro il Ddl nucleare del 2025, definendolo una distrazione da rinnovabili ed efficienza). Dal punto di vista strettamente pragmatico, l’opposizione sociale comporta quasi sicuramente ritardi e costi aggiuntivi: contestazioni legali sui siti, ricorsi amministrativi, necessità di maggiore spesa per compensazioni alle comunità locali ecc. Tutto ciò rende ancora più aleatori i tempi di realizzazione. Si rischia il ripetersi di casi come quello del deposito nazionale delle scorie: un’infrastruttura necessaria e urgente, eppure bloccata da decenni di Nimby e Nimto (Not in my term of office) da parte di politici locali. Perché con le centrali dovrebbe andare diversamente? In Veneto, a fine 2024, il consiglio regionale (maggioranza centrodestra) ha votato all’unanimità contro anche solo l’ipotesi di un reattore modulare a Marghera. Se perfino aree politicamente allineate con il governo dicono no, appare evidente che la società italiana non è pronta – e forse non lo sarà per molto tempo – ad accettare nuove installazioni nucleari sul proprio suolo. Il dibattito appare ancora polarizzato: “nucleare sì” tende a provenire da élite tecnocratiche o industriali, mentre le popolazioni e gli amministratori locali restano in prevalenza per il “nucleare no”. Questo squilibrio è di per sé un fattore di rischio per il successo di qualsiasi progetto. Gli esperti di politiche energetiche notano che, al di là delle questioni tecniche, una transizione deve essere socialmente sostenibile: investire miliardi in una direzione che genera opposizione diffusa può erodere la fiducia nelle istituzioni e distogliere attenzione dalle misure climatiche condivise.
Il nucleare, in sostanza, difetta di sostenibilità sociale e politica: è troppo impopolare e controverso per poter essere implementato in modo efficace e trasparente. Un’energia che richiede, per essere portata avanti, di vincere la resistenza dei cittadini tramite campagne di persuasione (il governo italiano ha stanziato 7,5 milioni per “campagne informative” pro-nucleare) e di sfidare esiti referendari è un’energia priva di legittimazione democratica. Un progetto calato dall’alto in questo campo rischierebbe di fare la fine del programma nucleare italiano del 2009-2011: annunciato, contestato e infine affossato dal referendum post-Fukushima. Invece di impantanarsi di nuovo in uno scontro ideologico e territoriale, i contrari suggeriscono di puntare sulle soluzioni energetiche che godono di maggiore consenso e partecipazione pubblica, come le comunità energetiche rinnovabili, le smart grid locali, l’efficienza diffusa: strade che coinvolgono i cittadini come parte attiva e non li mettono di fronte a paure esistenziali. Dunque, il nucleare, benché presentato come “green” dai suoi sostenitori, non supera il test fondamentale di un’energia sostenibile: essere sicura, accettata dalla comunità e orientata al bene comune senza divisioni profonde. E in mancanza di questo, continuare a insistere sull’atomo appare controproducente e destinato al fallimento in una società libera e informata.
Madeleine Maresca, 4 dicembre 2025
Il nucleare porterebbe sviluppo industriale, occupazione qualificata e leadership tecnologica
Un ulteriore argomento a favore del rilancio del nucleare riguarda i benefici economici e tecnologici per l’Italia. Dopo oltre trent’anni di stop, il settore nucleare italiano è sopravvissuto solo in forma di competenze di nicchia (ricerca universitaria, componentistica per centrali estere, medicina nucleare): tornare a costruire reattori sul territorio nazionale significherebbe innescare un volano industriale con ricadute importanti in termini di investimenti, innovazione e lavoro. Secondo un rapporto realizzato da Confindustria ed ENEA nel 2025, un programma nucleare avanzato potrebbe attivare circa 120.000 nuovi posti di lavoro diretti e indiretti entro il 2050. Si tratterebbe soprattutto di occupazione qualificata nei settori dell’ingegneria, della fabbricazione di componenti ad alta tecnologia e dei servizi specialistici. L’Italia dispone già oggi di aziende competitive in vari segmenti della filiera nucleare: uno studio citato dal Politecnico di Milano rileva che circa il 24% dei fornitori coinvolti in progetti europei su SMR sono imprese italiane, una quota persino superiore a quella della Francia (21%). Questo testimonia un know-how nazionale latente in campi come la meccanica di precisione, i sistemi di controllo, i materiali speciali, frutto di decenni di partecipazione a programmi internazionali (ad esempio molte parti degli EPR francesi o cinesi sono state fabbricate in stabilimenti italiani). Avviare un piano domestico di realizzazione SMR/AMR consentirebbe di rafforzare e ampliare questa filiera, anziché lasciarla dipendere solo dalle commesse estere. Il governo stesso ne è consapevole: nella nota con cui i ministri Urso e Pichetto Fratin hanno annunciato il sostegno a Newcleo, si parla esplicitamente di rafforzare la filiera industriale nazionale nel campo dell’energia nucleare innovativa e di far partecipare attivamente l’Italia a questa frontiera tecnologica. I vantaggi economici sarebbero molteplici. In primis, la costruzione di centrali e la produzione di componenti in Italia creerebbero ricchezza interna: invece di importare al 100% tecnologia e combustibili, una parte significativa della spesa rimarrebbe nel circuito economico nazionale. Contribuirebbe anche alla bilancia commerciale: l’Italia potrebbe aspirare a diventare esportatrice di parti di impianti o di know-how (come fornitrice di moduli SMR ad altri Paesi). C’è poi il capitolo ricerca e innovazione: un programma sul nuovo nucleare mobiliterebbe le università e i centri ricerca (ENEA, CNR, INFN) su progetti avanzati di fisica del plasma, ingegneria nucleare, intelligenza artificiale per la sicurezza degli impianti ecc. Questo effetto di spillover tecnologico innalzerebbe le competenze del Paese anche in settori trasversali (dall’elettronica di potenza ai materiali resistenti alle radiazioni), con possibili applicazioni in altri campi industriali. Non va dimenticato inoltre l’indotto: la costruzione e gestione di centrali comporta contratti per aziende di costruzioni, logistica, manutenzione, gestione rifiuti, vigilanza, generando valore su tutto il territorio. Le regioni che ospiteranno impianti beneficeranno di investimenti in infrastrutture e compensazioni (il Ddl nucleare prevede campagne informative e consultazioni per le popolazioni locali, nonché misure compensative). Infine, c’è un argomento più geopolitico: rimanere agganciati alla frontiera nucleare permette all’Italia di sedere ai tavoli internazionali dove si decideranno standard e progetti futuri. Aderendo all’alleanza europea pro-nucleare e investendo in iniziative come l’IPCEI (Importante Progetto di Comune Interesse Europeo) sulla fissione avanzata e la fusione, l’Italia può influire sulle scelte strategiche continentali, invece di subirle passivamente. In altre parole, chi prima sviluppa prototipi e brevetti nel campo degli SMR/AMR dominerà quel mercato negli anni ‘30 e ’40. Se l’Italia restasse ferma, rischierebbe di dover comprare in futuro reattori “chiavi in mano” da altri, mentre avviando ora collaborazioni (come quella con Newcleo o con partner internazionali) potrebbe diventare co-sviluppatrice di tecnologie proprietarie. Gli esempi esteri non mancano: la piccola Nuova Zelanda sta puntando su micro-reattori da esportare; la Polonia coinvolge società americane per portare SMR sul proprio territorio. L’Italia, grazie alla sua base scientifica, ha tutte le carte per giocare questa partita. Come sintetizzato dall’ingegnere nucleare Stefano Monti: la transizione ecologica non è solo un obbligo ambientale ma “un’enorme sfida tecnologica” che mobiliterà risorse per centinaia di trilioni di dollari. Farne parte attiva potrebbe portare benefici economici duraturi. Persino alcune grandi organizzazioni sindacali e parte dell’ambientalismo pragmatico iniziano a valutare positivamente l’idea di investimenti nel nuovo nucleare come opportunità di reindustrializzazione sostenibile (si parla di “Just Transition” includendo eventuali filiere nucleari pulite). In definitiva, un programma sul nucleare di nuova generazione non sarebbe solo un costo, ma un investimento sul futuro del Paese, capace di generare lavoro qualificato, progresso scientifico e una leadership italiana in un settore energetico di punta, il tutto contribuendo nel contempo agli obiettivi climatici.
Madeleine Maresca, 4 dicembre 2025