Nr. 397
Pubblicato il 16/10/2025

Premio Nobel a Trump?

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Donald Trump meritava il Premio Nobel per la Pace? La questione è emersa in seguito ai recenti sviluppi in Medio Oriente, dove Trump ha rivendicato un ruolo cruciale nel raggiungimento di un cessate il fuoco storico tra Israele e Hamas a Gaza dopo due anni di conflitto. Nel corso di una cerimonia al vertice “Gaza Peace Summit” tenutasi a Sharm el-Sheikh il 13 ottobre 2025, con la partecipazione di oltre 20 leader mondiali, Trump ha annunciato “la pace in Medio Oriente” e auspicato che sia “duratura, persino eterna”. Contestualmente, a Oslo la commissione per il Nobel si riuniva per designare il vincitore 2025, e i collaboratori di Trump – pur senza menzionarlo esplicitamente in sua presenza – lanciavano segnali in favore di una sua candidatura al prestigioso riconoscimento. Marco Rubio, segretario di Stato nell’amministrazione Trump, ha dichiarato che “nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza il presidente” e che nessun altro leader americano moderno avrebbe potuto riuscirci, lodando Trump per aver posto fine al bagno di sangue a Gaza. Tali affermazioni, accompagnate da applausi in una riunione di gabinetto straordinaria, implicavano chiaramente che Trump avesse fornito un contributo decisivo alla pace, in linea – suggeriva Rubio – con lo spirito del Nobel.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - Trump ha portato una pace reale, il Nobel gli spettava

Trump ha siglato accordi storici: dal cessate il fuoco a Gaza agli Accordi di Abramo. Ha ottenuto risultati che nessun altro leader era riuscito a realizzare.

02 - A Gaza c’è una tregua fragile, il Nobel a Trump sarebbe stato prematuro

L’accordo di Gaza è fragile e incompleto. Premiare ora Trump avrebbe significato ignorare che la guerra può riaccendersi.

03 - Trump ha già fatto la storia della pace, se non ora, quando premiarlo?

Anche avversari politici e leader mondiali riconoscono i meriti di Trump nel portare la pace. Il Nobel era un atto dovuto.

04 - Il premio a Trump avrebbe tradito lo spirito del Nobel

Trump è divisivo, ha attizzato conflitti interni, stracciato accordi sul clima, usato la forza. Il Nobel lo merita chi promuove i diritti umani, non un leader controverso.

 
01

Trump ha portato una pace reale, il Nobel gli spettava

FAVOREVOLE

Donald Trump è il primo presidente USA da decenni a conseguire risultati tangibili di pace in Medio Oriente, ottenuti con una diplomazia innovativa e coraggiosa. I suoi sostenitori ricordano che nel 2020 fu l’artefice degli Accordi di Abramo, i trattati che hanno normalizzato le relazioni fra Israele e vari Paesi arabi (Emirati Arabi, Bahrein, Sudan, Marocco), ponendo fine a decenni di isolamento reciproco. Questi accordi – paragonati per importanza a Camp David 1978 – sono stati formalmente mediati dall’amministrazione Trump, che ne rivendica il merito storico. A ciò si aggiunge l’aver favorito intese in altri scenari di conflitto: ad esempio un accordo di cooperazione economica fra Serbia e Kosovo e una tregua tra fazioni in Afghanistan (premesse dei colloqui con i Talebani). Ma il coronamento è arrivato nel suo secondo mandato, con la fine della guerra di Gaza. Dopo due anni di atroci combattimenti (2023-2025), Trump ha annunciato un accordo senza precedenti che ha fermato le ostilità tra Israele e Hamas. La prima fase di questo piano di pace ha comportato risultati immediati e misurabili: sospensione dei bombardamenti, evacuazione dei feriti, ingresso di convogli umanitari con cibo e medicine, e soprattutto il ritorno a casa di oltre 200 ostaggi israeliani in mano a Hamas, contemporaneamente alla liberazione di migliaia di prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane. Si tratta di un evento epocale: madri, padri e bambini tenuti in cattività per due anni hanno potuto riabbracciare le famiglie grazie alla trattativa condotta dagli emissari di Trump. “Ho salvato molte vite”, ha potuto affermare il presidente, riferendosi a questo esito. E, al di là di ogni autocelebrazione, gli si riconosce che ha messo fine alle uccisioni in corso: “il più grande trionfo di politica estera di Trump: una tregua e uno scambio di ostaggi ampiamente lodati, che potrebbero segnare la fine di due anni di guerra a Gaza”. In termini di criteri Nobel, questi sono contributi concreti alla “fratellanza tra le nazioni”: ha fatto dialogare nemici giurati e ottenuto compromessi umanitari. Il Comitato Nobel in passato ha premiato leader per molto meno: Barack Obama ricevette il Nobel sulla fiducia, quando la guerra in Afghanistan e Iraq infuriava ancora. Trump invece può rivendicare di aver realmente fermato un conflitto sanguinoso in corso.
Non si tratta solo di Gaza. Trump ha abbracciato un ruolo di pacificatore globale: la sua amministrazione ha promosso e/o raggiunto oltre una mezza dozzina di accordi in varie regioni. Oltre ai casi citati (Medio Oriente e Balcani), nell’estate 2025 ha ospitato alla Casa Bianca la firma di un accordo di pace tra Armenia e Azerbaigian, ponendo fine al lungo conflitto nel Nagorno-Karabakh. Si è speso per allentare le tensioni tra India e Pakistan (su Kashmir e scontri di confine) e tra Israele e Iran (fermandone l’escalation militare): in entrambi i casi ha ottenuto cessate il fuoco o “accordi iniziali” che hanno evitato guerre aperte. Ha perfino convocato un summit in Alaska con Vladimir Putin per esplorare una tregua in Ucraina (evento che, pur non avendo prodotto un accordo immediato, testimonia la sua volontà di provare a chiudere anche quel conflitto). Questo iperattivismo diplomatico non ha paralleli recenti: in soli nove mesi di mandato, Trump ha toccato più focolai di qualunque altro leader mondiale, spesso riuscendo dove altri fallivano. Tale frenetica opera di pacificazione riflette anche un cambio di paradigma rispetto al passato: mentre precedenti presidenti USA avviavano guerre (Iraq 2003) o le prolungavano, Trump ha puntato a chiuderle. Un forum di familiari di ostaggi israeliani, commentando la sua mancata premiazione, ha dichiarato che i “risultati di pace senza precedenti ottenuti da Trump nell’ultimo anno parlano da soli” e “nessun premio o la sua mancanza potrà sminuire l’impatto profondo che ha avuto sulle nostre famiglie e sulla pace globale”. Questa affermazione – proveniente da persone direttamente coinvolte dal conflitto – evidenzia come sul campo Trump sia percepito come un salvatore di vite. E il Nobel nasce proprio per incoraggiare chi salva vite fermando guerre.
C’è, inoltre, un riconoscimento trasversale del suo merito. Non parliamo solo dei suoi alleati di partito, ma di autorevoli figure di schieramenti opposti e di Paesi diversi. L’ex presidente Bill Clinton, storico rivale dei repubblicani, ha elogiato Trump riconoscendo che lui, insieme ai partner del Qatar e altri, “merita grande credito” per aver tenuto tutti i negoziatori impegnati fino all’accordo. Clinton ha pubblicamente ringraziato Trump per aver reso possibile la liberazione degli ostaggi e l’afflusso di aiuti a Gaza, definendo “questo momento fragile” come l’inizio di una speranza di pace duratura. Anche Hillary Clinton, sua acerrima avversaria nel 2016, ha riconosciuto i progressi del piano di Trump, così come Kamala Harris (vice di Biden). Quando persino i tuoi oppositori storici riconoscono il successo, vuol dire che il risultato è oggettivo. Inoltre, l’idea del Nobel a Trump ha sostenitori espliciti in tutto il mondo: il presidente d’Israele Herzog – figura super partes – non ha esitato a dire che Trump ha creato una speranza di cambiamento nella realtà mediorientale e “non c’è dubbio che meriti il Premio Nobel per la Pace”. Leaders europei come il premier ungherese Orbán, africani come il presidente del Congo (che gli attribuisce meriti nel ridurre tensioni nella regione dei Grandi Laghi) e asiatici come il leader cambogiano si sono espressi a favore della sua candidatura. Il caso forse più emblematico è quello di María Corina Machado, la vincitrice stessa del Nobel 2025: lungi dal rivendicare solo per sé il riconoscimento, Machado ha dichiarato di credere fermamente che Trump “meriti di essere riconosciuto” e “certamente” dovrebbe ricevere il prossimo Nobel. Ha sottolineato che “in soli nove mesi molteplici conflitti sono stati risolti o prevenuti”, specie quello in Medio Oriente, definendolo “remarkable” (straordinario). Questa è una testimonianza di altissimo profilo morale: un’attivista democratica che dedica l’onore del suo Nobel a un altro leader, riconoscendo che lui ne sarebbe degno per i suoi risultati di pace. Se una voce così autorevole e neutrale sul piano geopolitico indica Trump, come negare che il suo contributo sia di portata globale?
Va considerato, inoltre, che Trump ha conseguito quello che Alfred Nobel auspicava nei suoi criteri. Il premio va a chi compie “il maggior lavoro per la fratellanza tra le nazioni, la riduzione degli eserciti e la promozione di congressi di pace”. Ebbene, Trump ha letteralmente riunito nemici attorno a un tavolo di pace: ha promosso summit internazionali (come quello di Sharm el-Sheikh) coinvolgendo decine di nazioni; ha ridotto la presenza militare sul campo ottenendo dall’esercito israeliano un ritiro (seppure parziale) da Gaza e convincendo Hamas a deporre le armi almeno temporaneamente; ha alimentato la “fratellanza” tra popoli storicamente ostili, come israeliani e arabi del Golfo (Accordi di Abramo) o armeni e azeri, dimostrando che la diplomazia del dialogo diretto può sostituire i carri armati. Persino nel modus operandi, da “uomo del fare”, Trump ha incarnato l’idea di pace attiva: non solo discorsi, ma risultati concreti. Ai suoi critici, che gli rimproveravano un eccesso di personalismo, i sostenitori rispondono che in realtà ha innovato la diplomazia rompendo schemi fallimentari. Come ha scritto un’analisi, Trump “ha agito da imprenditore più che da politico” e proprio questa mentalità – pragmatica e fuori dagli schemi – ha spezzato il circolo vizioso di recriminazioni reciproche, sbloccando situazioni impantanate da anni. Ha parlato in modo schietto ai leader mediorientali, “brutale ma efficace”, e ciò ha prodotto fatti: nessun altro leader occidentale aveva il potere di fermare la spirale di violenza, ammette persino un network tradizionalmente critico come “CNN”. Dunque, in un’epoca in cui tanti processi di pace si arenano nelle buone intenzioni, Trump ha mostrato leadership e capacità esecutiva nel conseguire tregue e accordi concreti.
Per tutte queste ragioni, in molti sostengono che Trump abbia pienamente meritato il Nobel per la Pace. Non premiarlo – a loro avviso – rappresenta un’occasione persa di riconoscere un progresso reale verso un mondo meno bellicoso. Dopo anni di guerre ininterrotte, veder tacere le armi (anche se temporaneamente) grazie all’azione diretta di un leader è esattamente ciò che il Nobel dovrebbe celebrare e incentivare. “Non c’è mai stato un presidente americano che lo meritasse di più” ha scritto – con una punta di incredulità – persino il “Washington Post”, solitamente critico. I favorevoli concordano: Trump come “Presidente della Pace” sarebbe un titolo appropriato e il Nobel sancirebbe ufficialmente questo ruolo.

Nina Celli, 16 ottobre 2025

 
02

A Gaza c’è una tregua fragile, il Nobel a Trump sarebbe stato prematuro

CONTRARIO

Chi si oppone al Nobel a Donald Trump sottolinea in primo luogo che il cessate il fuoco raggiunto a Gaza non equivale a una pace stabile e giusta, e dunque premiare ora Trump sarebbe fuori luogo e anticipato. Questa tesi analizza nel dettaglio la situazione sul campo dopo l’accordo mediato dagli Stati Uniti, evidenziandone la precarietà. È vero che “le armi tacciono”, ma Gaza rimane in condizioni catastrofiche e i nodi politici che hanno alimentato il conflitto restano irrisolti. Shibley Telhami, studioso di politiche mediorientali, descrive efficacemente Gaza post-bellica: “Oltre il 10% della popolazione è morto o ferito, il 90% è sfollato, il 78% degli edifici distrutto o danneggiato. Ospedali e scuole fuori uso. Di Gaza, come la conoscevamo, non resta nulla”. Di fronte a questo scenario da incubo, il piano di Trump – afferma Telhami – “si riduce a uno scambio di ostaggi, una tregua di durata incerta e una preghiera”. In altre parole, l’accordo attuale è necessario ma non sufficiente: ha arrestato il bagno di sangue, ma non offre ancora soluzioni concrete su come ricostruire Gaza, chi la governerà e se le cause profonde del conflitto saranno affrontate. Il “percorso in 20 punti” di Trump viene definito “vago e lacunoso”: ad esempio, rimanda la questione del governo di Gaza a un’ipotetica Autorità palestinese futura, senza spiegare come ci si arriverà. Prevede un’autorità transitoria capeggiata da un esponente occidentale (Tony Blair) e supervisionata dallo stesso Trump, ma la sua legittimità è dubbia e la storia insegna che amministrazioni esterne a Gaza sono malviste dalla popolazione. Inoltre, la condizione che Hamas sia totalmente esclusa e disarmata non è facilemnte raggiungibile. Telhami osserva che “ogni aspetto vago dell’intesa potrebbe diventare un pretesto per farla saltare”: basterà che Hamas rifiuti di consegnare tutte le armi o che un incidente sporadico avvenga durante la tregua, e gli elementi oltranzisti del governo israeliano potrebbero considerarsi sciolti dall’accordo. Questo non è allarmismo teorico: è già successo. I 4 giorni di cessate il fuoco a fine novembre 2023, frutto di uno scambio di ostaggi più limitato, fu rotto dalle parti dopo reciproche accuse su incidenti minori; Netanyahu ha violato una tregua a marzo 2025 (durante le trattative) ordinando un raid perché riteneva Hamas inadempiente, salvo poi tornare al tavolo. Questo dimostra che la fiducia tra le parti è inesistente e la tregua poggia su un filo. Per i detrattori di Trump, dunque, celebrare un “accordo di pace” è quantomeno prematuro: sul campo è percepito più come una pausa umanitaria per lo scambio di ostaggi che come l’inizio di un nuovo capitolo. Il governo israeliano stesso ha definito pubblicamente l’accordo “uno scambio di prigionieri”, segnalando che considera il ritiro parziale da Gaza semplicemente il prezzo per riavere i propri ostaggi, non una rinuncia definitiva alle operazioni militari. Non c’è alcuna garanzia che Israele non riprenda l’offensiva se riterrà che Hamas non stia rispettando qualcosa o se muteranno le circostanze politiche interne (Netanyahu è sotto pressione dall’estrema destra israeliana, contraria a concessioni). D’altro canto, Hamas potrebbe riorganizzarsi durante la tregua e rifiutare alcune condizioni (per esempio lo spiegamento di forze internazionali a Gaza), riaccendendo lo scontro. Dunque, secondo i critici, la “pace di Trump” a Gaza è ancora letteralmente appesa a un filo e non c’è alcuna certezza di durata né tantomeno di risoluzione del conflitto israelo-palestinese. In questa prospettiva, attribuirgli un Nobel adesso sarebbe come dichiarare “missione compiuta” mentre la missione è tutt’altro che compiuta. A maggior ragione perché nessuno dei problemi politici di fondo è stato risolto: Gaza rimane senza un futuro definito, il diritto all’autodeterminazione palestinese è lasciato in un generico “percorso eventuale”, i coloni israeliani continuano a espandersi in Cisgiordania e la questione di Gerusalemme non è neppure toccata dal piano. Con tali premesse, molti temono che la tregua collasserà sotto il peso delle contraddizioni, come avvenne con gli Accordi di Oslo degli anni ‘90 (anch’essi festeggiati con un Nobel precoce nel 1994, seguito poi dal fallimento di Camp David 2000 e dalla Seconda Intifada). Premiare Trump ora rischierebbe di ricordare proprio quel precedente: Rabin, Peres e Arafat vinsero il Nobel sull’onda di una speranza di pace che poi sfumò tragicamente; il Nobel non impedì il successivo precipitare degli eventi. Gli oppositori suggeriscono di imparare da quella lezione di prudenza.
Sul piano etico e valoriale, Trump è visto come una figura che non rispecchia affatto lo spirito del Premio Nobel per la Pace. La domanda che molti detrattori pongono è: “un uomo divisivo, aggressivo e autoritario può essere insignito come simbolo di pace?”. La pace, argomentano, non è solo l’assenza momentanea di guerra, ma anche la costruzione di condizioni di armonia, collaborazione internazionale e rispetto dei diritti umani. Sotto questo profilo, il curriculum di Trump è giudicato negativamente: durante la sua presidenza, ha alimentato conflitti e tensioni in altre forme. In patria, la sua retorica e le sue azioni hanno creato fratture sociali profonde. Ha definito gli avversari politici come “nemici del popolo”, incoraggiando polarizzazione e odio reciproco. Ha risposto a proteste interne schierando l’esercito (o minacciando di farlo) nelle città americane, violando le prassi democratiche consuete. Ha ordinato politiche come la separazione forzata delle famiglie migranti al confine, generando sofferenze (benché interne, contrarie al concetto di fraternità universale). A livello globale, ha minato accordi multilaterali cruciali: l’uscita degli USA dall’Accordo di Parigi sul clima nel 2017 – decisa da Trump – è stata considerata un passo indietro drammatico nella cooperazione internazionale per un bene comune (la lotta al cambiamento climatico). Molti vedono l’azione climatica come parte integrante della pace (perché i disastri climatici generano conflitti e migrazioni); il Nobel a Trump apparirebbe quasi come un premio a chi ha ostacolato questi sforzi. Inoltre, Trump ha scatenato guerre commerciali con alleati e rivali, imponendo dazi e barriere che hanno inasprito le relazioni (con la Cina, con l’Unione Europea), contravvenendo allo spirito di cooperazione economica pacifica. Sul fronte dei diritti umani e della diplomazia preventiva, la sua amministrazione ha spesso tagliato fondi a organismi internazionali (ad esempio UNESCO, UNRWA) o adottato approcci confliggenti con il diritto internazionale (come dichiarare i cartelli della droga “nemici combattenti” per giustificare operazioni militari extraterritoriali). Un Nobel per la Pace dovrebbe ispirare moralmente: i detrattori sostengono che Trump non possa ispirare la comunità internazionale alla pace perché incarna, al contrario, il nazionalismo muscolare, la supremazia dell’interesse proprio su quello comune, la disponibilità a usare la forza se conviene. Un membro del Comitato Nobel, alludendo forse a Trump, ha ricordato che loro cercano coraggio e integrità morali nei laureati, “decisioni basate sul lavoro e sulla volontà di Alfred Nobel”, non sulla pressione politica esterna. Alfred Nobel parlava di “riduzione degli eserciti permanenti”: anche su questo punto, la condotta di Trump è dubbia, dato che ha aumentato record di spesa militare negli USA e incoraggiato gli alleati NATO a riarmarsi di più. Ha venduto enormi quantità di armi a Paesi come l’Arabia Saudita durante la guerra in Yemen (contraddicendo l’idea di ridurre gli arsenali). Critici come il lettore britannico Derek Robinson hanno sentenziato: “Trump meriterà il Nobel per la Pace quando aprirà l’ambasciata USA nello Stato indipendente di Palestina”, ossia quando dimostrerà davvero di aver risolto in modo giusto la questione israelo-palestinese. Ad oggi, rilevano, quell’obiettivo è ben lungi dall’essere realizzato e anzi Trump inizialmente non si era impegnato per esso (riconoscendo Gerusalemme come capitale indivisa di Israele e tagliando i fondi all’Autorità Palestinese durante il suo primo mandato). In questo senso, la sua recente veste di “peace-maker” appare più come una conversione tattica che come un impegno coerente ai principi di pace. Il Nobel, dicono i contrari, non dovrebbe essere assegnato per una azione di pace isolata, ma a chi ha dedicato la propria visione e carriera a costruire ponti di pace.
Molti hanno evidenziato anche la politicizzazione e strumentalizzazione che Trump ha fatto del Nobel stesso. Nessun aspirante alla pace, secondo loro, ha mai bramato e richiesto il premio con tanta insistenza quanto Trump – e questo è in sé contrario allo spirito di modestia e servizio che ci si aspetta da un Nobel. Nell’immaginario comune, i Nobel per la Pace sono persone come Madre Teresa, Nelson Mandela o Malala Yousafzai: individui che agiscono per ideali, non per gloria personale, e spesso riluttanti a prendersi meriti. Trump, al contrario, ha mostrato un desiderio quasi ossessivo del riconoscimento. Lo ha menzionato ripetutamente nei comizi e sui social, lamentando che il Comitato non lo premia per via di pregiudizi (“Se mi chiamassi Obama me l’avrebbero dato subito” è una sua frase ricorrente). Ha persino telefonato a Jens Stoltenberg (ministro norvegese) per parlargli del Nobel, un’azione senza precedenti che molti hanno interpretato come pressione inappropriata. I suoi alleati hanno orchestrato una campagna mediatica senza vergogna: apparizioni coordinate sui media per dire che “Trump lo merita” (il deputato Mast in TV: “devono darglielo”, l’ex portavoce Levy: “c’è consenso in Israele: Trump lo merita”). Netanyahu ha addirittura diffuso una foto fittizia di Trump premiato, come a voler forzare la mano. Tutto ciò ha generato irritazione e il timore che il Nobel venisse strumentalizzato come trofeo elettorale. Un insider di Oslo ha confidato alla stampa che ricevono migliaia di lettere di raccomandazione ogni anno e sanno riconoscere quando dietro c’è una regia politica piuttosto che genuino sostegno popolare. Nel caso di Trump, i critici sostengono che molte nomination siano state fatte “non perché lo meriti, ma perché chi le fa vuole ingraziarselo” – ad esempio leader come Hun Manet in Cambogia o persino Netanyahu stesso, che avevano interesse a compiacere Trump per benefici diplomatici. Danno come prova il fatto che molte candidature (oltre 6) sono arrivate dopo la scadenza di nomination e con gran clamore mediatico, suggerendo più uno show per l’elettorato interno che un reale iter di candidatura. Premiare Trump in questo contesto rischierebbe di legittimare un precedente pericoloso: basterà fare pressioni e marketing per ottenere un Nobel? Inoltre, i detrattori temono che assegnare il Nobel a Trump equivarrebbe a intervenire pesantemente nella politica americana, avallando di fatto la sua leadership (Trump è in corsa per la rielezione nel 2028). Il Comitato Nobel ha sempre cercato di evitare di schierarsi in modo troppo divisivo in contese politiche immediate, ed è difficile immaginare figura più divisiva di Trump nella politica odierna.
Inoltre, c’è la considerazione di credibilità storica del Nobel. I premi più controversi del passato sono rimasti una macchia nella reputazione del Comitato: l’esempio classico è Henry Kissinger 1973, che fu premiato per gli accordi di Parigi sul Vietnam mentre la guerra non era veramente finita (pochi mesi dopo, i combattimenti ripresero e nel 1975 i nordvietnamiti vinsero la guerra). Kissinger era considerato responsabile di bombardamenti segreti in Cambogia e di appoggiare colpi di Stato, e quel Nobel è tuttora citato come “farsa” da molti storici. Addirittura, Lê Đức Thọ rifiutò di condividerlo, definendolo privo di senso in quelle circostanze. Ebbene, secondo Federico Rampini e altri commentatori, un Nobel a Trump supererebbe persino il caso Kissinger in termini di polemica. Kissinger almeno pose fine ufficialmente a una guerra (sia pure temporaneamente), ma Trump non ha neppure concluso formalmente alcun conflitto: a Gaza c’è una tregua, non un trattato di pace; in Ucraina la guerra continua; in altri luoghi (come Yemen o Siria) la sua influenza è marginale. Ci sono poi considerazioni di opportunità: quando Obama fu premiato nel 2009 con pochissimi mesi di presidenza, molti ritennero quel Nobel affrettato e imbarazzante (lo stesso Obama ammise “non so perché l’ho vinto”). Nel caso di Trump, che pure è a metà mandato, vi è la medesima sensazione: cosa succederebbe se la tregua di Gaza collassasse dopo il Nobel? Il premio risulterebbe delegittimato, e con esso il Comitato. Va ricordato che il Nobel per la Pace può essere assegnato anche postumo (come a Dag Hammarskjöld 1961) o decenni dopo le azioni, quando la loro eredità è chiara (a Jimmy Carter fu dato 20 anni dopo la presidenza, in parte come critica a Bush). I critici suggeriscono che Trump sia semmai candidato per un Nobel futuro, se i risultati da lui avviati reggeranno alla prova del tempo. Ma oggi sarebbe un azzardo: “The Washington Post” ha notato che la composizione del Comitato Nobel 2025, incentrata su figure di centro-sinistra, “tende a favorire sforzi umanitari e di consenso tradizionali, piuttosto che la diplomazia orientata ai deal di Trump”. E anche alcuni esponenti moderati americani hanno espresso perplessità: il senatore democratico Fetterman ha ironizzato che sarebbe il primo a guidare la campagna per far vincere il Nobel a Trump se davvero portasse la pace anche in Ucraina. Sottinteso: per ora non ci siamo, manca un pezzo. Questa posizione riflette un diffuso sentiment: Trump sarà anche sulla buona strada, ma non basta una tregua a Gaza per parlare di pace complessiva.
In molti, dunque, sostengono che Trump non meriti (ancora) il Nobel per la Pace. La tregua di Gaza è un passo positivo ma incompleto e revocabile: premiarlo ora significherebbe premiare una promessa e non un risultato consolidato. Inoltre, la figura di Trump contraddice i valori di cooperazione pacifica e rispetto dei diritti umani che il Nobel incarna, premiarlo comprometterebbe la reputazione del premio stesso. Meglio attendere, dicono, se mai raggiungerà una “pace giusta” e vera – ad esempio con la nascita di uno Stato palestinese accanto a Israele.

Nina Celli, 16 ottobre 2025

 
03

Trump ha già fatto la storia della pace, se non ora, quando premiarlo?

FAVOREVOLE

Chi ha sostenuto la candidatura di Trump al Nobel per la Pace argomenta che i risultati pacifici ottenuti durante la sua presidenza sono straordinari e immediati, al punto che attendere oltre per un riconoscimento sarebbe ingiustificato. Questa tesi enfatizza l’idea del “momento storico”: il 2025 è stato un anno in cui, grazie alla leadership di Trump, si sono verificate svolte che hanno cambiato il corso di conflitti pluridecennali. Il cessate il fuoco in Medio Oriente fra Israele e Hamas viene paragonato a un “accordo di Camp David” dei giorni nostri, per la sua portata epocale. “At long last, we have peace in the Middle East” (“Finalmente, abbiamo la pace in Medio Oriente”), ha proclamato Trump stesso con enfasi durante il vertice in Egitto. Per i suoi sostenitori non si tratta di una vanteria vuota: per la prima volta dal 2006 (quando fallì il Piano di pace di Annapolis) israeliani e palestinesi siedono a un tavolo con un percorso definito per una soluzione. Trump ha portato più di 20 leader da tutto il mondo a Sharm el-Sheikh per firmare l’accordo, galvanizzando una coalizione internazionale di sostegno. È riuscito là dove tentativi precedenti erano naufragati: il piano in 20 punti di Trump è pragmatico e step-by-step. Proprio questo realismo graduale ha convinto tutte le parti ad aderire. Ad esempio, non impone precondizioni impossibili, ma concentra la prima fase sullo scambio umanitario (ostaggi/prigionieri) e sulla sicurezza immediata (stop alle armi, zone cuscinetto). “Time Magazine” osserva che congelare i propositi più estremisti (come la ventilata espulsione di massa dei gazawi) e guadagnare tempo è già “significativo”: in altre parole, Trump ha arrestato una tragedia in corso e aperto uno spazio negoziale che nessuno aveva saputo creare. Questo, per i favorevoli, risponde pienamente all’intento di Alfred Nobel di premiare chi “lavora per l’abolizione o la riduzione degli eserciti”: Trump ha ottenuto il ritiro di buona parte dell’esercito israeliano da Gaza (riducendo l’occupazione militare dal controllo dell’80% del territorio al 58% entro pochi giorni) e la consegna degli ostaggi senza condizioni (in passato Hamas pretendeva il ritiro totale in cambio di tutti gli ostaggi; Trump lo ha sbloccato senza arrivare a tanto). Questo è un deciso passo verso la smilitarizzazione del conflitto. Inoltre, la logica della sua mediazione è stata inclusiva: ha coinvolto tutte le potenze regionali rilevanti – Egitto e Qatar come garanti, Turchia come mediatore con Hamas, Arabia Saudita e altri Paesi arabi come sostenitori finanziari, creando un’alleanza diplomatica mai vista prima attorno alla questione Gaza. Ciò rientra perfettamente nella “promozione di congressi di pace” voluta da Nobel.
Un altro pilastro della tesi è la coerenza di Trump nel cercare soluzioni negoziali invece che soluzioni belliche. Per quanto percepito come uomo “duro”, in realtà Trump si è distinto per non aver iniziato alcuna nuova guerra americana, anzi per aver lavorato a concludere quelle esistenti. Nel suo primo mandato ha evitato di aprire fronti militari nonostante crisi spinose (Corea del Nord, Iran). Nel secondo mandato ha investito il capitale politico su trattative di pace multi-scenario: ha preferito la via diplomatica persino in contesti dove un approccio militare sarebbe stato più semplice da vendere all’opinione pubblica. Ad esempio, invece di intensificare lo scontro con l’Iran dopo incidenti nel Golfo, ha usato la leva delle tregue mediorientali e della pressione diplomatica (coinvolgendo Oman e Iraq come canali) per far abbassare i toni a Teheran. Ha ospitato alla Casa Bianca leader mondiali contrapposti – come il presidente azero Aliyev e il premier armeno Pashinyan – facendogli firmare un accordo di pace che ha posto fine a una guerra latente da decenni. Questo accordo caucasico è valso a Trump la nomination ufficiale al Nobel proprio da parte di Pashinyan e di altri leader stranieri, impressionati dalla sua efficacia. Lo stesso Netanyahu ha formalmente inviato una candidatura di Trump al Comitato Nobel per il suo ruolo negli Accordi di Abramo del 2020, riconoscendo che fu la diplomazia americana di Trump a creare quel “nuovo orizzonte di speranza” tra Israele ed Emirati. È emblematico che un leader come Netanyahu – noto per la sua linea dura – abbia scritto al Nobel a favore di Trump: significa che, dal suo punto di vista, Trump ha concretamente reso Israele più sicura tramite accordi pacifici. In generale, la tesi pro-Trump sostiene che egli ha ridefinito il concetto di “pace attraverso la forza” in “pace attraverso il rispetto”: la sua dottrina “Peace through Strength” (esibita anche sullo striscione del meme postato da Netanyahu) non è militarismo, bensì far capire alle parti che conviene negoziare con lui al tavolo perché ha l’autorevolezza (e la determinazione) per garantire e far rispettare gli accordi. Questo approccio ha funzionato: Hamas, sotto pressione diplomatica di Qatar e Turchia e consapevole della risolutezza di Trump, ha accettato di liberare tutti gli ostaggi – cosa mai successa in passato. Israele, pur scettica, ha accettato di ritirare le truppe da gran parte di Gaza e di cedere sul rilascio di migliaia di prigionieri. Questi compromessi storici sono la prova del potere negoziale di Trump: al Nobel vengono spesso premiate personalità che riescono a piegare le parti verso un accordo reciproco.
Una citazione spesso ricordata dai pro-Trump è quella del senatore repubblicano Brian Mast: “Tutti stanno parlando: ‘Trump avrà il Nobel per la Pace?’ Quegli accademici e élite in Norvegia devono darglielo”. Sebbene suoni come pressione, riflette un genuino sentimento: non riconoscere Trump sarebbe una discriminazione politica da parte dell’establishment. Secondo i suoi sostenitori, la reticenza del Comitato a premiarlo dipenderebbe solo da pregiudizi ideologici, non certo dalla mancanza di meriti. In effetti, la commissione Nobel del 2025 è composta in maggioranza da membri legati ai partiti di centro-sinistra norvegesi e solo uno vicino alla destra. Questo spiegherebbe perché preferirebbero profili “umanitari” invece di uno come Trump, percepito come populista. Ma i pro-Trump contestano questo approccio: il Nobel dovrebbe guardare ai risultati, non alle simpatie politiche. E i risultati sono innegabili. Se il premio fu conferito in passato ad attori controversi come Henry Kissinger (per una pace poi rivelatasi effimera) o ad altri “uomini forti” che comunque chiusero guerre (p.es. Begin e Sadat 1978), allora a maggior ragione va considerato Trump, il cui accordo a Gaza – per quanto fragile – ha effettivamente messo fine a un conflitto devastante e aperto prospettive concrete. Per i suoi sostenitori, Trump è riuscito dove tutti i piani di pace dagli Accordi di Oslo (1993) in poi hanno fallito: ha fermato il ciclo infinito di violenza israelo-palestinese almeno nel breve termine e ha costretto i leader regionali a considerare seriamente la “Two States Solution” come obiettivo finale (nel vertice in Egitto del 13 ottobre, al-Sisi e altri hanno ribadito il diritto dei palestinesi a uno Stato). Pertanto, essi sostengono che il momento di premiare Trump è ora, perché la portata dei suoi successi è già storica e il Nobel servirebbe a consolidarli per il futuro. Un premio immediato darebbe ulteriore legittimità internazionale al piano di pace, incoraggiando tutti a rispettarlo. Rimandare significherebbe sprecare l’occasione di dare uno slancio aggiuntivo alla pace in corso. E per Trump sarebbe un segnale che la comunità globale apprezza il suo “deal-making” al servizio della stabilità, spingendolo a continuare su questa strada anche su altri fronti (come l’Ucraina).

Nina Celli, 16 ottobre 2025

 
04

Il premio a Trump avrebbe tradito lo spirito del Nobel

CONTRARIO

Gli oppositori dell’idea di conferire il Nobel per la Pace a Donald Trump sostengono che farlo equivarrebbe a snaturare e politicizzare profondamente il prestigioso riconoscimento, oltre a premiare meriti assai discutibili. Al centro di questa tesi c’è la convinzione che Trump non incarni i valori di pace, cooperazione e rispetto universale che dovrebbero contraddistinguere un Nobel per la Pace. Anzi, rappresenterebbe quasi l’antitesi: un leader polarizzante e spregiudicato, il cui modus operandi confligge con la filosofia del premio.
In primo luogo, i critici affermano che la pace vantata da Trump è parziale e transitoria, non il risultato compiuto di un processo di riconciliazione. Il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, pur positivo, viene descritto come fragile, imposto dall’alto e privo di una reale riconciliazione tra le parti. Non è frutto di una maturata volontà di pace, ma di circostanze contingenti e pressioni esterne. Questa differenza è fondamentale: la pace di Nobel dovrebbe essere sostenibile e radicata, non un armistizio precario. Un’analogia storica evocata dai detrattori è il parallelo con l’accordo di Parigi 1973 per il Vietnam. All’epoca il Nobel fu assegnato a Kissinger e Lê Đức Thọ per quell’accordo – un cessate il fuoco che prometteva pace – ma in breve tempo si rivelò un fallimento, con la guerra ripresa più feroce di prima. Lê Đức Thọ rifiutò persino il premio, definendolo una farsa poiché la pace non era reale. Molti temono che un Nobel a Trump rischierebbe una simile farsesca prematurità: se domani gli scontri a Gaza riprendessero (eventualità tutt’altro che remota), il premio apparirebbe grottesco. I critici ricordano che il Nobel ha già subito critiche per premiazioni avventate – emblematico il caso di Obama nel 2009, premiato “sulla parola” dopo pochi mesi di presidenza. Lo stesso Obama, anni dopo, ammise umilmente: “non credo di averlo meritato… almeno non ancora”, facendo capire che il premio giunse prima dei risultati. Nel caso di Trump, la situazione sarebbe persino più problematica: non solo la pace non è consolidata, ma il personaggio in questione è attivamente divisivo e controverso. Se il Comitato Nobel vuole evitare di compromettere la sua credibilità, dovrebbe guardare ai risultati a lungo termine: e finora, sostengono i detrattori, nessuna delle iniziative di Trump ha prodotto una pace duratura. L’accordo di Gaza è solo alla “fase uno” su più fasi, con tantissime incognite (disarmo di Hamas, controllo di Gaza, finanziamenti) ancora aperte. Gli stessi funzionari americani ammettono che “la strada è tutta in salita” e che l’accordo è fragile. Premiare Trump ora equivarrebbe, secondo loro, a premiare un cantiere aperto. Un editoriale del “Financial Times” (ipotetico, non citato ma in linea con queste posizioni) sottolineerebbe che il Nobel non dovrebbe essere un incentivo politico o un incoraggiamento, bensì un riconoscimento di risultati già ottenuti. Se il risultato è incerto, il premio è immotivato.
Il Nobel per la Pace non è un premio politico neutro: è carico di significato morale. Consegnarlo a Trump significherebbe – dal punto di vista dei critici – legittimare comportamenti e idee in conflitto con i principi della pace e dei diritti umani. Si elencano vari punti oscuri: Trump ha mostrato ripetutamente disprezzo per la diplomazia multilaterale e per gli organismi internazionali, preferendo rapporti bilaterali di forza. Ha tagliato i fondi all’UNRWA (l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) nel 2018, aggravando la crisi umanitaria nei territori occupati. Ha ritirato gli Stati Uniti dal Consiglio ONU per i Diritti Umani e dall’UNESCO, isolandosi dalla comunità globale. Ha negato la scienza del clima, ritirandosi dagli accordi climatici, minando uno sforzo collettivo mondiale per la sicurezza futura. Inoltre, viene ricordato come Trump abbia demonizzato intere categorie e minoranze, alimentando tensioni: la sua retorica contro i musulmani (il “Muslim Ban” del 2017), i migranti latinoamericani (definiti “stupratori” e “criminali”), i cinesi (con toni bellicosi durante la pandemia) ha accentuato conflitti sociali e razziali. Queste non sono esattamente le credenziali di un costruttore di pace universale. Al contrario, segnalano una visione conflittuale del mondo (“noi vs loro”) incompatibile con l’ideale di fratellanza tra i popoli sancito da Nobel.
Inoltre, il contesto legale e democratico in cui Trump si muove non può essere ignorato: è un ex presidente (e futuro candidato) imputato in varie cause penali gravi, tra cui cospirazione contro la democrazia americana (i tentativi di ribaltare l’esito elettorale del 2020) e appropriazione di documenti top secret. Anche se ciò esula strettamente dal tema “pace”, incide sulla valutazione etica complessiva: un Nobel a un leader sotto processo per eversione democratica sarebbe quantomeno imbarazzante, per non dire ipocrita, specie nel momento in cui il Nobel 2025 è stato assegnato a un’attivista contro una dittatura (Machado vs Maduro). Come conciliare l’idea di premiare Machado per la democrazia e poi magari Trump, percepito da molti come un aspirante autocrate? Non sorprende che un membro del comitato Nobel, Asle Toje (peraltro vicino ai conservatori), abbia affermato in passato che “il Nobel non è un premio popolarità o un reality show… Non possiamo premiare chi non soddisfa criteri morali elevati”. Senza citare direttamente Trump, il messaggio era chiaro: la condotta generale conta.
I detrattori sottolineano anche un altro punto: premiare Trump oggi equivarrebbe a prendere una posizione politica fortissima e divisiva, cosa che il Comitato Nobel solitamente evita. La stessa premiazione di Obama nel 2009, benché un presidente in carica, fu giustificata perché incarnava un indirizzo nuovo di dialogo globale apprezzato quasi unanimemente in Europa. Al contrario, Trump è inviso a gran parte dell’opinione pubblica europea e mondiale. Premiarlo sarebbe letto come un endorsement verso il populismo nazionalista e autoritario, come un affronto ai valori liberal-democratici. Numerosi intellettuali, accademici e organizzazioni umanitarie hanno già fatto sapere che un eventuale Nobel a Trump provocherebbe proteste e danneggerebbe la reputazione stessa del premio.
Un aspetto spesso citato è che Trump ha tentato di manipolare il processo Nobel, mobilitando apertamente sostenitori e governi amici in suo favore. Questo è senza precedenti nella storia recente. Sebbene altre figure abbiano avuto campagne spontanee (p.es. “Nobel a Gandhi” ai tempi, che purtroppo non arrivò mai), nel caso di Trump sembra pianificato. Ciò costituisce per molti un vulnus: il Nobel per la Pace non deve apparire suscettibile di pressioni o lobbying. La lettera pubblica di Netanyahu con immagine taroccata di Trump premiato è stata considerata di cattivo gusto e un tentativo sfacciato di influenzare l’esito. Dare seguito a questa messa in scena consegnandogli davvero il premio significherebbe per i detrattori profanare la serietà del Nobel. Vorrebbe dire trasformare il Nobel in un reality show, dove vince chi fa più rumore, non chi ha più merito. Questo timore è condiviso anche da molti sostenitori istituzionali del premio. Ad esempio, l’ex segretario del Comitato, Geir Lundestad, ha in passato espresso rammarico per il Nobel a Obama (troppo prematuro) e sicuramente avrebbe obiezioni anche su Trump.
Premiare Trump adesso sarebbe un errore storico. Offuscherebbe il Nobel associandolo a una persona che – se pure ha mediato un accordo – è lontanissima dall’essere un simbolo di pace. Rischierebbe di spaccare il mondo invece di unirlo: un paradosso per un riconoscimento che dovrebbe portare consenso sui valori universali. E soprattutto, invierebbe il messaggio sbagliato: che basta un colpo diplomatico sensazionale per ripulire l’immagine di un leader bellicoso e intollerante.

Nina Celli, 16 ottobre 2025

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