Nr. 394
Pubblicato il 02/10/2025

Cortei pro-Palestina, rischio di antisemitismo?

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Le manifestazioni a sostegno della popolazione palestinese sono diventate un fenomeno diffuso in Europa e nel mondo, dopo la nuova crisi nella Striscia di Gaza. Dopo violenta reazione di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che ad oggi ha causato la morte di circa 62.000 morti tra i palestinesi, decine di migliaia di persone sono scese in piazza da Londra a Roma, da Parigi a Berlino, chiedendo il cessate il fuoco. I manifestanti denunciano le ingenti perdite civili causate dai bombardamenti israeliani — decine di migliaia di morti, tra cui un numero elevato di bambini — e muovendo a Israele accuse di genocidio. Tali proteste sono però avvenute in parallelo a un brusco aumento di episodi di antisemitismo: nelle prime due settimane dopo il 7 ottobre 2023, il Regno Unito ha registrato un incremento del 1.353% dei reati di odio antiebraico rispetto all’anno precedente, la Francia 588 atti antisemiti con 336 arresti, e la Germania 202 episodi in una sola settimana (quasi quattro volte il 2022). Questi dati hanno allarmato governi e forze dell’ordine, spingendo molti Paesi a misure eccezionali.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - Solidarietà per Gaza non è antisemitismo

Le manifestazioni pro-Palestina esprimono legittima indignazione morale verso una crisi umanitaria e rientrano nella libertà di espressione.

02 - L’odio antiebraico esplode nei cortei: un nuovo antisemitismo mascherato

Con la guerra a Gaza si denunciano escalation di minacce antiebraiche. I cortei pro-Palestina, in questo contesto, possono fungere da detonatore.

03 - Antisionismo non è antisemitismo: si deve distinguere critica politica e odio etnico

Antisionismo e antisemitismo non sono la stessa cosa: difendere i diritti dei palestinesi è legittimo e non implica odio verso il popolo ebraico.

04 - Legittima difesa democratica: misure straordinarie per un pericolo reale

Le restrizioni alle manifestazioni pro-Palestina sono una forma di legittima difesa democratica di fronte a un pericolo immediato di disordini e violenze.

05 - Repressione sproporzionata: vietare i cortei filopalestinesi è un boomerang

L’approccio repressivo adottato da molti governi europei, con divieti generalizzati, scioglimento dei cortei, arresti preventivi costituisce una risposta sproporzionata.

06 - Il caso italiano: allarme bavaglio e deriva liberticida

Le misure adottate dal governo italiano e il clima politico creatosi configurano una deriva liberticida preoccupante.

 
01

Solidarietà per Gaza non è antisemitismo

CONTRARIO

Le piazze pro-Palestina rappresentano, in primo luogo, un esercizio di libertà democratica e di solidarietà verso una popolazione civile colpita dalla guerra. I partecipanti – spesso famiglie, studenti, attivisti per la pace di ogni etnia e anche membri delle comunità ebraiche progressiste – scendono in strada per invocare il rispetto dei diritti umani e il cessate il fuoco, non per seminare odio razziale. Sostenere pubblicamente la causa palestinese significa dare voce a chi denuncia possibili crimini di guerra e chiedere giustizia internazionale. Si tratta di rivendicazioni lecite, tutelate dal diritto alla libertà di espressione e di riunione pacifica sancito dalle costituzioni europee e dalle convenzioni internazionali. Equiparare queste manifestazioni a una minaccia antisemita generalizzata rischia di criminalizzare la dissidenza politica e il dissenso morale. Human Rights Watch, pur riconoscendo la necessità di proteggere gli ebrei da aggressioni, ha ricordato che le autorità devono “proteggere il diritto alla protesta pacifica e all’espressione” anche in momenti delicati. Diversi osservatori notano come la stragrande maggioranza dei cortei filopalestinesi si svolga in modo pacifico: cori come “Stop alla guerra” o “Libertà per Gaza” esprimono preoccupazioni umanitarie legittime e non contengono alcuna incitazione all’odio verso gli ebrei. In molti casi gli organizzatori hanno cura di evitare qualsiasi slogan ambiguo: nelle istruzioni diffuse prima delle manifestazioni, talvolta, si invita esplicitamente a non usare simboli o espressioni che possano offendere la sensibilità ebraica, per mantenere il focus sui diritti umani. Ignorare questa realtà pluralista e dipingere indiscriminatamente ogni protesta pro-Palestina come un “hate rally” significa fare un torto ai principi democratici. Secondo Amnesty International, punire chi esprime solidarietà ai palestinesi “colpisce il cuore della democrazia e dei diritti” e distoglie l’attenzione dalle vere minacce razziste. Anche figure istituzionali moderate hanno difeso la legittimità di queste voci: ad esempio, il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha rimarcato che l’Italia “è contro Hamas, non contro la Palestina”, sottolineando che si può sostenere il popolo palestinese senza per questo giustificare il terrorismo. Le manifestazioni pro-Palestina – quando realmente pacifiche e incentrate su rivendicazioni umanitarie – non andrebbero soffocate bensì protette in quanto espressione del pluralismo democratico. Confonderle con focolai d’odio significa tradire la distinzione fondamentale tra critica politica e incitamento razziale.
Numerose testimonianze confermano il carattere pacifico e inclusivo di questi raduni. A Londra, ad esempio, le gigantesche marce dell’ottobre 2023 si sono svolte senza incidenti gravi: vi hanno preso parte anziani delle comunità musulmane, giovani attivisti climatici, sindacalisti ebrei contrari all’occupazione e perfino sopravvissuti dell’Olocausto, uniti nel chiedere la fine delle violenze a Gaza. Al netto di qualche episodio marginale, l’atmosfera prevalente è stata di cordoglio per le vittime civili e di speranza per la pace, con canti tradizionali arabi e interventi di rabbini progressisti sul palco. Ignorare questa realtà e cedere alla tentazione di “vietare per sicurezza” rischia di creare un pericoloso precedente: oggi colpisce chi manifesta per Gaza, domani potrebbe colpire altre cause scomode, inibendo la partecipazione civica. Come ha scritto un gruppo di accademici e giuristi europei, reagire all’estremismo limitando le libertà fondamentali è una vittoria postuma per i terroristi, perché indebolisce dall’interno le società aperte che essi vogliono spaventare. I cortei pro-Palestina – quando non configurino reati specifici – devono poter aver luogo, eventualmente accompagnati da misure di sicurezza mirate (presenza di forze dell’ordine, monitoraggio di frange violente), ma senza divieti generalizzati. Solo così si onora il principio che la miglior risposta all’odio non è il silenzio imposto, bensì più democrazia e più dialogo. Reprimere chi chiede pace rischia di alimentare frustrazione e radicalizzazione, mentre consentire proteste civili permette anche di isolare e identificare più facilmente eventuali estremisti, perseguendoli individualmente. In definitiva, difendere la libertà di manifestare per la Palestina significa difendere i valori fondamentali di una società democratica – valori che includono certamente la lotta all’antisemitismo, ma anche il diritto di ogni comunità oppressa di vedersi riconosciuta.

Nina Celli, 2 ottobre 2025

 
02

L’odio antiebraico esplode nei cortei: un nuovo antisemitismo mascherato

FAVOREVOLE

Alcuni ritengono che le manifestazioni pro-Palestina, al di là delle dichiarazioni di principio, siano troppo spesso teatro di deragliamenti antisemiti e rappresentino quindi un pericolo reale. Nel clima infuocato seguito al 7 ottobre 2023, dalle piazze europee e italiane sono emersi slogan, gesti e simbologie che superano la critica legittima a Israele per sconfinare nell’odio antiebraico puro e semplice. A giudizio dei “contro”, questi episodi non sono casi isolati ma sintomi di un “nuovo antisemitismo” che percorre la sinistra radicale e ambienti islamisti, camuffandosi da attivismo politico. Numerosi esempi concreti corroborano questa tesi.
In Italia, l’Unione delle Comunità Ebraiche (UCEI) ha documentato con allarme quanto avvenuto nel grande corteo nazionale del 28 ottobre 2023 a Roma: tra migliaia di manifestanti (per lo più pacifici) si sono levati cori inquietanti come “Israele boia, Israele terrorista”, con la folla che imputava agli israeliani crimini efferati in termini assoluti. Alcuni facinorosi hanno issato cartelli in cui si paragonava il primo ministro israeliano Netanyahu ad Hitler, o si accostava la stella di Davide alla svastica nazista. Un manifestante si è arrampicato sulla recinzione della sede FAO per strappare e gettare la bandiera israeliana, un gesto altamente simbolico di disprezzo verso l’identità ebraica nazionale. A Livorno, in un raduno locale, si sono udite urla “Via Israele!” mentre alcuni giovani coprivano con la bandiera palestinese una bandiera della pace esposta dal Comune. Ad Aosta, un oratore al megafono ha urlato che “Israele sta facendo ai palestinesi ciò che i nazisti fecero agli ebrei”, banalizzando così la Shoah e ferendo la memoria storica. Questi episodi, lungi dall’essere espressioni di semplice antisionismo, rientrano chiaramente – secondo i contrari – nella definizione di antisemitismo: demonizzazione del popolo ebraico e assimilazione di Israele al Nazismo (un parallelo incluso tra gli esempi di antisemitismo dall’IHRA). Noemi Di Segni, presidente UCEI, dopo i fatti di Roma ha dichiarato: “Assistere a simili atti di odio fa molto male. Sono offese esplicite che nulla hanno a che vedere con la tutela dei diritti palestinesi”. Parole che evidenziano la percezione che quelle manifestazioni siano state snaturate dalla presenza di frange antisemite.
Alcuni sottolineano che situazioni analoghe si sono viste in altre città europee. A Londra, in occasione di un imponente corteo a metà ottobre 2023, gruppi di estremisti hanno gridato slogan come “Khaybar, Khaybar, oh Ebrei, l’esercito di Maometto ritornerà” (un canto minaccioso che rievoca un massacro di ebrei nell’antichità islamica). La Metropolitan Police ha riferito di dozzine di arresti per atti di incitamento all’odio durante i raduni di quel periodo. In Francia, all’indomani del massacro di Hamas, nelle banlieue parigine alcuni manifestanti hanno distribuito dolci e ballato per celebrare l’“impresa” terrorista: immagini “disgustose” – come le ha definite il cancelliere Scholz – con persone che festeggiano l’uccisione di civili ebrei in Israele. Queste scene di giubilo per attacchi antiebraici contraddicono l’idea che i cortei pro-Palestina siano esclusivamente solidali con le vittime palestinesi: mostrano che una parte (non trascurabile) di quei manifestanti in realtà rivendica l’odio contro Israele e contro gli ebrei. Riccardo Pacifici, ex presidente della Comunità Ebraica di Roma, in un’intervista ha spiegato: “Quattro ragazzi neofascisti che fanno il saluto romano mi preoccupano meno dell’odio anti-Israele che vedo a sinistra”. Quell’odio anti-Israele “a prescindere” – sostiene Pacifici – finisce per diventare odio antiebraico generalizzato. La percezione diffusa tra gli ebrei europei, rilevata anche dal “Times of Israel”, è che ad ogni conflitto in Medio Oriente seguano venerdì di preghiera in cui, in certe moschee o raduni musulmani, si incendiano gli animi con retoriche violente contro gli ebrei, traducendosi poi in aggressioni fisiche durante o dopo i cortei. Nel maggio 2021, a Gelsenkirchen (Germania), 200 manifestanti filopalestinesi marciarono verso la sinagoga locale gridando “Sch**ß Juden” (“ebrei di m***”), un atto che ricorda tristemente i pogrom di un tempo. Episodi analoghi – per quanto isolati nel contesto di proteste più ampie – segnalano una tendenza inquietante: l’antisionismo di piazza, quando radicalizzato, trasborda facilmente in antisemitismo esplicito. Questo giustifica, agli occhi dei contrari, la massima severità.
Un altro aspetto sottolineato è che nelle piazze pro-Palestina hanno trovato spazio simboli e organizzazioni estremiste che nulla hanno a che fare con la “solidarietà umanitaria”. Paolo Berizzi su “Repubblica” ha documentato come a Milano e Genova il coordinamento dei cortei fosse finito nelle mani di figure legate a movimenti islamisti: ad esempio Mohamed Hannoun, capo dell’Associazione Palestinesi in Italia, noto per retorica intrisa di jihadismo, o il suo vice Suleiman Hijazi. In quei cortei milanesi, migliaia di persone hanno sfilato ogni sabato e dagli altoparlanti partivano cori in arabo a glorificazione di Hamas, definendone i miliziani “i nostri partigiani” nella lotta contro Israele. Un paragone, quello con i partigiani, che nella cultura italiana evoca legittimità: chiamare “resistenza” un massacro di civili israeliani (donne, bambini, anziani) significa normalizzarlo e perfino celebrarlo. Questi evidenziano che Hamas è riconosciuta come organizzazione terroristica dall’UE; di conseguenza, un raduno in cui la folla acclama Hamas o espone i suoi simboli non può essere considerato una normale manifestazione pacifica, ma diventa un potenziale reato (apologia di terrorismo) e una minaccia per l’ordine pubblico. Il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin, motivando il bando ai cortei dopo il 7 ottobre, disse chiaramente: “Le manifestazioni pro-Palestina vanno vietate perché rischiano di degenerare in sostegno al terrorismo”, citando il mancato dissociarsi degli organizzatori parigini da Hamas. Anche la risoluzione del Consiglio di Stato francese che ha poi moderato il divieto ha riconosciuto che, “nel contesto attuale, manifestazioni di sostegno a Hamas o di esaltazione degli attacchi anti-ebraici costituiscono un legittimo motivo di ordine pubblico per vietarle”. E infatti, quando a Parigi è stato infine permesso un corteo per la Palestina, la Prefettura ha comunque arrestato dieci individui colti a pronunciare frasi antisemite o a imbrattare statue con graffiti anti-Israele. Questo a riprova che ci sono facinorosi e questi vanno isolati con tolleranza zero.
L’insieme di questi elementi dipinge un quadro chiaro: molti cortei pro-Palestina diventano veicolo di antisemitismo. Spesso la transizione è sottile: si parte da slogan politici (per alcuni già discutibili, come “Palestine will be free from the river to the sea”) e si arriva a cori di intonazione apertamente razziale o di incitamento alla violenza contro ebrei e israeliani. Questo fenomeno viene definito “antisemitismo di sinistra” o “antisemitismo islamista”, per distinguerlo dall’antisemitismo tradizionale neonazista. Autori ebrei come Alain Finkielkraut in Francia hanno lanciato l’allarme: “La sinistra estrema è fortemente antisemita sul piano politico”, tanto che in un’intervista ha affermato di preferire paradossalmente l’ultradestra di Le Pen (che ha rinnegato l’antisemitismo storico) al Front de Gauche filopalestinese, giudicato pericoloso per gli ebrei. In Italia, il semiologo Ugo Volli (allievo di Eco e figura di spicco dell’ebraismo italiano) ha dichiarato al “Giornale”: “Il comportamento politico della sinistra è fortemente ostile a Israele e agli ebrei e ne mette in pericolo sicurezza ed esistenza”. Si tratta di affermazioni forti, ma che riflettono un sentimento diffuso tra le comunità ebraiche europee dopo gli eventi del 2023: più dei gruppuscoli nostalgici di Hitler, oggi fanno paura le masse che in nome dell’antisionismo sdoganano un linguaggio e un immaginario che demonizza l’ebreo in quanto ebreo. Questo “odio antiebraico a prescindere”, come lo chiama Pacifici, è particolarmente insidioso perché si ammanta di causa politica, sfuggendo ai radar di chi si aspetta l’antisemitismo solo con simboli fascisti. Ma gli effetti sono concreti: in Germania, nel 2023, alcune famiglie ebree hanno tolto i figli da scuole pubbliche dopo aver riscontrato atteggiamenti ostili legati al conflitto; in Olanda e Belgio, sinagoghe e scuole ebraiche hanno chiuso temporaneamente per timore di attacchi. Perfino eventi come le manifestazioni femministe hanno visto derive inquietanti: il “Giornale” riferisce che al corteo contro la violenza sulle donne del 25 novembre 2023, a cui partecipavano anche attiviste ebree, alcune femministe radicali hanno omesso di menzionare gli stupri subiti dalle donne israeliane il 7 ottobre da parte di Hamas e hanno escluso dai loro spezzoni le donne ebree con bandiere israeliane, temendo provocazioni. Questa “sudditanza” ideologica a un antisemitismo latente, per compiacere frange pro-Palestina interne ai movimenti è giudicata dai contrari come un segnale allarmante di come l’odio antiebraico si sia infiltrato anche nei circuiti progressisti.
Per tutti questi motivi, la tesi contro sostiene che i cortei pro-Palestina, nella forma in cui si sono svolti recentemente, pongono un serio rischio di antisemitismo. Non si tratta, a loro avviso, di demonizzare il diritto di protesta in sé, ma di riconoscere che in questi cortei l’antisemitismo c’è e va affrontato con durezza. Minimizzare o negare la presenza di odio antiebraico nelle piazze filopalestinesi equivarrebbe a chiudere gli occhi di fronte a una realtà pericolosa. La sicurezza della comunità ebraica, storicamente minoritaria e bersaglio dell’odio, deve avere priorità: se manifestazioni di decine di migliaia di persone degenerano anche solo parzialmente in cori antisemiti o provocano paura diffusa tra gli ebrei (cittadini italiani ed europei), le istituzioni hanno il dovere di intervenire, anche con misure drastiche. In quest’ottica, i divieti temporanei, le identificazioni e gli arresti preventivi non sono visti come atti illiberali, ma come azioni di prevenzione necessarie, analoghe a quelle usate verso manifestazioni dove si teme il dilagare di razzismo o violenza (ad esempio, molti Paesi vietano raduni neonazisti proprio per tutela dell’ordine pubblico e delle minoranze). Darmanin in Francia e Piantedosi in Italia hanno argomentato che impedire quelle marce era “l’unica decisione possibile per prevenire disordini gravi”. I sostenitori di questa visione concordano: meglio prevenire che dover poi reprimere nel caos in piazza. Se ciò comporta limitare temporaneamente la libertà di alcuni di manifestare, è un prezzo accettabile per proteggere una minoranza dall’incitamento all’odio.
Le manifestazioni pro-Palestina, dunque, così come avvenute nel 2023-2024, sono spesso un cavallo di Troia dell’antisemitismo. Sotto le bandiere dei diritti dei palestinesi, si infiltrano e si scatenano sentimenti antiebraici che l’Europa non può tollerare, soprattutto data la sua storia. È giusto e opportuno vietare o sciogliere i cortei laddove emergano segnali di questo odio: lo impone la difesa dei valori democratici e della sicurezza di una comunità vulnerabile. Come recitava uno striscione esposto alla contromanifestazione di solidarietà con Israele a Berlino, “Mai più” deve valere ogniqualvolta nelle strade risuonano slogan che prendono di mira gli ebrei – anche se mascherati dietro la politica mediorientale. E se tali slogan risuonano durante i cortei pro-Palestina, allora quel “Mai più” giustifica pienamente l’intervento fermo dello Stato.

Nina Celli, 2 ottobre 2025

 
03

Antisionismo non è antisemitismo: si deve distinguere critica politica e odio etnico

CONTRARIO

Un punto cardine della posizione favorevole è la netta distinzione concettuale tra antisemitismo (odio verso gli ebrei in quanto tali) e antisionismo o critica alle politiche dello Stato di Israele. Questa distinzione, riconosciuta da molti storici e filosofi, viene spesso offuscata nel dibattito pubblico, con il rischio di confondere il legittimo dissenso politico con il fanatismo razziale. I sostenitori di tale tesi ricordano che si può essere fermamente contrari all’occupazione dei Territori Palestinesi o alle azioni militari israeliane senza nutrire alcun pregiudizio antiebraico. Ad esempio, esponenti come lo storico ebreo Tony Judt (scomparso nel 2010) o il politologo Noam Chomsky hanno più volte criticato l’equiparazione retorica di antisionismo e antisemitismo, definendola una strumentalizzazione per mettere a tacere i critici di Israele. Nel contesto attuale, questa confusione viene accentuata dall’uso dell’ormai celebre definizione operativa di antisemitismo formulata dall’IHRA (Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto). Tale definizione include, tra gli esempi di antisemitismo, anche la negazione del diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico (ad esempio sostenere che l’esistenza di Israele sia un progetto razzista). I fautori di questa tesi evidenziano che l’IHRA, pur animata da buone intenzioni, ha però un carattere non vincolante e una natura volutamente ampia, che rischia di inglobare forme di espressione politica del tutto lecite. La stessa Relatrice Speciale ONU sulla libertà di opinione, Irene Khan, ha espresso forte preoccupazione: nel suo rapporto del 2024 ha definito l’uso della definizione IHRA “inconsistente con il diritto internazionale dei diritti umani”, notando come sia stata impiegata in Europa per “limitare le critiche alle azioni del governo israeliano e le crescenti richieste di porre fine alle violazioni contro i palestinesi”. In altri termini, equiparare in automatico l’antisionismo all’antisemitismo è scorretto e pericoloso: scorretto perché confonde l’identità ebraica, che è multiforme e globale, con le scelte contingenti di uno Stato; pericoloso perché inflaziona il termine “antisemitismo”, rischiando di banalizzarlo e di indebolirne la condanna quando si manifesta davvero.
Va ricordato che importanti settori del mondo ebraico stesso non condividono l’identificazione acritica con Israele. Esistono organizzazioni di ebrei progressisti (come Jewish Voice for Peace negli USA o Ebrei Contro l’Occupazione in Italia) che partecipano alle proteste pro-Palestina portando uno striscione chiaro: “Not in our name”. Questi gruppi rivendicano il diritto di dissentire dalle politiche del governo israeliano proprio in nome dei valori etici ebraici, rifiutando l’idea che ciò li renda “ebrei che odiano se stessi” o traditori. Quando, ad esempio, a Berlino nell’ottobre 2023 la polizia ha vietato una manifestazione guidata da ebrei contro la guerra (temendo che tra gli slogan ci fossero messaggi antisionisti), gli organizzatori – l’associazione Jewish Voice for a Just Peace – hanno denunciato l’abuso come doppiamente assurdo: da un lato negava loro, ebrei europei, il diritto di protestare pacificamente; dall’altro presumeva che criticare il governo Netanyahu equivalesse a diffondere odio antiebraico. Questo episodio, citato da “Jewish Currents”, mostra quanto possa essere capziosa e strumentale la confusione tra antisemitismo e dissenso anti-occupazione.
I sostenitori di questo punto di vista sottolineano inoltre una distinzione di fondo: l’antisemitismo autentico si manifesta con atti o parole rivolti contro persone di religione o origine ebraica (attacchi a sinagoghe, insulti agli ebrei in quanto ebrei, diffusione di miti complottisti sugli “ebrei potenti” ecc.). Le proteste pro-Palestina, al netto di qualche eccesso verbale isolato, concentrano il loro messaggio su un conflitto geopolitico e sui diritti negati a un popolo specifico (quello palestinese). Uno slogan come “Stop bombing Gaza” o “Libertà per la Palestina” non prende di mira gli ebrei del mondo, bensì critica l’operato di uno Stato. Anche slogan più controversi come “Palestina libera dal fiume al mare” – secondo un’approfondita analisi di “Al Jazeera” – sono intesi dai manifestanti come aspirazione a un futuro di uguaglianza in tutta la regione storica palestinese, non come minaccia di “buttare a mare” gli ebrei. Naturalmente, molto dipende dal contesto e dal tono: se quello stesso slogan venisse usato per incitare alla violenza contro Israele o per negare qualsiasi convivenza possibile, allora sconfinerebbe nell’odio; ma in sé, argomentano gli analisti, non implica necessariamente antisemitismo e infatti è stato usato per decenni anche in ambienti laici e socialisti palestinesi non legati ad ideologie religiose estremiste.
Occorre mantenere ben separati i piani. Criticare duramente il sionismo – ad esempio definendo Israele uno “Stato di apartheid” per via del trattamento discriminatorio dei palestinesi, come affermato da ONG internazionali – rientra nel discorso politico legittimo e può essere condivisibile o meno, ma non è di per sé antisemitismo. Lo diventa solo se accompagnato da retorica razziale antiebraica (es. slogan sul “complotto ebraico mondiale” o insulti agli ebrei come popolo), il che fortunatamente rimane minoritario nelle piazze filopalestinesi. Confondere i due livelli, ammonisce Amnesty International, serve solo a “delegittimare qualsiasi sforzo di chiedere conto a Israele delle proprie azioni” e a spostare l’attenzione: invece di discutere nel merito delle accuse (bombardamenti di civili, occupazione, colonie illegali), si etichetta chi protesta come antisemita e si chiude il dialogo. Un approccio del genere è stato definito dagli attivisti come “strumentalizzazione dell’antisemitismo”, dannosa anche per la lotta all’odio. Il Fatto Quotidiano, in un’opinione, ha sintetizzato questa critica: se “tutto è antisemitismo”, nulla lo è davvero – e si finisce col banalizzare il concetto
Riconoscere che l’antisionismo (nelle sue forme non violente e non razziste) è distinto dall’antisemitismo è fondamentale per garantire un dibattito pubblico onesto. Significa poter discutere di politica mediorientale – anche aspramente – senza incasellare ogni voce critica come espressione di odio religioso o etnico. Significa, al contempo, isolare e combattere con maggior efficacia i veri antisemiti, che esistono e vanno perseguiti, anziché disperdere gli sforzi colpendo indiscriminatamente movimenti di protesta spesso mossi da intenti morali e non certo antiebraici.

Nina Celli, 2 ottobre 2025

 
04

Legittima difesa democratica: misure straordinarie per un pericolo reale

FAVOREVOLE

Un ulteriore asse argomentativo della posizione contro risiede nell’idea che le restrizioni imposte alle manifestazioni pro-Palestina costituiscano una forma di legittima difesa democratica di fronte a un pericolo immediato di disordini e violenze a sfondo antisemita. I contrari respingono l’accusa di “censura illiberale”, sostenendo invece che il contesto eccezionale creatosi dopo l’7 ottobre 2023 richiedeva risposte eccezionali ma proporzionate al rischio. L’ondata emotiva scatenata dalla guerra in Gaza ha creato una situazione potenzialmente esplosiva nelle società europee, con un crescendo simultaneo sia di antisemitismo sia di tensioni intercomunitarie (ebrei vs musulmani). In tale scenario, evitare perdite di controllo e incidenti gravi era prioritario. Olaf Scholz, parlando al Parlamento tedesco, ha ricordato le “scene vergognose” di persone che nelle strade tedesche esultavano per atti terroristici contro ebrei, definendole intollerabili e annunciando che la Germania avrebbe usato “tutta la forza dello Stato di diritto” per impedirne la reiterazione. Questo messaggio – “tolleranza zero” – è stato recepito un po’ ovunque. Nel Regno Unito, la ministra dell’Interno Suella Braverman ha scritto ai capi della polizia invitandoli a considerare certi slogan (“From the river to the sea”, ad esempio) come possibili reati di incitamento e ad agire di conseguenza. Queste indicazioni non rappresentano affatto una deriva autoritaria, bensì l’applicazione delle leggi vigenti sull’hate speech e la sicurezza pubblica in un frangente delicatissimo.
I governi che hanno agito (Francia, Germania, Italia, Austria ecc.), lo hanno fatto sulla base di precisi indizi di pericolo. Non si è trattato di zittire un’opinione sgradita, ma di prevenire concreta violenza. In Francia, ad esempio, il divieto generalizzato decretato da Darmanin si fondava su rapporti dell’intelligence che segnalavano come alle manifestazioni pro-Palestina si sarebbero uniti “elementi radicali dell’ultrasinistra e dell’islamismo” pronti a scontri. Tali rapporti evidenziavano il rischio di “apologie del terrorismo” e atti antisemiti durante i raduni. È un fatto che nei giorni immediatamente successivi al 7 ottobre 2025 vi siano stati in Francia decine di arresti per minacce contro scuole ebraiche, aggressioni verbali e un tentato assalto a un negozio kosher. In questo clima, attendere passivamente lo svolgersi di cortei potenzialmente infiammabili sarebbe stata una grave negligenza. Anche in Italia, la decisione di bloccare la manifestazione del 27 gennaio 2024 non è nata dal nulla: pochi giorni prima, a fine dicembre, i servizi segreti avevano diffuso una nota sulle possibili “azioni ostili di lupi solitari in reazione alla guerra di Gaza”. Inoltre, la coincidenza con la Giornata della Memoria rendeva le piazze ancora più sensibili: come ha scritto in un tweet la Comunità Ebraica di Milano, “autorizzare cortei pro-Palestina il 27 gennaio sarebbe uno schiaffo alla Memoria e un rischio per la sicurezza delle cerimonie”. Il ministro Piantedosi, nella conferenza stampa in cui ha difeso la scelta, ha dichiarato: “Garantiremo ogni libera espressione, ma non celebrazioni di eccidi. Spostare di un giorno non è negare la libertà di manifestare”. Queste parole riflettono l’approccio prudenziale: evitare solo le date e situazioni più provocatorie (come appunto il 27 gennaio, sacro per gli ebrei italiani), lasciando ai manifestanti la possibilità di esprimersi comunque in altro momento. I contrari trovano questa linea equilibrata: hanno definito “di buon senso” la decisione di Piantedosi, poiché ha scongiurato il rischio concreto di tensioni o contrapposizioni per strada tra partecipanti ai cortei pro-Palestina e partecipanti alle commemorazioni della Shoah. In Parlamento, i partiti di governo hanno compattamente applaudito il Viminale per aver evitato quella che poteva diventare una “triste giornata di divisione nazionale”.
Da un punto di vista giuridico, i contrari ricordano che le libertà di espressione e manifestazione non sono assolute: possono essere limitate per motivi di ordine pubblico o tutela di diritti altrui (come la dignità e l’incolumità di una minoranza). Esiste ampia giurisprudenza, anche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che convalida scioglimenti di manifestazioni razziste o divieti di eventi se c’è un rischio serio di violenze. Nel caso delle proteste pro-Palestina, i governi hanno ritenuto – suffragati dai fatti – che quel rischio esistesse. Del resto, vari cortei autorizzati sono degenerati: a Bruxelles, a fine ottobre 2023, una marcia è finita con assalti a negozi nel quartiere ebraico e 15 arresti. A Sydney, in Australia (altro scenario occidentale comparabile), durante un raduno pro-Gaza alcuni individui hanno gridato “Gas the Jews” davanti alla Opera House, costringendo la polizia a intervenire e il governo a condannare fermamente l’accaduto. Questi esempi confermano che non si tratta di timori astratti: il pericolo di violenze antisemite è stato ed è tangibile. Dunque, meglio qualche divieto in più che una sinagoga bruciata o un manifestante linciato.
Le misure repressive hanno in buona parte funzionato nel loro intento. In Francia, nonostante le tensioni iniziali, non si sono poi registrati gravi incidenti grazie all’azione preventiva delle autorità. In Germania, i sette divieti a Berlino hanno impedito che manifestazioni non autorizzate dilagassero in scontri: quando piccoli gruppi hanno provato a radunarsi sfidando il bando, la polizia li ha dispersi rapidamente, evitando escalation. Anche in Italia, dopo il giro di vite di fine 2023, le piazze pro-Palestina sono andate gradualmente sgonfiandosi e – dal punto di vista della sicurezza – non si sono registrati episodi di violenza rilevanti. Il Ministro della Difesa Crosetto ha affermato a dicembre: “Abbiamo evitato che il conflitto mediorientale si importasse nelle nostre strade. Era questo l’obiettivo e lo abbiamo raggiunto”. Dal canto loro, i rappresentanti della comunità ebraica hanno espresso sollievo: a distanza di un anno dal 7 ottobre, il presidente dell’Unione Ebraica Europea Ariel Muzicant ha dichiarato che “la rapida reazione dei governi europei ha impedito tragedie. Certo, l’antisemitismo è aumentato, ma senza quelle misure sarebbe andata molto peggio”.
Dunque, vietare o limitare i cortei pro-Palestina durante l’emergenza 2023-2024 è stata una scelta dolorosa ma giustificata. Non per censurare un’opinione politica, bensì per evitare che quell’opinione venisse sfruttata come copertura per propagare odio antiebraico e violenza. In altri termini, si è trattato di immunizzare la società democratica contro un attacco al suo tessuto coesivo: l’antisemitismo, in qualunque forma, è infatti un veleno sociale che, se tollerato, può condurre a gravi conflitti interni. Le democrazie liberali hanno non solo il diritto, ma il dovere di difendersi da simili derive. Come recita la massima attribuita a Karl Popper, il filosofo della società aperta: “Non si può essere tolleranti con gli intolleranti”. Permettere manifestazioni in cui si finisce per inneggiare all’odio contro gli ebrei sarebbe stato un paradosso per società fondate sul “Mai Più”. Pertanto, strumenti come i divieti, gli arresti preventivi e l’uso fermo della forza contro i facinorosi vengono considerati non un tradimento della democrazia, ma un atto di autodifesa di quest’ultima. Un atto temporaneo, emergenziale, calibrato sull’ampiezza della minaccia. Con la speranza – condivisa anche da chi propugna misure dure – che, cessata l’emergenza, si possa tornare a un confronto civile e libero, in cui ciascuno manifesti le proprie idee senza paura e senza far paura agli altri. Ma fino ad allora, la sicurezza e la lotta all’antisemitismo vengono prima.

Nina Celli, 2 ottobre 2025

 
05

Repressione sproporzionata: vietare i cortei filopalestinesi è un boomerang

CONTRARIO

Secondo i fautori delle posizioni favorevoli, l’approccio repressivo adottato da molti governi europei nel 2023-2024 – con divieti generalizzati di manifestare, scioglimenti manu militari dei cortei, arresti preventivi e altre misure eccezionali – costituisce una risposta sproporzionata e controproducente. Invece di arginare l’antisemitismo, tale repressione rischia di radicalizzare ulteriormente il clima, oltre a compromettere diritti fondamentali. Human Rights Watch e Amnesty International hanno entrambe condannato queste misure come eccessive: HRW ha parlato di “restrizioni eccessive alle proteste pro-Palestina” in vari Paesi; Amnesty ha documentato un “preoccupante schema” di abusi, con la polizia che in alcune città europee ha usato tattiche aggressive contro raduni del tutto pacifici. Un esempio estremo citato da Amnesty è quanto accaduto a Berlino il 9 febbraio 2025: durante una marcia per la Palestina, è stato imposto ai partecipanti di parlare solo in tedesco o inglese e chi intonava slogan in arabo è stato disperso con la forza dalla polizia, che tramite altoparlanti sosteneva che “chiunque parli arabo mette a repentaglio la sicurezza pubblica”. Scene simili – degne di uno scenario distopico – sono state riportate anche a Londra, dove ai tifosi di calcio è stato vietato di pubblicare online la frase “From the river to the sea”, o a Vienna, dove un’intera manifestazione è stata proibita preventivamente perché nelle proteste precedenti era stato udito quel coro. I sostenitori di tale punto di vista giudicano questi provvedimenti esorbitanti rispetto ai fini dichiarati: puniscono un’intera comunità di manifestanti per i possibili eccessi di pochi, instaurando di fatto una sorta di “responsabilità collettiva” incompatibile con lo Stato di diritto.
Inoltre, la repressione indiscriminata rischia di ottenere l’effetto opposto rispetto a quello voluto. Invece di calmare le tensioni, le acuisce. Molti giovani musulmani europei – spesso già alle prese con problemi di marginalizzazione sociale – percepiscono tali divieti come un’ingiustizia mirata verso di loro, alimentando sentimenti di sfiducia e vittimizzazione. Il Council on American-Islamic Relations ha notato dinamiche analoghe nei Paesi occidentali: se una comunità sente che la propria libertà di espressione viene compressa in modo selettivo, può maturare rancore verso lo Stato e gli ebrei visti come “causa” di questa censura, peggiorando quindi i rapporti intercomunitari. Benjamin Ward, vicedirettore di HRW per l’Europa, ha messo in guardia: “Criminalizzare o vietare simboli palestinesi in modo generalizzato è una risposta discriminatoria e sproporzionata”, che “costituisce un’interferenza ingiustificata con la libertà di espressione”. In Francia, l’ondata di proibizioni iniziali (64 cortei vietati) ha suscitato forti critiche anche da parte di giuristi moderati: il Consiglio di Stato ha dovuto intervenire ripristinando il principio che ogni manifestazione vada valutata caso per caso, non con una censura di massa. Dopo la retromarcia legale, le proteste autorizzate a Parigi si sono svolte senza gravi incidenti (qualche arresto isolato per scritte antisemite e imbrattamenti, ma nulla di ingestibile), a dimostrazione che dialogare con gli organizzatori e porre condizioni precise (percorso, divieti di simboli violenti ecc.) è più efficace che proibire in blocco. Lo stesso Commissario federale tedesco per l’antisemitismo, Felix Klein, pur molto sensibile alla tutela degli ebrei, ha espresso perplessità sui ban indiscriminati dei Länder: ha affermato che “manifestare è un diritto fondamentale” e che vietare tutto in partenza può essere controproducente, invitando invece le autorità a intervenire solo se durante le manifestazioni compaiono davvero contenuti illegali.
Un ulteriore argomento è che la repressione cieca finisce per delegittimare la stessa lotta all’antisemitismo. Se si dà l’impressione che “antisemitismo” sia un’etichetta usata per sbarazzarsi di oppositori politici o di voci scomode, l’opinione pubblica potrebbe iniziare a non prendere sul serio le denunce, anche quando sono fondate. Un membro del Parlamento britannico, Clive Lewis, durante il dibattito sul conflitto di Gaza, ha ammonito che bollare come antisemita qualunque protesta antiguerra rischia di generare “cynicism” e di svuotare di significato le vere allerta sul fanatismo antiebraico. In Italia, la senatrice Alessandra Maiorino (M5S) ha definito “strano” il tempismo del disegno di legge Romeo (Lega) sull’antisemitismo, presentato in piena guerra di Gaza: secondo lei, sembra concepito apposta per vietare cortei pro-Palestina più che per effettiva urgenza antirazzista. Ciò suggerisce che si stia sfruttando una comprensibile paura (l’aumento degli atti antisemiti) per introdurre norme liberticide. Questo intreccio è pericoloso: in futuro, altri governi potrebbero invocare motivi analoghi (sicurezza nazionale, prevenzione dell’odio) per soffocare manifestazioni su altre tematiche, creando un precedente di limitazione delle libertà civili. In un editoriale su “The Independent”, la direttrice di Amnesty Erika Guevara-Rosas ha scritto che l’Europa “vanta di essere campionessa di diritti umani, eppure sta mettendo a tacere la solidarietà e normalizzando l’eccezione repressiva”. Piuttosto, sostiene, l’Europa dovrebbe preoccuparsi di punire chi commette genocidi e crimini (riferimento alla condotta israeliana a Gaza) più che chi protesta contro di essi.
Da questo punto di vista, vietare o reprimere in massa i cortei pro-Palestina è sproporzionato perché punisce molti innocenti per arginare pochi colpevoli, ed è controproducente perché alimenta tensioni sociali e delegittima la causa della lotta all’odio. Meglio sarebbe un approccio equilibrato: autorizzare le manifestazioni pacifiche prevedendo però una vigilanza stretta e l’arresto mirato di chi eventualmente vi compia reati (istigazione all’odio, violenze, vandalismi). Questa strategia chirurgica centrerebbe il doppio obiettivo di tutelare sia la sicurezza della comunità ebraica sia i diritti civili di milioni di cittadini che hanno a cuore la pace in Medio Oriente. Come sintetizzato da Human Rights Watch, le autorità devono “assicurare che le risposte di sicurezza non danneggino i diritti” e possono combattere contemporaneamente antisemitismo e islamofobia senza “soffocare il dissenso democratico”. La repressione generalizzata, al contrario, rischia di avvicinare l’Europa a quegli scenari illiberali che pretende di condannare.

Nina Celli, 2 ottobre 2025

 
06

Il caso italiano: allarme bavaglio e deriva liberticida

CONTRARIO

Una specifica declinazione di questa deriva è visibile in quanto avvenuto in Italia, dove il dibattito sui cortei pro-Palestina ha assunto contorni accesi e peculiari. Le misure adottate dal governo italiano e il clima politico creatosi configurano una deriva liberticida preoccupante, che va contrastata. Sin dai primi giorni dopo il 7 ottobre 2023, l’esecutivo Meloni ha assunto una postura di estremo rigore: totale solidarietà a Israele, nessun accenno critico alle sue operazioni militari, immediata stigmatizzazione di ogni protesta filopalestinese interna. Un episodio simbolo è stato il divieto delle manifestazioni del 27 gennaio 2024 (Giorno della Memoria). Come già ricordato, la Comunità Ebraica di Roma – scossa dall’idea di un corteo per Gaza proprio nel giorno dedicato alle vittime della Shoah – ha chiesto ufficialmente al governo di intervenire: “Le istituzioni dicano No a questa marcia antisemita”, sono state le parole senza appello del presidente romano Victor Fadlun. Il ministro Piantedosi non ha esitato: in poche ore ha convocato il Comitato per l’ordine pubblico e inviato una circolare ai Questori perché “sollecitino gli organizzatori a spostare le manifestazioni” ad altra data. Di fatto, i cortei di Roma e Milano (già autorizzati in un primo momento) sono stati vietati il giorno prima, con notifica agli organizzatori di un rinvio coatto al 28 gennaio. Ciò ha provocato l’indignazione di giuristi, attivisti e parte dell’opposizione, che hanno parlato apertamente di “bavaglio”. L’editoriale di Giuliano Granato su “Il Fatto Quotidiano” ha sostenuto che il governo, seguendo questa linea, ha in pratica affermato il principio che “qualunque manifestazione che denunci i crimini di Israele deve essere considerata antisemita”. L’articolista accusa le autorità di aver ridotto il 27 gennaio a “giornata del silenzio”, vietando perfino di diffondere la notizia – arrivata in quelle ore – che la Corte dell’Aia avesse riconosciuto un rischio di genocidio a Gaza.
L’Italia è fra i pochi Paesi dove la maggioranza politica ha proposto di tradurre l’indirizzo repressivo in legge. Mentre la Germania emanava risoluzioni parlamentari (come “Never Again is Now”, critica perché rischia di tagliare fondi a progetti artistici sgraditi a Israele), in Senato a Roma è arrivato un disegno di legge che, di fatto, mira a criminalizzare l’antisionismo. La proposta Romeo (Lega) – come raccontato da “Il Manifesto” – vuole adottare la definizione IHRA e permettere di negare l’autorizzazione a raduni pubblici con potenziale contenuto antisionista. In Commissione, l’opposizione (PD, M5S) ha denunciato che così “ogni critica al governo di Netanyahu e perfino le piazze per chiedere la fine del genocidio verrebbero vietate per legge”, scenario definito “inconcepibile in un Paese democratico” da Laura Boldrini. Parole dure sono arrivate anche dalla senatrice Ileana Malavasi (PD), secondo cui la destra italiana “ha fatto il salto verso la repressione del pensiero”, come negli Stati autocratici, e ci si potrebbe trovare ad arrestare anche figure autorevoli (ha citato provocatoriamente il cardinale Pizzaballa o lo scrittore David Grossman) se esprimono critiche a Israele. Persino dentro la galassia di destra, alcuni (es. ex leghisti del “Patto per il Nord”) hanno biasimato il progetto, sostenendo che così la Lega “si inchina ai diktat di Netanyahu” e paradossalmente “apre le porte al Corano nelle scuole” pur di difendere Israele ad oltranza.
Per i sostenitori di questa posizione, questi sviluppi in Italia rappresentano un campanello d’allarme. Un Paese occidentale, formalmente impegnato contro ogni censura durante le proteste in Iran o Russia, sta simultaneamente riducendo gli spazi di dissenso interno su un tema di politica estera. Ci si domanda: domani, approvata la legge Romeo, un semplice cartello “Giustizia per i palestinesi” potrebbe essere motivo di denuncia per antisemitismo? O una conferenza universitaria sulle violazioni in Cisgiordania potrebbe essere annullata perché “filo-Hamas”? Il rischio paventato è che l’Italia scivoli verso una limitazione strutturale della libertà di manifestazione, ben oltre l’emergenza contingente. A preoccupare è anche il contesto simbolico e culturale. L’aver impedito la marcia del 27 gennaio – sottolineano gli attivisti – ha creato un paradosso: nel Giorno della Memoria, istituito per non dimenticare l’orrore di Stato contro minoranze indifese, lo Stato italiano ha messo a tacere chi voleva difendere un popolo sotto attacco, cioè ha impedito di “ricordare per agire”.
Oltre alla dimensione politica, c’è quella sociale: la comunità arabo-musulmana in Italia (pur meno numerosa che in Francia o Germania) ha vissuto queste misure come discriminatorie. A Roma e Milano, l’annullamento all’ultimo minuto dei cortei – accompagnato da un massiccio spiegamento di polizia nei quartieri dove vivono molti cittadini di origine egiziana, palestinese o siriana – ha creato frustrazione. Gli organizzatori, spesso associazioni giovanili integrate e apartitiche, si sono detti “sconcertati e delusi dalle istituzioni”. Va notato che, il giorno seguente (28 gennaio), le manifestazioni recuperate si sono comunque tenute senza incidenti, dimostrando che non c’era una minaccia concreta tale da giustificare il panico della vigilia. Tutto ciò porta i pro a concludere che l’azione del governo italiano sia stata più dettata da calcolo ideologico (allinearsi a Israele e dare un segnale alla propria base elettorale) che da reale necessità di sicurezza. Potere al Popolo, in un suo comunicato, ha definito tale approccio “fascistizzazione del dissenso”, e anche figure indipendenti – come i giuristi di Libertà e Giustizia – hanno parlato di violazione dell’articolo 21 della Costituzione (libertà di espressione).
Tale visione evidenzia che in Italia il dibattito sui cortei pro-Palestina assume contorni estremi: misure emergenziali, progetti di legge ad hoc, retorica bellicosa. Tutto ciò viene considerato come ingiustificato e pericoloso. L’Italia, già segnata da rigurgiti neofascisti in altri ambiti, rischia – dicono – di tradire la propria storia repubblicana di tutela delle libertà per compiacere interessi geopolitici. Contrastare questa deriva, per i pro, significa salvaguardare i pilastri democratici: la possibilità di manifestare il dissenso e di distinguere nettamente la critica allo Stato di Israele dall’odio antiebraico. Come ha ricordato il presidente Sergio Mattarella in occasione della Giornata della Memoria 2024, “chi ha sofferto non neghi a un altro popolo il suo diritto a uno Stato”. Molti hanno letto queste parole come un monito all’equilibrio: la memoria della Shoah impone di combattere ogni antisemitismo, ma anche di riconoscere i diritti dei palestinesi. Zittire chi manifesta per questi ultimi, allora, appare un tradimento di quello spirito di giustizia universale su cui si fonda la nostra Costituzione. La vicenda italiana, dunque, diventa paradigma di ciò che i pro temono: un uso strumentale dell’allarme antisemitismo per restringere lo spazio democratico. Resistere a tale tendenza è fondamentale per mantenere vivo il pluralismo e la libertà di manifestare nel nostro Paese.

Nina Celli, 2 ottobre 2025

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