Allarme droni nell’UE: minaccia reale?
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Nei primi giorni di settembre 2025, una serie di allarmi per droni non identificati ha preoccupato l’Europa orientale e settentrionale, sollevando interrogativi sul confine tra reale minaccia alla sicurezza e “narrativa securitaria” enfatizzata per fini politici. Nella notte tra il 9 e il 10 settembre 2025, la Polonia ha rilevato 19 droni provenienti dal confine con l’Ucraina e sconfinati nel proprio spazio aereo: alcuni sono stati abbattuti dalle difese Nato, altri precipitati o scomparsi dai radar. Varsavia ha denunciato un “atto di aggressione” di Mosca e, per la prima volta nella guerra russo-ucraina, ha invocato l’Articolo 4 Nato (consultazioni di emergenza tra alleati). Eventi simili hanno toccato i Balcani: il 13 settembre la Romania ha segnalato un drone russo nel suo spazio aereo, seguito dalla convocazione dell’ambasciatore russo e da una ferma protesta. Solo pochi giorni dopo, Il 22 settembre, droni di grandi dimensioni hanno sorvolato per ore gli aeroporti di Copenaghen e Oslo, costringendo alla chiusura dello spazio aereo e al dirottamento di decine di voli. Nei giorni 24–25 settembre 2025, la Danimarca ha segnalato nuove attività: chiusura temporanea dell’Aeroporto di Aalborg (hub anche militare) e rilevamenti notturni presso Esbjerg, Sønderborg e Skrydstrup.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Droni rudimentali e non armati sono stati presentati come minaccia imminente senza evidenze conclusive di un attacco russo deliberato.
L'incursione di droni rappresenta un campanello d’allarme concreto di una strategia russa sempre più aggressiva nei confronti dell’Europa.
L’incursione potrebbe essere una messinscena orchestrata da Kiev (con l’avallo di Varsavia) per incolpare Mosca e compattare la NATO.
L’incursione di droni è stata intenzionale: non un incidente o una “messinscena”, ma un test di determinazione ai danni dell’Alleanza.
L’allarme droni viene utilizzato dai governi UE per giustificare spese militari straordinarie e misure emergenziali.
Negare la minaccia perché non ci sono state vittime è un errore di prospettiva: prevenzione efficace significa proprio evitare che l’evento diventi letale.
Un missile “amico” polacco ha probabilmente causato i danni di Wyryki. Ciò dimostrerebbe la fragilità della versione ufficiale e la necessità di trasparenza.
L’UE e l’Alleanza devono sviluppare rapidamente contromisure dedicate (droni intercettori, sistemi a basso costo) e investire nel “scudo drone” sul fianco Est.
Dal punto di vista filorusso, l’allerta droni rientra in una campagna di demonizzazione anti-Russia orchestrata dai media occidentali.
I droni sono una “minaccia fantasma” usata per alimentare paure e spese militari
I critici dell’allarme droni sostengono che esso faccia parte di una narrativa securitaria strumentale, costruita per dipingere la Russia come un pericolo imminente a tutta l’Europa, anche in assenza di prove concrete di un attacco deliberato. Il fulcro di questa tesi è che l’episodio dei droni sul fianco orientale sarebbe stato gonfiato nei toni e nelle interpretazioni, diventando un vero casus belli mediatico più che fattuale. In primo luogo, si osserva che i droni Geran/“Gerbera” entrati in Polonia erano apparecchi di bassa tecnologia, tipicamente usati come esche o ricognitori e privi di testate esplosive. Le analisi tecniche condotte sui rottami recuperati a Lublino hanno confermato l’assenza di esplosivi o di carichi militari su questi droni. Ciò contraddice la narrazione di un “attacco” in senso stretto: si è trattato piuttosto di sistemi ultraleggeri (costruiti in polistirolo e materiali economici) capaci al massimo di cadere al suolo come detriti, ma non di provocare distruzioni mirate. In altre parole, non erano missili né UAV armati: la loro capacità offensiva reale era pressoché nulla, come sottolineato anche da analisti indipendenti e media alternativi.
Nonostante ciò, media e governi occidentali hanno sin da subito narrato l’incidente in termini allarmistici, parlando di “atto di aggressione” e puntando il dito contro Mosca ben prima di avere riscontri oggettivi. L’attribuzione di colpa immediata alla Russia viene vista come parte di un “rito” narrativo: “non esistono prove inequivocabili, ma il colpevole è già stato designato, ovviamente la Federazione Russa”, ha commentato ironicamente la portavoce russa Zakharova.
Fonti critiche notano come nessun frammento mostrato pubblicamente riporti numeri di serie o componenti che colleghino senza dubbio quei droni all’arsenale di Mosca. Perfino la traiettoria resta incerta: se i droni fossero partiti dalla Russia, avrebbero dovuto volare per centinaia di chilometri senza essere intercettati, cosa ritenuta “tecnicamente improbabile” da più osservatori (anche alla luce del raggio operativo limitato di quei modelli). Eppure, la “cornice mediatica” dominante ha ignorato queste incertezze: le testate mainstream hanno dipinto un quadro netto di un’aggressione in atto, contribuendo – secondo questa tesi – a rafforzare un clima di paura nell’opinione pubblica europea. Si tratterebbe di un esempio di “securitizzazione”: un evento dall’impatto militare relativamente limitato viene elevato a minaccia esistenziale, giustificando misure straordinarie in nome della sicurezza.
I fautori di questa linea richiamano inoltre precedenti recenti che invitano alla prudenza. Emblematico il caso del missile caduto a Przewodów nel 2022: inizialmente due civili polacchi morirono per un’esplosione subito attribuita a un razzo russo vagante, con conseguente panico internazionale; solo dopo emerse che si trattava quasi certamente di un missile antiaereo ucraino difettoso. In quell’occasione vari governi e media furono lenti nel correggere la narrativa antirussa e il governo polacco dell’epoca fu accusato di scarsa trasparenza. I critici vedono un parallelismo: anche oggi, di fronte ai droni precipitati (per lo più senza vittime né danni gravi), la reazione occidentale sarebbe stata immediata e univoca nel puntare il dito contro Mosca, ricalcando quasi un copione. Il quotidiano “Il Manifesto” ha evidenziato come i ruoli si siano invertiti in Polonia: il presidente Nawrocki (conservatore) stavolta chiede chiarezza sull’abbattimento accidentale di un proprio missile a Wyryki, mentre il premier Tusk (liberale) minimizza l’errore e insiste a incolpare solo la provocazione russa. Questo genere di “duello narrativo” interno, secondo i pro, rivela quanto la gestione dell’informazione sia parte integrante dell’evento droni.
Un elemento centrale di questa visione è che l’allarme droni sia stato strumentalizzato politicamente in Occidente. Sin dai primi istanti, leader europei e atlantici hanno usato l’episodio per promuovere l’unità militare e stanziare risorse aggiuntive. Ad esempio, la Commissione UE ha subito rilanciato il progetto di un “Eastern Shield” – 700 km di barriere, fortificazioni e difese anti-drone ai confini orientali – e in parallelo la Polonia ha sbloccato 43,7 miliardi di euro del programma SAFE per potenziare il proprio arsenale antiaereo e di artiglieria. Queste misure, osservano i critici, erano probabilmente discusse da tempo, ma hanno trovato nell’incidente un volano per ottenere consenso e finanziamenti. La narrazione di un’Europa “sotto assedio dei droni nemici” permette di canalizzare risorse pubbliche verso la difesa e di “serrare i ranghi” della cittadinanza attorno ai governi, distogliendo magari l’attenzione da altri problemi. “Non si tratta soltanto di sicurezza: è un meccanismo che consente di… consolidare consenso politico” – si legge testualmente nell’inchiesta de “L’Indipendente”, riferendosi alle forti spese approvate sull’onda emotiva. Anche “La Città Futura” sostiene che il “drone show” sia servito a “presentare la nazione polacca come minacciata da una potenza ostile e giustificare nuove forniture militari e spese straordinarie”.
I sostenitori di questo punto di vista accusa i governi euro-atlantici di alimentare una percezione d’insicurezza più alta della minaccia effettiva, al fine di spingere l’opinione pubblica ad accettare misure emergenziali (dal dispiegamento di truppe aggiuntive alla frontiera est fino alle sanzioni economiche più dure) come se fossero inevitabili. Sottolineano l’aspetto della guerra dell’informazione e della propaganda reciproca. Nella loro ottica, l’allarme droni in UE rientra in un contesto di psy-ops e spin narrativi: la Russia, dal canto suo, nega ogni responsabilità e parla di “miti diffusi dalla Polonia per aggravare la crisi”, mentre l’Ucraina e la Nato lo qualificano come ennesima prova dell’aggressività russa. La verità potrebbe giacere in una zona grigia – ad esempio, non viene esclusa l’ipotesi che quei droni siano effettivamente partiti dall’Ucraina, ma non in un complotto ordito da Kiev, bensì come conseguenza collaterale di contromisure elettroniche o errori umani. Minsk ha affermato di aver tracciato droni “usciti di rotta per jamming” e di aver persino avvisato i polacchi, un dettaglio confermato da fonti polacche stesse. Ciò potrebbe indicare che l’evento è nato sul confine ucraino-bielorusso in modo confuso, ma è stato poi incanalato in una narrativa bellica semplificata (Russia vs Nato). Emblematiche in tal senso le parole del professor Strazzari: “Quale sia stato il grado effettivo di minaccia sfugge a un dibattito trasparente, essendo materia di comunicazione strategica tra le parti”. I sostenitori, pur provenendo da ambienti diversi – dal giornalismo indipendente alle frange filorusse – convergono dunque sull’idea che l’allarme droni nell’UE sia in larga misura un prodotto narrativo, un “pericolo fantasma” enfatizzato allo scopo di consolidare un fronte securitario interno e di legittimare ulteriori passi di escalation politico-militare.
Nina Celli, 28 settembre 2025
Violazione grave da parte russa: la sicurezza europea è sotto attacco
Gli esponenti di questa posizione respingono l’idea che l’allarme droni sia frutto di esagerazione o complotto: al contrario, affermano che esso rappresenti un campanello d’allarme concreto di una strategia russa sempre più aggressiva nei confronti dell’Europa. Secondo questa tesi, ciò che è avvenuto ai primi di settembre 2025 è un fatto senza precedenti che conferma la volontà di Mosca di sfidare direttamente la NATO, seppur in modo calibrato. La Polonia e la Romania – due Stati membri – hanno visto i propri cieli violati da apparecchi lanciati durante operazioni belliche russe; ciò costituisce inequivocabilmente una violazione della sovranità nazionale e dello spazio euro-atlantico. La stessa Unione Europea, attraverso una dichiarazione ufficiale, ha definito l’incursione del 10 settembre “un’aggressione intenzionale… parte di una grave escalation” da parte della Russia, sottolineando che minaccia la sicurezza dei cittadini UE e la pace internazionale. Già questa condanna istituzionale chiarisce come il fronte occidentale percepisca l’episodio non come un semplice incidente o un diversivo propagandistico, ma come un atto ostile che richiede risposte serie.
Un primo argomento portato da questo fronte d’opinione è che i droni abbattuti sul territorio polacco erano effettivamente di provenienza russa e parte di un attacco coordinato. Non si trattava di misteriosi “oggetti” dall’origine incerta: “Reuters”, “BBC” e altre testate globali hanno confermato, nelle ore successive, che quei droni erano legati al massiccio attacco russo lanciato contemporaneamente sull’Ucraina occidentale (415 droni Shahed e 40 missili, ha riferito la “BBC”). Il Ministero della Difesa bielorusso – sebbene alleato di Mosca – ha implicitamente ammesso che droni russi hanno perso la rotta oltre confine a causa di disturbi elettronici, proponendosi persino di condividere i tracciati con la Polonia. La stessa NATO, pur con prudenza, ha riconosciuto che c’è stata una violazione del territorio alleato: “Indipendentemente dal fatto che le azioni della Russia siano state deliberate o meno, la Russia ha violato lo spazio aereo Nato”, ha dichiarato l’Alleanza. Per i sostenitori di questa visione, questo è il punto dirimente: un confine NATO è stato oltrepassato da velivoli legati a un’operazione militare russa. In Diritto internazionale ciò costituisce un atto illegale e potenzialmente un casus belli se considerato intenzionale. “Se uno Stato terzo lancia droni (armati o meno) nello spazio aereo di un membro NATO senza autorizzazione, sta compiendo una provocazione estremamente pericolosa” – ha commentato la presidente estone Kaja Kallas, parlando di ennesima violazione inaccettabile. Dunque, negare la gravità dell’accaduto, secondo questa tesi, equivarrebbe a minimizzare un chiaro tentativo russo di intimidazione verso l’Europa.
Un secondo asse argomentativo riguarda la deliberatezza e lo scopo di tale incursione. Le autorità polacche sono convinte (e hanno convinto gli alleati) che non possa essersi trattato di un errore: “Defies imagination che sia accidentale con 19 droni” – ha dichiarato Radek Sikorski, influente eurodeputato ed ex ministro polacco. Un conto sarebbe stato uno sconfinamento di 1-2 droni isolati per un guasto, altro è uno sciame di quasi venti UAV penetrato per decine di chilometri e rimasto nei cieli polacchi per oltre 6 ore. Questo tipo di profilo non è compatibile con la mera casualità: appare semmai come un’operazione coordinata. Lo scenario delineato dagli esperti occidentali – come Edward Arnold del RUSI – è che Putin abbia voluto “testare la determinazione NATO” con un passo azzardato ma calibrato. In altre parole, l’incursione di droni sarebbe un modo per studiare le difese occidentali: quali radar li individuano, quanto tempo impiegano i caccia ad alzarsi in volo, fino a che punto la NATO reagisce politicamente (invocazione di Art.4, ecc.) senza però oltrepassare la soglia di un conflitto aperto. Questa tattica rientrerebbe nel concetto di guerra ibrida: azioni ostili sotto la soglia convenzionale, che creano confusione e saggiano i limiti dell’avversario. Proprio per questo, i sostenitori di questa tesi reputano pericolosissimo sottovalutare l’episodio: se la Russia nota indecisione o minimizzazione da parte occidentale, potrebbe spingersi oltre la prossima volta, ad esempio sconfinando con droni armati o colpendo deliberatamente infrastrutture in territorio UE. “L’incidente dimostra che la deterrenza convenzionale sta raggiungendo i suoi limiti” – scrive il generale Caruso – “Putin sta testando la nostra reazione spendendo poche migliaia di dollari”. La NATO stessa ha riconosciuto la necessità di reagire sul piano militare: ha delegato più autorità tattica ai comandi sul campo (per rispondere più rapidamente) e lanciato l’operazione Eastern Sentry per pattugliare con continuità il fianco orientale. Tutto ciò, per i fautori di questa tesi, conferma che l’Alleanza prende molto sul serio la minaccia e che questa non sia un semplice “teatro”.
Un aspetto tangibile evidenziato è l’impatto pratico già avuto dai droni ostili sul suolo UE. La chiusura temporanea di quattro aeroporti polacchi, inclusa Varsavia-Chopin, ha causato ritardi e disagi notevoli e ha mostrato che perfino l’hub di Rzeszów – cruciale base logistica NATO per gli aiuti all’Ucraina – ha dovuto fermarsi per sicurezza. Pochi giorni dopo, la scena si è ripetuta in due capitali nordiche: gli aeroporti di Copenhagen e Oslo bloccati per ore, oltre 150 voli tra cancellati e deviati, migliaia di viaggiatori a terra. Questo mette in luce un fatto: anche droni non armati possono paralizzare infrastrutture civili e provocare danni economici. Il solo sorvolo di UAV sopra piste e impianti costringe per protocollo a bloccare il traffico aereo per evitare rischi di collisione. Il capo dei servizi danesi ha definito quella dei droni una minaccia di sabotaggio concreta: tre o quattro UAV coordinati possono chiudere un aeroporto internazionale e “questo dice molto sui tempi in cui viviamo” (M. Frederiksen). Questi episodi confermano, secondo questo fronte, che non si tratta affatto di “farsa” o simulazione innocua: la sicurezza collettiva europea è vulnerabile a tali azioni. Le centrali elettriche, i gasdotti sottomarini, le reti ferroviarie – tutte infrastrutture critiche – potrebbero essere spiate o disturbate da droni avversari in futuro, come del resto si sospetta sia avvenuto in passato (ad esempio i misteriosi droni avvistati attorno alle piattaforme petrolifere norvegesi nel 2022). Minimizzare oggi equivarrebbe a esporsi domani. Non a caso, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha dichiarato che questo incidente “rafforza la nostra risolutezza” nel sostenere l’Ucraina e spingere per ulteriori sanzioni contro Mosca. Il messaggio: la sicurezza dei cittadini UE è minacciata finché la Russia prosegue la sua aggressione.
Dal punto di vista tecnico-militare, questo punto di vista riconosce che i droni impiegati erano modelli a basso costo, ma invece di considerarli irrilevanti li interpreta come un campanello d’allarme sulle difese NATO. L’episodio ha infatti mostrato che la NATO, pur riuscendo ad abbattere vari droni (con l’aiuto determinante di caccia alleati come gli F-35 olandesi), ha dovuto impiegare per farlo armi costosissime: missili aria-aria AIM-9X da 400 mila dollari l’uno contro droni da poche migliaia. Questa asimmetria crea una vulnerabilità strategica che la Russia potrebbe sfruttare intensificando attacchi di saturazione. Dunque, lungi dall’essere una “messa in scena”, l’incursione ha esposto limiti strutturali nella postura difensiva occidentale che vanno corretti con urgenza. Ciò spiega perché, secondo i fautori di questa tesi, l’UE abbia immediatamente messo in cantiere nuove contromisure: dal potenziamento dei sistemi anti-drone (acquisizione di droni intercettori ucraini, cannoni antiaerei a corto raggio ecc.) alla creazione di una rete integrata di sorveglianza aerea sul confine orientale (il cosiddetto “muro di droni” evocato da von der Leyen e sostenuto dall’Agenzia EMSA). In altre parole, l’allarme droni non viene affatto considerato un fuoco fatuo propagandistico, ma al contrario sta spingendo la NATO a innovarsi e rafforzarsi – segno che la minaccia è ritenuta concreta. Esperti come il gen. Breedlove (ex SACEUR) hanno commentato che la NATO deve “pensare come Putin” e investire in difese a basso costo e delega decisionale rapida, altrimenti questi test russi continueranno a metterla in difficoltà.
Un altro pilastro di questa tesi riguarda la delegittimazione delle narrazioni complottiste sul tema. Mentre alcuni segmenti di opinione diffondono la teoria della “false flag” ucraina, gran parte degli osservatori indipendenti la considera un’operazione di disinformazione orchestrata da Mosca per confondere le acque. Organizzazioni di fact-checking e media autorevoli hanno smontato tali affermazioni punto per punto. “Euronews” e “Open” hanno dimostrato come la storia dell’“Ucraina che assembla droni finti” sia partita da canali Telegram pro-Cremlino e sia stata copiata e incollata su vari social senza alcuna fonte verificabile. Inoltre, dati tecnici concreti – come la corrispondenza delle matricole dei motori e dei circuiti rinvenuti – confermano la fabbricazione russa dei droni caduti in Polonia. Le autorità polacche, dal canto loro, hanno ribadito di non aver alcun dubbio sul fatto che i droni facessero parte di un attacco russo in corso e non di una macchinazione esterna: “Erano deliberatamente puntati su di noi, non droni vaganti” ha chiarito Varsavia. Alimentare dubbi infondati su chi abbia lanciato i droni è pericoloso e fuorviante: significa fare il gioco della propaganda russa, che vuole scaricare la colpa sull’Ucraina per rompere la solidarietà occidentale. D’altra parte, notano come la Russia stessa non abbia fornito alcuna prova a discolpa (se fosse stata innocente, perché rifiutare la proposta polacca di un’indagine congiunta, preferendo negare genericamente?). La presenza di membri NATO come la Romania tra gli Stati colpiti toglie inoltre credibilità alle teorie di complotto antirusso: Bucarest non avrebbe interesse a inscenare droni russi sul proprio territorio, eppure ha subìto analoghe intrusioni a settembre e conferma di aver trovato rottami compatibili con Shahed fabbricati da Mosca. In sostanza, la tesi afferma che la spiegazione più logica è anche la più lineare: la Russia – impegnata in un attacco massiccio all’Ucraina – ha deliberatamente spinto alcuni droni oltre confine per provocazione o errore calcolato. Creare arzigogolate ipotesi alternative serve solo a distogliere l’attenzione dalla responsabilità russa.
Il fronte di questa tesi sottolinea la risposta ferma e coesa data dall’Occidente come prova che l’allarme droni è reale e viene preso sul serio. Nel giro di poche ore, la Polonia ha attivato l’Articolo 4 NATO (evento rarissimo: solo sette volte dal 1949 prima di allora), ottenendo l’unanime solidarietà degli alleati – persino il notoriamente filorusso Viktor Orbán ha espresso sostegno, gesto definito “insolitamente solidale”. La NATO ha mostrato unità e prontezza: caccia USA (F-35) e di altri paesi erano già schierati in Polonia e hanno contribuito all’abbattimento dei droni, mentre nel giro di 48 ore Francia e Svezia hanno promesso e inviato ulteriori jet da combattimento e sistemi antiaerei per blindare il cielo polacco. Questa reazione non sarebbe stata così vigorosa se si fosse percepito l’episodio come una “farsa” o un falso allarme. Al contrario, i leader hanno parlato con gravità: il presidente italiano Mattarella ha avvertito del rischio di “scivolare in un baratro di violenza incontrollata” paragonando la situazione ai meccanismi del 1914, e persino Trump (dopo qualche esitazione iniziale) ha acconsentito a misure di deterrenza economica straordinarie. Tutto questo indica che l’Occidente considera l’allarme droni parte di un confronto molto serio con la Russia, da affrontare con determinazione. L’idea che l’allerta sia “costruita” crolla di fronte alla realtà dei fatti: ci sono violazioni, ci sono rischi concreti e vanno affrontati, pena mostrarsi deboli di fronte a un attore – il Cremlino – che storicamente avanza dove sente vacillare la resistenza. Dunque, l’allarme droni in UE non è affatto frutto di un’isteria immotivata, bensì la risposta necessaria e proporzionata a un’offensiva ibrida russa che minaccia progressivamente la sicurezza continentale e che solo mantenendo alta la guardia (sul piano militare, diplomatico e informativo) l’Europa potrà evitare esiti ben peggiori.
Nina Celli, 28 settembre 2025
Siamo di fronte a False flag e propaganda di guerra
I sostenitori di questa tesi ritengono che l’“allarme droni” sia stato in parte costruito attraverso narrazioni orchestrate o amplificate, fino a includere ipotesi di false flag. Il cuore dell’argomento non è “dimostrare” un complotto—che per definizione sarebbe difficilmente verificabile—ma evidenziare pattern comunicativi ricorrenti: immediata attribuzione di responsabilità a Mosca, assenza di evidenze tecniche pubbliche univoche (seriali, componenti tracciabili) e forte sincronia mediatica su frame allarmistici. Secondo questa lettura, la circolazione a specchio di contenuti identici su social e canali di area filorussa o filo-atlantista mostrerebbe che entrambi i fronti operano in un ecosistema informativo polarizzato, inclinato alla “guerra cognitiva”: prima si fissa la narrativa, poi si cercano i riscontri.
In questo contesto proliferano le ipotesi “speculari”: chi è scettico verso l’Occidente suggerisce che Kiev o Varsavia possano aver messo in scena incursioni con droni-esca, così da cementare l’unità NATO e sbloccare nuovi aiuti; al contrario, chi è scettico verso la Russia vede un test deliberato del Cremlino, magari progettato per forzare la NATO a consumare munizionamento costoso. Entrambe le versioni hanno un elemento in comune: strumentalità politica. A prova della permeabilità del discorso pubblico, citano i casi in cui ipotesi azzardate diventano, per qualche ora, “spiegazioni” riprese da talk show e post virali; oppure i casi in cui smentite tardive (perizie tecniche, rettifiche) non recuperano l’effetto d’opinione già generato.
A livello tattico, questa teoria insiste sul fatto che droni rudimentali e non armati abbiano capacità soprattutto psicologiche: sorvoli che non colpiscono nulla, ma impongono reazioni (chiusure aeroporti, scramble di caccia, allarmi per i cittadini). In un ecosistema mediatico che premia l’eccezionale, basta il rumore comunicativo per ottenere l’effetto politico: sostegno a misure di emergenza, spese straordinarie, centralizzazione decisionale in nome della sicurezza. Il precedente del missile del 2022 in Polonia, prima attribuito alla Russia e poi riassegnato all’Ucraina, è un monito: l’errore di attribuzione è sempre possibile in tempo reale; per questo, gonfiare subito una pista rischia di essere parte di un ciclo securitario autoalimentato.
La retorica della “finestra di escalation” è funzionale a molte agende: governi che cercano coesione interna, opposizioni che vogliono mettere in difficoltà l’esecutivo, attori esterni interessati a spostare l’attenzione o i costi. Se l’obiettivo—da una parte o dall’altra—è influenzare la postura dell’UE (più sanzioni, più difesa, più prudenza, più compromesso), allora l’“allarme droni” diventa una leva narrativa tanto quanto un fatto militare. Il punto, dunque, non è negare la possibilità di intrusioni reali, ma mostrare come la loro rappresentazione costituisca una strategia comunicativa che precede e condiziona la valutazione tecnica, con esiti politici prevedibili: paura, chiusura dello spazio pubblico al dissenso, priorità di bilancio rimodulate a favore della difesa.
Nina Celli, 28 settembre 2025
I droni sono usati dalla Russia per testare la NATO
Secondo alcuni analisti, l’incursione di droni è stata intenzionale: non un incidente o una “messinscena”, ma un test di determinazione ai danni dell’Alleanza. A sostegno, si citano tre pilastri. Innanzitutto, la scala: non 1-2 unità, ma uno sciame nell’ordine delle decine, con sorvolo prolungato e su aree multiple – profilo difficilmente conciliabile con la casualità. Poi, la sincronia con attacchi in Ucraina: gli UAV oltreconfine rientrerebbero in una matrice tattica (saturazione, diversione, raccolta segnali) che integra fronte ucraino e pressione psicologica sul fianco NATO. Infine, il pattern storico: dal 2022 in poi, incursioni aeree, marittime e cyber sono aumentate lungo il confine Est. I droni sarebbero solo l’ultima declinazione a basso costo.
Questa lettura è coerente con la dottrina russa di guerra ibrida: iterare azioni sottosoglia che complicano il calcolo costi/benefici per l’avversario. Se la NATO reagisce timidamente, il Cremlino “apprende” che può spingersi oltre (più droni, magari armati, o obiettivi sensibili in territorio UE). Se reagisce in modo robusto, Mosca registra tempi e modalità di risposta. In entrambi i casi la Russia estrae valore informativo. Per i contrari, l’unica risposta razionale è trattare l’episodio come ostile e attuare misure—tecniche e politiche—che alzino il prezzo di future provocazioni: pattuglie aeree continue, regole d’ingaggio più snelle, intercettori a basso costo e coerenza comunicativa.
Un’obiezione ricorrente è che gli UAV fossero rudimentali e non armati. I contrari rispondono che è irrilevante: lo scopo non era la distruzione, ma il segnale. Droni economici costringono la NATO a spese sproporzionate e a decisioni politiche. Inoltre, anche droni “vuoti” possono provocare danni indiretti: chiusure aeroportuali, disagi economici, rischi di collisione. L’episodio scandinavo con scali temporaneamente paralizzati dimostra che un attore capace può, con pochi mezzi, creare interruzioni significative.
In termini politico-diplomatici, la condanna ufficiale UE e l’attivazione dell’Art. 4 NATO non sono slogan: sono segnali istituzionali che l’episodio viene trattato come violazione seria. Minimizzare oggi, secondo i contrari, corrode la deterrenza: se l’aggressore percepisce ambivalenza o disaccordo interno, tenderà a testare ancora. Dunque, la chiave di lettura meno rischiosa, prudente ma ferma è quella di riconoscere l’ostilità del gesto, rafforzare i dispositivi, mantenere unità politica per evitare prossime soglie più pericolose.
Nina Celli, 28 settembre 2025
La sproporzione della reazione mostra una securitizzazione strumentale in Occidente
Gli allarmi droni sono stati incardinati in una più ampia logica di securitizzazione: un processo per cui un tema viene presentato come minaccia esistenziale, giustificando misure eccezionali. Gli indicatori principali sono le tempistiche serrate tra incidente e annunci politici (nuove missioni di sorveglianza aerea, “scudi” anti-drone, rafforzamenti al confine Est); l’enfasi su metafore belliche (“atto di aggressione”, “attacco più grave”), anche quando i danni materiali sono marginali; lo scarso dettaglio tecnico reso pubblico su rotta, payload, componenti dei droni, con invito a “fidarsi” della versione ufficiale; il ricorso a figure retoriche della eccezionalità (“mai visto prima”, “soglia storica”), spesso slegate da riferimenti chiari.
Secondo questa visione, il dividendo politico della securitizzazione è duplice. Sul piano interno, essa compatta la maggioranza sulla scia del “pericolo esterno” e riduce lo spazio del dissenso. Sposta il baricentro del dibattito dalle politiche sociali a quelle di difesa, legittima coperture di spesa e accelerazioni procedurali (acquisti militari, norme speciali su sorveglianza e interdizione del volo civile). Sul piano europeo, crea coesione verticale (Commissione, Stati ecc.) e orizzontale (tra membri), attenuando frizioni su altri dossier. La comparsa, a ridosso degli incidenti, di proposte come “scudo orientale” e piani anti-drone transfrontalieri viene letta come segno che agenda e cornice fossero pronte e l’evento abbia fornito la “finestra di policy”.
Non si nega che vi sia una minaccia (la guerra in Ucraina esiste) ma contestano la proporzionalità delle reazioni comunicative, che rischiano di ipostatizzare la minaccia: da evento circoscritto a stato permanente di emergenza. In questa dinamica, il cittadino è soprattutto spettatore di un racconto in cui la tecnica (radar, EW, intercettazioni) diventa magia nera non sindacabile. Un presidio democratico richiederebbe standard minimi di trasparenza (dati tecnici anonimizzati, report indipendenti, audit parlamentari), così da bilanciare sicurezza e responsabilità.
Sul versante economico, la securitizzazione porta a un compromesso: sistemi costosi (missili, CAP prolungate) impiegati contro UAV low-cost generano un differenziale insostenibile; la “risposta forte” alimenta la narrativa avversaria (“l’Occidente spreca risorse”), mentre soluzioni a basso costo faticano a scalare per ragioni industriali. Il rischio è un blocco tecnologico in cui l’emergenza giustifica scelte poco efficienti, ma politicamente spendibili. Dunque, la securitizzazione è performativa: crea la realtà che descrive, e andrebbe temperata con verifiche ex post sulla qualità delle decisioni prese “a caldo”.
Nina Celli, 28 settembre 2025
I droni sono una minaccia reale alle infrastrutture critiche
Anche senza esplosivi, le intrusioni pongono infrastrutture critiche (aeroporti, nodi logistici militari, reti energetiche) in condizione di vulnerabilità. Protocolli di sicurezza impongono, alla sola presenza di UAV non identificati, chiusure e dirottamenti. Questa non è propaganda, è gestione del rischio. Così, tre o quattro droni coordinati possono bloccare per ore uno scalo internazionale, con ricadute economiche e disservizi che si misurano in milioni, oltre a esporre forze dell’ordine e traffico civile a situazioni di pericolo.
Gli hub militari e logistici (centri di smistamento aiuti all’Ucraina, basi di pattugliamento) sono obiettivi ad alto valore. I droni OSINT-aware possono mappare pattern operativi (orari, piste, convogli), alimentando l’intelligence avversaria. La minaccia non è “cinematografica”, è cumulativa: ogni intrusione, anche piccola, produce dati e stressa protocolli. In prospettiva, l’attore ostile può ibridare l’effetto: abbinare un drone innocuo (per fissare l’allarme e saturare risorse) a sabotaggio cyber o interferenze GNSS, massimizzando impatti con costi minimi.
Da qui la richiesta, da parte di alcuni, di investimenti rapidi in counter-UAS di prossimità: radar a corto raggio, RF-sensing, jammer direzionali, cannoncini a fuoco controllato, reti e droni-killer. In parallelo, occorre una cornice regolatoria che chiarisca chi ingaggia cosa sopra siti sensibili, con canali dedicati tra torri di controllo, forze di polizia, militari e gestori di infrastrutture.
Negare la minaccia perché non ci sono state vittime è un errore di prospettiva: prevenzione efficace significa proprio evitare che l’evento diventi letale. Il fatto che, sinora, gli episodi si siano conclusi con danni limitati non delegittima le misure; al contrario, suggerisce che protocolli e reazioni hanno funzionato. La lezione operativa è che è necessario alzare la soglia tecnica minima contro UAV low-cost e consolidare prontezza e coordinamento per riduce lo spazio di manovra di chi intenda usare i droni come leva di disturbo o ricognizione ostile.
Nina Celli, 28 settembre 2025
Sulle incursioni aeree, ci sono precedenti ambigui e dubbi investigativi
Alcuni esperti richiamano precedenti che invitano alla prudenza. Il caso del missile su Przewodów (2022) è il simbolo: la prima attribuzione pubblica fu alla Russia, poi corretta (probabile missile ucraino antiaereo). La lezione è che i teatri complessi generano errori di comprensione della situazione reale e comunicazione. Fissare un colpevole in tempo reale è comprensibile sul piano politico, ma rischioso sul piano della verità fattuale.
Nel caso dei droni, la catena di eventi è intrinsecamente ambigua: droni economici e leggeri, possibile interferenza EW, sovrapposizione di missioni (NATO e difese nazionali), frammenti caduti su aree abitate. In un simile contesto, risultati investigativi parziali (o in divenire) non sono una cospirazione, sono la normalità, per via di radar con risoluzioni diverse, tracciati incompleti, videosorveglianza non omogenea. L’emersione di elementi contraddittori – come l’ipotesi del missile “amico” che abbia causato danni in Polonia durante l’intercettazione – suggerisce che la ricostruzione definitiva richiede tempo e cooperazione tra procure, aeronautiche e alleati.
Alcuni contestano quindi l’automatismo argomentativo: “se l’UE e la NATO reagiscono, allora la colpa è certa”. La reazione politico-militare risponde a rischi, non necessariamente a certezze probatorie. Normativamente è corretto (meglio prevenire), ma comunicativamente può scivolare in presunzione d’intenzionalità. La Bielorussia che segnala droni fuori rotta per jamming è un dato anomalo: se l’operazione fosse un test deliberato russo coordinato con Minsk, perché condividere informazioni con Varsavia? La spiegazione più sobria è che più eventi (attacco russo in Ucraina, misure EW, intercettazioni NATO) si siano sovrapposti, producendo un esito confuso poi trasformato in frame lineare (“atto d’aggressione”).
L’unico antidoto a questa confusione è la trasparenza ex post. Pubblicare report tecnici declassificati, consentire audizioni di tecnici indipendenti, distinguere dati accertati da ipotesi operative. Tutto ciò riduce il rischio che la sfera politica sovrasti quella tecnica. Finché questo non avviene, parlare di narrativa securitaria non è negazionismo del rischio, ma difesa di una metodologia: accertare prima, attribuire poi.
Nina Celli, 28 settembre 2025
Le incursioni impongono un rafforzamento delle difese anti-drone
Gli allarmi droni sono parte di un mosaico più ampio che implica violazioni aeree nel Baltico, episodi sospetti su piattaforme energetiche, cyberattacchi e campagne di disinformazione. Il filo conduttore è spingere l’Europa a vivere in un clima di incertezza, aumentare i costi di difesa e dividere gli alleati. I droni sono lo strumento ideale: sono economici, facili da negare e capaci di provocare effetti a catena – dai ritardi aerei all’ansia sociale.
Considerare l’episodio come pura narrativa è ingenuo: la confusione è parte integrante della strategia russa, che usa l’ambiguità come arma. Combattere questa guerra “ibrida” significa trattare anche la comunicazione come un campo di battaglia, con messaggi coerenti e attribuzioni rapide ma prudenti. Bisogna inoltre prevedere risposte graduali: ogni nuova violazione deve avere un costo crescente.
Sul piano interno, si propongono misure di resilienza: piani locali anti-drone, educazione dei cittadini per ridurre il panico, contrasto alle campagne di disinformazione. Sul piano esterno, serve coordinamento stretto con Kiev, che ha acquisito esperienza diretta nella difesa. La logica è quella della prudenza asimmetrica: meglio rischiare di sovrastimare la minaccia che sottovalutarla. Solo così si può spezzare il ciclo di provocazioni.
L’incidente dei droni ha mostrato un problema di fondo: l’Europa ha usato armi costosissime per neutralizzare velivoli dal valore irrisorio. È una vittoria tattica, ma una sconfitta strategica. Se Mosca può produrre droni a basso costo in quantità, costringerà la NATO a consumare risorse sproporzionate. Per evitarlo, servono tre azioni. Primo: potenziare la tecnologia, affiancando ai grandi radar sistemi più semplici e poco costosi (telecamere, sensori radio, artiglierie leggere, disturbatori elettronici) che possano abbattere i droni senza mandare in volo caccia da milioni di euro. Secondo: snellire le procedure, permettendo alle unità sul campo di reagire rapidamente senza attendere ordini complessi ed esercitarsi su scenari realistici, con sciami di droni o satelliti che ingannano i sistemi GPS. Terzo: proteggere gli spazi civili – aeroporti, porti, centrali – con piani dedicati, stabilendo chi deve intervenire e con quali strumenti.
Alcuni esperti sostengono che non è allarmismo, ma buon senso: il drone è un’arma economica e adattabile, e quindi occorre una risposta capillare e flessibile. Servono programmi europei comuni di ricerca e sviluppo, prove pratiche e regole rapide per introdurre nuove soluzioni. Così la difesa non diventa solo un “tappabuchi” ma un investimento efficiente. Inoltre, importante spiegare ai cittadini perché e come vengono spese risorse: rendere chiaro, per esempio, che acquistare batterie leggere di cannoni significa risparmiare milioni in missili. La difesa dai droni deve essere vista come un bene pubblico, che serve a tutti e indipendentemente dalla geopolitica: riduce la vulnerabilità e rende più sostenibile la risposta. L’incidente, dunque, ha insegnato cosa non fare (sprecare missili su droni economici) e cosa fare (costruire una rete di difese diffuse, economiche e locali).
Nina Celli, 28 settembre 2025
La reazione occidentale ha l’obiettivo di demonizzare Mosca e alimentare una guerra psicologica
L’allarme droni si inserisce in una cornice comunicativa che presenta la Russia come una minaccia continua e totalizzante. Non si tratta solo di condanna politica, ma di una rappresentazione che trasforma ogni episodio ambiguo in segnale di aggressione. Questo produce due effetti: da un lato divide l’opinione pubblica in blocchi contrapposti, dall’altro rende accettabili misure straordinarie come nuove sanzioni, restrizioni di volo e spese militari eccezionali.
Gli scettici osservano che lo stesso meccanismo si ritrova nei media russi: ogni allarme in Europa è liquidato come “isteria”. Così entrambe le parti usano la paura come strumento politico. Inoltre, notano che il profilo dei droni caduti in Polonia e Romania – velivoli leggeri, spesso senza esplosivo, precipitati in zone rurali – non corrisponde all’immagine di “attacco gravissimo”. Se davvero l’intenzione fosse stata colpire, perché non impiegare mezzi più efficaci? L’ipotesi più plausibile è che il valore dei droni sia stato soprattutto psicologico: spingere l’Europa a reagire in modo sproporzionato.
In questa lettura, etichette forti come “atto di aggressione” o “mai visto prima” finiscono per consolidare uno stato di emergenza permanente. Ciò serve alla politica interna – che si presenta come baluardo di fronte al pericolo – e all’industria della difesa, che ottiene commesse rapide. Condannare l’invasione russa non significa automaticamente accettare ogni narrativa emergenziale: serve rigore nelle prove e cautela nel linguaggio. La vera guerra psicologica è riuscire a indurre l’avversario – e noi stessi – a vivere costantemente nella paura.
Nina Celli, 28 settembre 2025