Nr. 380
Pubblicato il 08/08/2025

L’economia USA beneficerà della politica economica di Trump

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Al di là delle aliquote e dei codici doganali, le tariffe sulle importazioni evocano confini come strumenti di difesa economica, scelte che – almeno nelle intenzioni – dovrebbero proteggere il lavoro nazionale dall’invasione del mondo globalizzato. Non è un caso che Donald Trump, nell’aprile 2025, nel presentare la sua nuova ondata di dazi doganali, abbia parlato di “sovranità riconquistata”, di “onestà commerciale” e di “una nuova era americana”. Ma quella dei dazi non è una novità, e nemmeno un’esclusiva trumpiana. È piuttosto una ciclica tentazione della politica economica americana, che riemerge nei momenti di crisi, incertezza o declino percepito.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - I dazi di Trump stanno portando una rinascita dell’industria americana

La manovra doganale non è una regressione, bensì l’atto fondativo di una nuova stagione economica: quella della sovranità produttiva.

02 - La politica tariffaria di Trump rischia di danneggiare imprese e consumatori americani

In USA, i dazi stanno portando aumento dei prezzi, la stagnazione degli investimenti e rischio di stagflazione.

03 - Con i dazi, Trump vuole riequilibrare il commercio globale a favore degli Stati Uniti

Con i dazi Trump cerca di trasformare la posizione degli Stati Uniti nel commercio globale, passando da "cliente passivo" a protagonista negoziale.

04 - I dazi di Trump stanno isolando gli Stati Uniti e minando la cooperazione internazionale

I dazi portano l'erosione del ruolo di leadership internazionale degli Stati Uniti; instabilità geopolitica e una frattura tra Washington e i suoi alleati storici.

05 - I dazi di Trump sono una leva fiscale per rafforzare l’economia americana

Le entrate doganali per il 2025 supereranno i 150 miliardi di dollari, contribuendo per circa il 3,8% alla copertura del disavanzo federale. Un contributo non trascurabile.

06 - Le entrate daziarie non garantiscono stabilità e aggravano l’incertezza sistemica

Le entrate daziarie sono utili nel breve periodo, ma non rappresentano una base solida, prevedibile né equa per sostenere il bilancio federale.

 
01

I dazi di Trump stanno portando una rinascita dell’industria americana

FAVOREVOLE

Quando Donald Trump ha annunciato la nuova ondata di dazi contro decine di Paesi, compresi storici partner commerciali come Canada, India e Unione Europea, molti osservatori hanno parlato di un ritorno al protezionismo. Ma per la Casa Bianca e per una parte crescente dell'opinione pubblica americana, la manovra doganale non è stata una regressione, bensì l’atto fondativo di una nuova stagione economica: quella della sovranità produttiva. A sostegno della sua scelta, Trump ha presentato numeri ambiziosi: oltre 150 miliardi di dollari previsti in nuove entrate doganali, una crescita occupazionale netta nel settore manifatturiero e un’espansione degli investimenti industriali interni. A livello simbolico, la narrativa è potente: milioni di dollari che tornano a Washington invece di finire nei conti di Stati stranieri.
Secondo “Bloomberg”, il tasso medio effettivo dei dazi USA ha raggiunto il 15,2%, con picchi superiori al 50% per settori strategici come semiconduttori e metalli industriali. Ma ciò che stupisce gli analisti è il fatto che, nonostante queste misure aggressive, l’economia non si è contratta. Al contrario, il mercato azionario ha premiato la mossa: l’S&P 500 è salito del 25% in pochi mesi, riflettendo una fiducia crescente nei comparti produttivi locali. A dare ulteriore legittimità a questa strategia sono i dati della Casa Bianca, che rivendica un aumento netto degli investimenti nel settore energetico e manifatturiero, anche grazie a clausole che esentano dai dazi i beni prodotti con almeno il 20% di componenti americani. Questa condizione ha spinto colossi come Apple e GM a rivedere la loro logistica produttiva, favorendo un ritorno (parziale) alla fabbricazione in territorio nazionale o nel blocco nordamericano.
Sul fronte internazionale, i dazi hanno costretto anche i partner più riluttanti a sedersi al tavolo: secondo “CNN Business”, l’Unione Europea ha concesso tariffe agevolate per alcuni beni strategici in cambio di nuovi accordi energetici, mentre il Giappone ha firmato un memorandum di collaborazione in materia di semiconduttori.
Non mancano le criticità e le tensioni diplomatiche, ma nel complesso il bilancio politico è solido. Trump ha riportato al centro del dibattito economico un tema abbandonato da decenni: quello della dipendenza industriale dagli altri Paesi. Per decenni, la globalizzazione ha giustificato la delocalizzazione con l’argomento dell’efficienza: produrre in Asia costava meno. Oggi, però, le crisi pandemiche, le guerre commerciali e la volatilità dei mercati hanno mostrato l’altra faccia della medaglia: l’assenza di controllo, la vulnerabilità e la perdita di competenze strategiche. In questo ambito i dazi diventano, secondo molti sostenitori del modello Trump, una leva strutturale. Non un muro contro il mondo, ma un filtro: una barriera selettiva per favorire chi produce negli USA, per rilanciare distretti industriali dimenticati e per riportare a casa non solo la manifattura, ma anche l’orgoglio economico. Per ora, dunque, gli indicatori macroeconomici e finanziari sembrano suggerire che l’America sta riscoprendo la sua vocazione industriale. E lo sta facendo, paradossalmente, con strumenti antichi (i dazi) inseriti in un disegno geopolitico moderno.

Nina Celli, 8 agosto 2025

 
02

La politica tariffaria di Trump rischia di danneggiare imprese e consumatori americani

CONTRARIO

Quando l’amministrazione Trump ha annunciato la nuova serie di dazi, a luglio 2025, molti americani hanno accolto con favore la promessa di un'economia più forte, meno dipendente dall’estero. Tuttavia, dietro il linguaggio muscolare e le affermazioni trionfali, una realtà molto diversa si sta facendo strada tra le imprese, nei centri di ricerca economica e, soprattutto, nel carrello della spesa dei consumatori. Secondo un’analisi di “NBC News”, i dazi attualmente in vigore hanno spinto il tasso medio di tassazione sulle importazioni al 17%, il più alto dalla Grande Depressione. E mentre la Casa Bianca rivendica entrate doganali record, economisti come Mark Zandi (Moody’s Analytics) mettono in guardia sugli effetti reali di queste misure sono l’aumento dei prezzi, la stagnazione degli investimenti e il rischio concreto di stagflazione, cioè la combinazione di inflazione alta e crescita economica debole.
La retorica della reindustrializzazione maschera una verità più complessa: la maggior parte delle imprese statunitensi non ha le infrastrutture né la forza lavoro per sostituire a breve le importazioni colpite dai dazi. Secondo un’inchiesta del Centro Studi Unimpresa, pubblicata su “Il Sole 24 Ore”, i settori più colpiti dai dazi includono meccanica, moda, chimico-farmaceutico e agroalimentare. L’impatto teorico per le aziende italiane che esportano negli USA – spesso partner di aziende americane – si traduce in un costo compreso tra 6,7 e 22 miliardi di euro. Ma gli effetti a catena si riversano anche sulle supply chain statunitensi, aumentando i costi di produzione.
L’altra grande vittima è il consumatore americano. Secondo l’IMF, i dazi introdotti tra aprile e luglio hanno già innescato una spinta inflattiva dello 0,9%, con una proiezione al rialzo per l’autunno. L’eliminazione dell’esenzione doganale per acquisti online inferiori a 800 dollari ha avuto un effetto immediato: migliaia di famiglie americane hanno visto aumentare i costi per prodotti di uso quotidiano. In media, secondo uno studio della Yale Budget Lab riportato da “NBC”, l’impatto per nucleo familiare potrebbe superare i 2.400 dollari all’anno.
Non si tratta solo di prezzi. Le imprese tagliano gli investimenti, ritardano le assunzioni, congelano i salari. Alcune multinazionali americane – tra cui Walmart e Apple – hanno dichiarato pubblicamente che non riusciranno più ad assorbire i costi dei dazi, che verranno quindi trasferiti direttamente al cliente finale.
Anche la narrazione secondo cui i dazi aiuterebbero le fasce più deboli della popolazione si scontra con la realtà. La distribuzione dell’impatto mostra che i beni più tassati sono spesso quelli a basso margine e più acquistati dalle famiglie a basso reddito, come abbigliamento, elettronica di consumo, beni agroalimentari di base. Chi vive con salari modesti e spese rigide è, quindi, il più penalizzato.
Il fattore forse più sottovalutato è l’incertezza sistemica. Il licenziamento della direttrice del Bureau of Labor Statistics, Erika McEntarfer, dopo la pubblicazione di dati negativi sull’occupazione, ha fatto temere a molti una politicizzazione della statistica economica. Come riportato da “La Repubblica” e dal “Financial Times”, la fiducia degli investitori internazionali nella trasparenza del sistema americano è in calo, alimentando volatilità nei mercati e freni agli investimenti esteri.
I dazi imposti da Trump, dunque, sembrano più un’operazione ideologica che una strategia economica coerente. Se è vero che alcune industrie strategiche potrebbero trarre beneficio nel lungo periodo, è altrettanto evidente che, nel breve e medio termine, sono le famiglie, le PMI e l’intero tessuto economico interconnesso degli USA a pagare il prezzo più alto.

Nina Celli, 8 agosto 2025

 
03

Con i dazi, Trump vuole riequilibrare il commercio globale a favore degli Stati Uniti

FAVOREVOLE

Nella visione strategica di Donald Trump, la politica commerciale non è semplicemente una questione di dazi o di importazioni: è una questione di sovranità nazionale. Con l’ondata di tariffe introdotte nel 2025, il presidente cerca di trasformare la posizione degli Stati Uniti nel commercio globale, passando da un ruolo di "cliente passivo" a quello di protagonista negoziale capace di imporre condizioni e indirizzare le dinamiche multilaterali a proprio vantaggio. Le nuove tariffe hanno riguardato 92 Paesi, con aliquote differenziate dal 10% al 100%, colpendo settori strategici come i chip, i farmaci e le auto. L’obiettivo dichiarato è, da un lato ridurre i deficit commerciali bilaterali con i principali partner, dall’altro costringerli a sedersi al tavolo per ridefinire le regole del gioco. Come spiegato nel fact sheet ufficiale della Casa Bianca del 31 luglio, i nuovi accordi mirano a ristabilire il principio di reciprocità: “se un Paese impone barriere ai nostri prodotti, non può pretendere accesso libero al nostro mercato”.
In pochi mesi, l’amministrazione ha già annunciato memorandum d’intesa con Giappone, UE, Regno Unito, Corea e Vietnam, in cui si prevedono reciproche concessioni: l’America apre ad alcuni beni, ma in cambio ottiene garanzie su investimenti e forniture energetiche. Solo dall’Europa si prevede un afflusso di oltre 750 miliardi di dollari, di cui 600 solo nel settore energetico. Questa strategia ha rafforzato la posizione geopolitica USA, rendendo l’export di gas e tecnologia americana un’arma negoziale.
Secondo “Bloomberg”, il commercio globale si sta già riconfigurando: “i dazi americani stanno ridefinendo le supply chain e costringendo molte economie avanzate a ripensare le loro strategie commerciali, spesso orientandosi verso accordi preferenziali con Washington”.
Il principio ispiratore non è il protezionismo cieco, ma quello che Trump chiama "realismo competitivo": trattare da pari a pari, senza più concedere condizioni unilaterali a economie emergenti come la Cina, che – secondo la Casa Bianca – ha sfruttato per anni regole WTO pensate per Paesi in via di sviluppo pur essendo una potenza industriale.
Anche sul piano interno, la mossa rafforza la narrativa di un’America che riprende il controllo: “non lasceremo che le multinazionali e le lobby della globalizzazione decidano chi produce cosa e dove”, ha dichiarato il presidente, promettendo incentivi per le aziende che producono sul territorio nazionale e penalizzazioni per chi delocalizza.
Va riconosciuto inoltre che, al di là della retorica, molti dei partner coinvolti non hanno reagito con contromisure ostili, ma hanno cercato il dialogo. Secondo “CNN”, alcuni Paesi (inclusi Canada e India) hanno già avviato negoziati tecnici per ottenere esenzioni settoriali, mentre il blocco europeo ha accettato una moratoria di sei mesi sulle controtariffe.
In un’economia dove il commercio globale è sempre più legato a temi strategici, la politica dei dazi può essere letta come una leva di potere. Per Trump, i dazi sono una moneta di scambio per ottenere sicurezza, alleanze economiche e indipendenza energetica. E, nel breve periodo, sembrano funzionare.

Nina Celli, 8 agosto 2025

 
04

I dazi di Trump stanno isolando gli Stati Uniti e minando la cooperazione internazionale

CONTRARIO

Dietro la retorica dell’“America First” e della sovranità commerciale, la realtà globale che si sta delineando a seguito della nuova offensiva tariffaria di Donald Trump racconta una progressiva erosione del ruolo di leadership internazionale degli Stati Uniti; una crescente instabilità geopolitica e una frattura sempre più marcata tra Washington e i suoi alleati storici.
Le nuove misure tariffarie di luglio-agosto 2025 hanno colpito oltre 90 Paesi, tra cui i partner commerciali più rilevanti degli USA: Unione Europea, Canada, Giappone, India, Brasile, Svizzera. Se l’obiettivo era stimolare la reciprocità, il risultato sembra essere stato l’inasprimento delle tensioni, non solo commerciali ma anche istituzionali. Come riportato da “La Repubblica”, la decisione unilaterale di Trump ha spinto Bruxelles a considerare l’attivazione di contromisure per 93 miliardi di euro, temporaneamente congelate solo per evitare un’escalation in piena estate. Ma questa “moratoria” europea, secondo fonti diplomatiche, non è un gesto di distensione, è solo una sospensione tattica in attesa dell’autunno, quando sarà chiaro se la Casa Bianca intende davvero dialogare o imporre nuove condizioni. Secondo “Il Sole 24 Ore”, già oggi si registrano fratture interne al blocco UE, con alcuni Stati pronti a negoziare da soli con Washington, minando l’unità europea. Potrebbe verificarsi un effetto domino: la politica dei dazi potrebbe disgregare le alleanze multilaterali, favorendo il ritorno a logiche bilaterali, competitive e potenzialmente conflittuali.
Non si tratta solo di tensioni diplomatiche. L’approccio di Trump sta anche alimentando diffidenza nei mercati globali, secondo quanto dichiarato dal Fondo Monetario Internazionale. In una conferenza stampa del 24 luglio, Julie Kozack, direttrice della comunicazione dell’IMF, ha sottolineato come il rapido susseguirsi di accordi, tariffe, pause e riprese stia creando un ambiente di “elevatissima incertezza sistemica”, che scoraggia investimenti e pianificazione a lungo termine.
Anche i partner alleati stanno mostrando segni di insofferenza. Come riportato da “ANSA” e “Il Sole 24 Ore”, il Canada e il Brasile – entrambi colpiti da dazi tra il 35% e il 50% – hanno minacciato ritorsioni su forniture energetiche e tecnologiche, mentre in Europa monta il malcontento per le concessioni fatte in cambio di promesse poco vincolanti. Non è un caso che il ministro delle Finanze tedesco Lars Klingbeil abbia definito gli accordi “opachi e asimmetrici”, e che in Italia, secondo la CGIA, i dazi imposti da Trump equivalgano a una perdita annuale stimata tra i 14 e i 15 miliardi di euro, paragonabile al costo dell’intero Ponte sullo Stretto di Messina.
A tutto questo si aggiunge un altro effetto collaterale: il deterioramento della reputazione internazionale degli Stati Uniti come garante delle regole globali. Se il commercio diventa una leva coercitiva, piuttosto che una base di cooperazione, allora l’intero ordine multilaterale – costruito in decenni di diplomazia post-bellica – rischia di sgretolarsi. Non è un caso che il “Financial Times” abbia parlato di una "politica commerciale guidata più dalla narrazione elettorale che da una visione strutturale". La strategia dei dazi può forse portare vantaggi negoziali a breve termine, ma a costo di logorare le relazioni internazionali, disintegrare le alleanze storiche e isolare gli Stati Uniti in un momento in cui la cooperazione globale è più necessaria che mai.

Nina Celli, 8 agosto 2025

 
05

I dazi di Trump sono una leva fiscale per rafforzare l’economia americana

FAVOREVOLE

L’idea di finanziare parte della spesa pubblica direttamente con le entrate derivanti dai dazi commerciali si è rivelata, per Donald Trump, non solo una mossa strategica, ma anche una potente narrazione politica. Ma non è soltanto propaganda: i numeri, almeno nel breve periodo, sembrano dare ragione al presidente USA. Secondo una stima aggiornata del Peterson Institute for International Economics (PIIE), le entrate doganali previste per il 2025 supereranno i 150 miliardi di dollari, contribuendo per circa il 3,8% alla copertura del disavanzo federale. Non si tratta di una somma risolutiva, ma in un contesto in cui il deficit previsto supera i 1.900 miliardi, rappresenta un contributo tutt’altro che trascurabile.
Per Trump, questo flusso fiscale ha anche un valore simbolico: non grava sui cittadini americani, ma sugli esportatori stranieri, ritenuti responsabili di squilibri commerciali strutturali. Anziché aumentare le tasse interne o emettere debito, si tassa l’import. In una recente dichiarazione ufficiale, la Casa Bianca ha ribadito che le nuove tariffe non solo “non pesano sul contribuente medio”, ma che “stanno già finanziando investimenti infrastrutturali e difensivi”.
Le entrate doganali, oltre a rappresentare un gettito fresco, sono anche un meccanismo di pressione negoziale: Trump ha infatti collegato l’alleggerimento dei dazi a nuovi investimenti in territorio americano. È il caso del settore energetico, dove si stima che i nuovi accordi con l’Unione Europea porteranno entro il 2026 750 miliardi di dollari in contratti e infrastrutture. Si tassa, quindi, l’importazione per finanziare la produzione nazionale.
Anche la narrazione pubblica si allinea: secondo un sondaggio della “CNN” pubblicato il 6 agosto, il 62% degli elettori repubblicani ritiene che le tariffe siano uno strumento “efficace e giusto” per riequilibrare i conti pubblici e ridurre la dipendenza dal debito estero. In un’America polarizzata, dove le diseguaglianze economiche e regionali sono profonde, la politica dei dazi viene percepita come una forma di redistribuzione indiretta. Non attraverso sussidi, ma attraverso una fiscalità che penalizza i giganti delle esportazioni e tutela le imprese locali. In altre parole, si premiano i produttori nazionali e si penalizzano le logiche delocalizzate delle grandi multinazionali.
Sul piano della trasparenza, la gestione tariffaria si presenta più chiara e monitorabile rispetto ad altri meccanismi di entrata. Ogni mese, la Federal Trade Commission e il Department of Commerce pubblicano dati dettagliati sulle entrate doganali, rendendo il gettito verificabile in tempo reale. Secondo “Il Sole 24 Ore”, questa strategia fiscale fondata sui dazi rappresenta “una forma moderna di capitalismo nazionale”, in cui il governo si assume il compito di guidare gli investimenti, regolare gli scambi e incassare in modo diretto i frutti della sovranità commerciale.
Per Trump e i suoi sostenitori, dunque, i dazi non sono solo uno strumento commerciale, sono una fonte fiscale alternativa, politica e strategica, in grado di sostenere spesa pubblica, infrastrutture, industria e prestigio negoziale.

Nina Celli, 8 agosto 2025

 
06

Le entrate daziarie non garantiscono stabilità e aggravano l’incertezza sistemica

CONTRARIO

Nel racconto ufficiale dell’amministrazione Trump, i dazi doganali non sono soltanto uno strumento di politica commerciale, ma una soluzione fiscale brillante. Un modo per “far pagare gli altri” e finanziare la spesa pubblica americana senza aumentare le tasse interne. Tuttavia, guardando oltre la propaganda, molti economisti e osservatori istituzionali mettono in discussione questa narrazione. Le entrate daziarie, seppur significative nel breve periodo, non rappresentano una base solida, prevedibile né equa per sostenere il bilancio federale. Secondo un’analisi del Fondo Monetario Internazionale, pubblicata durante il briefing del 24 luglio 2025, il sistema attuale dei dazi americani genera un effetto a “fisarmonica”, con aumenti e riduzioni improvvise, sospensioni temporanee, esenzioni settoriali e rinegoziazioni continue. Questo approccio rende difficile qualsiasi pianificazione fiscale strutturata, sia per il governo federale, sia per le imprese che dipendono da catene di fornitura globali.
Il problema non è solo tecnico, ma sistemico. Secondo “Bloomberg”, la volatilità tariffaria alimenta incertezza nei mercati globali, frena gli investimenti a lungo termine e deteriora le aspettative di inflazione. In altre parole, anche se nel breve termine le entrate da dazi possono sembrare vantaggiose, nel lungo periodo compromettono la fiducia nell’ambiente fiscale americano e scoraggiano gli investitori. Inoltre, la natura regressiva dei dazi non va sottovalutata. A differenza delle imposte progressive sul reddito, i dazi colpiscono indiscriminatamente tutti i consumatori, ma con un impatto più forte sulle famiglie a basso reddito, che destinano una quota maggiore del loro reddito a beni importati. Secondo uno studio di “NBC News”, le famiglie americane stanno già subendo aumenti di prezzo medi pari a 2.400 dollari l’anno, con picchi nei settori alimentare, moda e tecnologia.
Un ulteriore punto critico riguarda la credibilità istituzionale. Il licenziamento della direttrice del Bureau of Labor Statistics, Erika McEntarfer – accusata da Trump di diffondere dati manipolati – ha scosso i mercati. Secondo “La Repubblica” e il “Financial Times”, questo episodio ha alimentato il timore di una “manipolazione politica dell’informazione economica”, mettendo in discussione l’indipendenza delle agenzie federali e la trasparenza dei dati macroeconomici.
Anche dal punto di vista della giustizia fiscale, i dazi si rivelano un meccanismo distorto: mentre le famiglie americane pagano prezzi più alti, i giganti dell’export – come l’UE o la Cina – aggirano le sanzioni con triangolazioni commerciali, spostando la produzione verso Paesi non colpiti. Il risultato è che le piccole imprese americane, prive di leve fiscali o logistiche, restano schiacciate.
Inoltre, il mito dell’autofinanziamento si infrange su un dato essenziale, cioè che le entrate da dazi non sono garantite. Come evidenziato da “Il Sole 24 Ore”, molte tariffe vengono ridotte, sospese o differite a causa delle pressioni politiche e delle trattative diplomatiche. Anche nei settori apparentemente stabili – come l’energia – le promesse di investimento da parte dei partner non sono sempre vincolanti e spesso restano sulla carta. I dazi, quindi, possono produrre effetti fiscali momentanei, ma non costituiscono una base solida per una strategia economica coerente. Anzi, contribuiscono a esacerbare la frammentazione del sistema globale, aumentano il carico fiscale indiretto sui cittadini e compromettono la stabilità macroeconomica.

Nina Celli, 8 agosto 2025

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