La resilienza è strumento del potere contro l’opposizione
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Negli ultimi anni, una parola ha colonizzato in silenzio il lessico politico, aziendale, scolastico, europeo: resilienza. Dapprima confinata al gergo della fisica dei materiali – la capacità di un corpo di tornare alla forma originaria dopo una sollecitazione – oggi la resilienza è ovunque: nei documenti programmatici dell’Unione Europea, nei piani di sviluppo urbano, nei percorsi di formazione scolastica, nei report ESG delle aziende, perfino nei kit di sopravvivenza delle commissarie UE.
Ma cosa significa veramente essere resilienti in una società che cambia? È una virtù collettiva da coltivare, una necessità civile per fronteggiare tempi incerti, oppure un modo elegante per chiedere alle persone di adattarsi in silenzio, tollerare l’intollerabile, accettare l’erosione dei propri diritti come inevitabile?

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
In nome della resilienza si formano studenti imprenditori di se stessi, pronti ad affrontare un mercato del lavoro precario, ma privati della capacità critica e del diritto al dissenso.
La resilienza consente ai Paesi, anche quelli senza status di potenza globale, di mantenere stabilità e legittimità interna, liberando risorse per affrontare crisi esterne.
Dietro a un lessico apparentemente virtuoso si cela un'operazione molto più complessa: la trasformazione della resilienza in dispositivo ideologico del neoliberismo avanzato.
In molte organizzazioni lungimiranti, il concetto di resilienza non è più una parola d’ordine motivazionale, ma un elemento strutturale di sopravvivenza e rigenerazione collettiva.
Il neoliberismo ha riassorbito le critiche, trasformando i cittadini in “resilienti” e le politiche pubbliche in processi di adattamento alle disuguaglianze, non di rimozione delle cause.
La resilienza può diventare la grammatica con cui le società democratiche imparano a gestire in modo condiviso l’instabilità, rafforzando la partecipazione, l’equità e l’inclusione.
La rana bollita: quando resilienza equivale a silenzio organizzato
C’è un racconto spesso usato per spiegare le derive lente e pericolose del potere: quello della rana bollita. Una rana immersa in acqua fredda, se riscaldata lentamente, non si accorge del cambiamento di temperatura. Rimane ferma. Finché l’acqua non diventa bollente e muore. Così funziona anche la retorica della resilienza quando viene usata come strumento di adattamento passivo a un sistema che degenera.
Nella nostra società iperconnessa, sempre più compressa tra crisi ambientali, instabilità economica e shock politici, il concetto di resilienza è diventato onnipresente. Ma la domanda è: resilienza per chi? E a vantaggio di chi?
La filosofa Alene Dawson, in un approfondimento per la John Templeton Foundation, smonta l’ideale della resilienza eroica. “La maggior parte delle persone – scrive – non migliora dopo i traumi: semplicemente sopravvive”. L’enfasi sul “diventare migliori” dopo lo stress nasconde un aspetto tossico: la colpevolizzazione dell’individuo. Se non riesci a superare la crisi, sei tu il problema. Non il sistema. Nel contesto educativo, questo meccanismo si manifesta con particolare evidenza. In un articolo pubblicato da “ROARS”, il sociologo Gianluca Coeli denuncia come la scuola italiana sia stata progressivamente trasformata in una fabbrica di soggetti “resilienti”, educati all’obbedienza e alla flessibilità. La parola d’ordine è “adattati”. In nome della resilienza, si formano studenti imprenditori di se stessi, pronti ad affrontare un mercato del lavoro precario, ma privati della capacità critica e del diritto al dissenso.
La stessa dinamica si ritrova nel lavoro. Secondo Kathleen Gramzay, se la resilienza viene declinata come responsabilità individuale, senza supporti reali, si rischia di istituzionalizzare la sopportazione. Il lavoratore resiliente è quello che non si lamenta, che tiene duro, che “resiste”. Ma per resistere a cosa? A un ambiente tossico? A una gerarchia ingiusta? La resilienza, in questa lettura, diventa una virtù disciplinare, una forma di autocontrollo che sostituisce la protesta collettiva.
Il punto più critico è che questa retorica rende invisibili le responsabilità strutturali. È il caso dei fondi europei per la digitalizzazione: come si legge su “Agenda Digitale”, quando le competenze digitali vengono promosse come strumenti per “rafforzare la resilienza trasformativa”, ma senza correggere le disuguaglianze di partenza, si rischia di creare nuovi divari cognitivi e nuove esclusioni. La resilienza diventa un paravento per mascherare il fallimento di politiche pubbliche insufficienti.
La metafora della rana bollita è dunque quanto mai attuale. Il cittadino resiliente non salta fuori dalla pentola: si adatta, spera che l’acqua smetta di riscaldarsi, confida in un cambiamento che non arriverà. Ma la temperatura sale. E il rischio, reale, è quello di una società anestetizzata, in cui la resilienza si sostituisce alla resistenza, alla critica, alla capacità di dire “basta”.
Nina Celli, 18 luglio 2025
La resilienza è un fattore di coesione
L’Ucraina ha incarnato un nuovo modo di concepire la resilienza: non più sacrificio individuale, ma forza collettiva e strategica. Elizabeth Sizeland, ricercatrice presso l’Atlantic Council, ha parlato di “resilience power” come terza forma di influenza geopolitica, accanto a hard e soft power. Scrive: “La resilienza consente ai paesi, anche quelli senza status di potenza globale, di mantenere stabilità e legittimità interna, liberando risorse per affrontare crisi esterne”. Questo nuovo paradigma si è visto con chiarezza durante l’invasione russa del 2022: non solo capacità di difesa militare, ma coesione istituzionale, sostegno della società civile e capacità di mantenere continuità economica e amministrativa.
Il concetto di resilienza come motore politico e sociale non si limita a scenari bellici. Nella riflessione dell’Unione Europea, emersa dopo la pandemia e formalizzata nel quadro del Next Generation EU, la resilienza è diventata architrave di un nuovo patto sociale tra cittadinanza, istituzioni e mercato. L’articolo pubblicato su “Agenda Digitale” da Federica Giaquinta sottolinea come, “nel disegno complesso dell’Europa post-pandemica, le competenze digitali emergano come vettore strutturale della resilienza trasformativa”. Questo non significa adattamento passivo, bensì investimento anticipatorio in capitale umano, accesso equo alla formazione e costruzione di ecosistemi formativi capaci di emancipare.
Un elemento chiave è proprio la visione sistemica e multilivello: la resilienza è interpretata come strumento per colmare tre deficit strategici – infrastrutturale, cognitivo, adattivo – e viene sostenuta da strumenti normativi, come il diritto alla cittadinanza digitale, e da meccanismi redistributivi. L’autrice osserva criticamente che questo concetto viene talvolta strumentalizzato, ma insiste: “Solo una governance anticipatoria può evitare che la resilienza si trasformi in nuova marginalizzazione algoritmica”.
In questo contesto, la resilienza è tutt’altro che una narrazione di rassegnazione. È semmai una piattaforma trasformativa, capace di costruire ponti tra generazioni, territori e categorie sociali differenti. La sua forza sta nel “trasformare la vulnerabilità in potere collettivo”, agendo sia a livello locale che sovranazionale.
Come nel caso ucraino, anche nei contesti democratici occidentali la resilienza si configura come deterrente sociale, non violento, contro la destabilizzazione. È la capacità delle istituzioni di restare operative, dei cittadini di sentirsi parte del processo e del sistema di welfare di evolversi.
La resilienza, quindi, può e deve essere letta come una forma di energia democratica, una risorsa politica e sociale da coltivare. Lungi dall’essere uno strumento di controllo o anestesia, può diventare ciò che tiene insieme un’Europa fragile, incerta, ma ancora capace di rigenerarsi.
Nina Celli, 18 luglio 2025
La resilienza è un dispositivo di controllo e neutralizzazione proprio del Neoliberalismo 2.0
La parola “resilienza” ha conosciuto un’ascesa silenziosa e implacabile nei documenti delle istituzioni, nei bandi pubblici, nei discorsi manageriali, perfino nelle campagne pubblicitarie. Ma dietro questo lessico apparentemente virtuoso si cela un'operazione molto più complessa: la trasformazione della resilienza in dispositivo ideologico del neoliberismo avanzato.
Un saggio pubblicato su “fuoricollana.it” nel 2025 traccia questa traiettoria in modo lucido. Dopo il crollo del 2008 e la pandemia globale, ci si sarebbe aspettati una crisi definitiva dell’ideologia neoliberista. Eppure, come osservava già nel 2011 Colin Crouch, “il neoliberismo è il morto che cammina”: non è morto, si è adattato. E lo ha fatto proprio incorporando la retorica della resilienza. Invece di crollare sotto il peso delle sue contraddizioni, ha riassorbito le critiche trasformando i cittadini in “resilienti” e le politiche pubbliche in processi di adattamento alle disuguaglianze, non di rimozione delle cause.
La resilienza diventa così un paradosso: promuove l’individuo come centro di trasformazione, ma lo fa scaricando su di lui l’intero peso del cambiamento, mentre il contesto istituzionale resta immutato. È quanto denuncia anche la studiosa Catia Gregoratti nel suo articolo per “Bristol University Press”: “La resilienza viene costruita come qualità personale, utile a sopportare precarietà, disuguaglianze e shock. Ma così facendo si invisibilizzano le cause strutturali della vulnerabilità, in particolare per donne e soggetti marginalizzati”.
Questo modello si applica anche alle politiche ambientali. In un articolo pubblicato su “Africa is a Country”, il ricercatore Clement Amponsah descrive la “resilienza climatica” come nuovo veicolo di dominio neocoloniale. I paesi del Sud globale vengono “aiutati” a essere più resilienti rispetto a eventi climatici estremi, ma le soluzioni vengono imposte dall’esterno, secondo modelli tecnocratici e metriche occidentali. Il sapere locale viene ignorato, mentre i progetti “resilienti” aumentano il debito e la dipendenza.
L’uso della resilienza in ambito internazionale, dunque, rispecchia le stesse dinamiche viste nel contesto europeo: non emancipazione, ma adattamento forzato. Non giustizia, ma compensazione tecnica. Una forma di “stabilità ingannevole”, come l’ha definita Jonathan S. Davies nel suo saggio per “Wiley Interdisciplinary Reviews”, in cui mostra come la resilienza possa legittimare il mantenimento dello status quo, mentre si indeboliscono i meccanismi della democrazia sostanziale.
La vera posta in gioco, dunque, non è se la resilienza sia utile in sé, ma chi la controlla, a quale scopo viene impiegata e in quale cornice istituzionale si inserisce. Se utilizzata per neutralizzare la critica, anestetizzare il conflitto e sostituire la partecipazione con l’adattamento, allora è chiaro che stiamo assistendo non a un’innovazione, ma a una sofisticata strategia di contenimento del dissenso. In questo senso, la resilienza diventa la nuova faccia del potere: invisibile, adattiva, ammantata di buone intenzioni, ma profondamente conservatrice.
Nina Celli, 18 luglio 2025
La resilienza organizzativa trasforma il lavoro senza stress
Nel panorama lavorativo contemporaneo, dove la crisi climatica, pandemica ed economica si intrecciano a una rivoluzione tecnologica continua, parlare di resilienza può sembrare un esercizio di retorica aziendale. Eppure, in molte organizzazioni lungimiranti, il concetto di resilienza non è più una parola d’ordine motivazionale, ma un elemento strutturale di sopravvivenza e rigenerazione collettiva.
Secondo il report Gallup 2025, citato da Kathleen Gramzay in un’analisi pubblicata su “KathleenGramzay.com”, l’engagement manageriale è ai minimi storici. Il 62% dei dirigenti lamenta sintomi di burnout, mancanza di senso e isolamento funzionale. Questo scenario, definito da Gramzay “sindrome della gestione dell’incertezza”, mostra quanto l’adattamento non sia solo questione personale, ma sfida organizzativa sistemica. La resilienza, dunque, diventa una competenza collettiva, da coltivare attraverso strumenti interni, relazioni empatiche e modelli di leadership trasformativa.
Gramzay propone un approccio “neurosomatico” alla resilienza, cioè, fondato su connessioni biologiche tra corpo, mente e relazioni sociali. Non si tratta di chiedere ai dipendenti di “reggere di più”, ma di costruire ambienti di lavoro in cui le persone non debbano resistere a un sistema tossico, bensì contribuire alla sua evoluzione. Questa visione si inserisce in una crescente letteratura che vede nella resilienza organizzativa un nuovo standard ESG (Environmental, Social, Governance), in grado di guidare la transizione verso modelli sostenibili.
Non è un caso che anche la John Templeton Foundation sottolinei, in un recente studio, come la resilienza non debba essere “eroica”, bensì “stabile”. Il prof. Eranda Jayawickreme afferma: “La resilienza non è necessariamente un cambiamento drammatico: è la capacità di mantenere funzionalità in presenza di stress prolungato”. Questa capacità – nel mondo delle imprese, delle scuole, delle istituzioni – è ciò che consente di preservare i servizi pubblici, i diritti, le tutele collettive anche quando l’ambiente esterno è instabile.
A livello istituzionale, la riflessione pubblicata da “Agenda Digitale” sulle competenze digitali rafforza questo quadro: la resilienza è anche capacità sistemica di anticipare e gestire mutamenti tecnologici. La costruzione di un “capitale umano digitale” non può avvenire senza un’architettura formativa coerente e adattiva. In mancanza di ciò, si rischia che l’innovazione diventi un ulteriore stress per i lavoratori. Quando invece è ben progettata, la resilienza si trasforma in fattore di equità, benessere e produttività sostenibile.
La resilienza organizzativa, dunque, non è più l’arte del sopravvivere: è la scienza del farsi trovare pronti, il linguaggio delle imprese che non vogliono “resistere” ai cambiamenti, ma “guidarli”, favorendo un ambiente umano, sostenibile e innovativo.
Nina Celli, 18 luglio 2025
La resilienza è un dispositivo di controllo e neutralizzazione proprio del Neoliberalismo 2.0
La parola “resilienza” ha conosciuto un’ascesa silenziosa e implacabile nei documenti delle istituzioni, nei bandi pubblici, nei discorsi manageriali, perfino nelle campagne pubblicitarie. Ma dietro questo lessico apparentemente virtuoso si cela un'operazione molto più complessa: la trasformazione della resilienza in dispositivo ideologico del neoliberismo avanzato.
Un saggio pubblicato su “fuoricollana.it” nel 2025 traccia questa traiettoria in modo lucido. Dopo il crollo del 2008 e la pandemia globale, ci si sarebbe aspettati una crisi definitiva dell’ideologia neoliberista. Eppure, come osservava già nel 2011 Colin Crouch, “il neoliberismo è il morto che cammina”: non è morto, si è adattato. E lo ha fatto proprio incorporando la retorica della resilienza. Invece di crollare sotto il peso delle sue contraddizioni, ha riassorbito le critiche trasformando i cittadini in “resilienti” e le politiche pubbliche in processi di adattamento alle disuguaglianze, non di rimozione delle cause.
La resilienza diventa così un paradosso: promuove l’individuo come centro di trasformazione, ma lo fa scaricando su di lui l’intero peso del cambiamento, mentre il contesto istituzionale resta immutato. È quanto denuncia anche la studiosa Catia Gregoratti nel suo articolo per “Bristol University Press”: “La resilienza viene costruita come qualità personale, utile a sopportare precarietà, disuguaglianze e shock. Ma così facendo si invisibilizzano le cause strutturali della vulnerabilità, in particolare per donne e soggetti marginalizzati”.
Questo modello si applica anche alle politiche ambientali. In un articolo pubblicato su “Africa is a Country”, il ricercatore Clement Amponsah descrive la “resilienza climatica” come nuovo veicolo di dominio neocoloniale. I paesi del Sud globale vengono “aiutati” a essere più resilienti rispetto a eventi climatici estremi, ma le soluzioni vengono imposte dall’esterno, secondo modelli tecnocratici e metriche occidentali. Il sapere locale viene ignorato, mentre i progetti “resilienti” aumentano il debito e la dipendenza.
L’uso della resilienza in ambito internazionale, dunque, rispecchia le stesse dinamiche viste nel contesto europeo: non emancipazione, ma adattamento forzato. Non giustizia, ma compensazione tecnica. Una forma di “stabilità ingannevole”, come l’ha definita Jonathan S. Davies nel suo saggio per “Wiley Interdisciplinary Reviews”, in cui mostra come la resilienza possa legittimare il mantenimento dello status quo, mentre si indeboliscono i meccanismi della democrazia sostanziale.
La vera posta in gioco, dunque, non è se la resilienza sia utile in sé, ma chi la controlla, a quale scopo viene impiegata e in quale cornice istituzionale si inserisce. Se utilizzata per neutralizzare la critica, anestetizzare il conflitto e sostituire la partecipazione con l’adattamento, allora è chiaro che stiamo assistendo non a un’innovazione, ma a una sofisticata strategia di contenimento del dissenso. In questo senso, la resilienza diventa la nuova faccia del potere: invisibile, adattiva, ammantata di buone intenzioni, ma profondamente conservatrice.
Nina Celli, 18 luglio 2025
Resilienza è una forma di potere democratico, che porta verso una cittadinanza consapevole
Nel vocabolario politico contemporaneo, il termine “resilienza” si è imposto come parola chiave delle strategie pubbliche post-pandemiche. Ma è possibile pensare alla resilienza non come imposizione di adattamento, bensì come fondamento di una nuova cittadinanza attiva? In una lettura profonda, la resilienza può infatti diventare la grammatica con cui le società democratiche imparano a gestire in modo condiviso l’instabilità, rafforzando la partecipazione, l’equità e l’inclusione.
Nel suo saggio Resilience: why should we think with care?, la politologa Catia Gregoratti, pur criticando le torsioni neoliberali della resilienza, introduce un’alternativa: una resilienza fondata sulla cura come pratica politica, non sulla sopportazione. Questa “cura” non è una forma di compassione paternalista, ma una pratica costituente legami, che protegge i diritti e genera strumenti collettivi di autodeterminazione sociale.
Questa visione è condivisa anche da Bruno Latour, che nel suo ultimo pamphlet postumo ha lanciato il concetto di “classe ecologica”: una soggettività politica capace di coniugare resilienza e attivismo, consapevolezza e azione. Secondo Latour, l’emergenza climatica e tecnologica non può essere affrontata con i vecchi strumenti della modernità lineare; servono forme di potere situato, di resistenza civile e trasformazione non violenta. In questa cornice, la resilienza non è rassegnazione, ma capacità di orientamento collettivo, una lente attraverso cui riconfigurare le istituzioni democratiche.
Anche a livello delle politiche europee, la resilienza è stata riletta in chiave strutturale. L’articolo di Federica Giaquinta su “Agenda Digitale” sottolinea come la resilienza digitale non debba limitarsi a sviluppare abilità tecniche, ma deve includere consapevolezza critica, etica tecnologica e autonomia cognitiva. “La resilienza – scrive – deve essere riconosciuta come categoria giuridica sostanziale, fondata sull’inclusione attiva, la coesione territoriale e il diritto alla cittadinanza digitale”. Il concetto chiave è proprio questo: riappropriarsi della resilienza come diritto collettivo. Non una qualità “privata”, ma un’infrastruttura pubblica, culturale e normativa che abilita ogni cittadino a partecipare alla vita sociale, economica e istituzionale in modo attivo e informato. Una forma di autodifesa democratica, che si contrappone al populismo regressivo e alla delega tecnocratica.
In una società attraversata da crisi globali: sanitarie, ambientali, geopolitiche, la resilienza può essere l’unico linguaggio comprensibile per coniugare sicurezza e libertà, stabilità e trasformazione. Se sostenuta da visione politica, strumenti giuridici e risorse educative, può diventare il nucleo di un nuovo contratto sociale.
Nina Celli, 18 luglio 2025