Conflitto Trump-Harvard: pericolo per la libertà di pensiero
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Il secondo mandato di Donald Trump si sta caratterizzando – tra le altre cose – da uno scontro aperto con l’università di Harvard. Non si tratta di una disputa occasionale tra un’amministrazione repubblicana e un ateneo progressista. Si tratta, piuttosto, di una crisi costituzionale e culturale che mette in discussione il ruolo dell’università nella democrazia americana.
Harvard, fondata nel 1636 e considerata il faro dell’istruzione superiore globale, è da secoli più di un’università: è un’istituzione simbolica. È stata la culla di otto presidenti degli Stati Uniti, decine di giudici della Corte Suprema, premi Nobel e leader d’impresa. È il cuore pulsante di una tradizione accademica che ha posto la libertà intellettuale e la ricerca indipendente come valori fondanti della nazione. Ma nel 2025, questo simbolo è diventato un bersaglio.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Lo scontro tra Harvard e l’amministrazione Trump è la manifestazione visibile di una lotta ideologica per il controllo della cultura e del pensiero critico.
La posizione dell’amministrazione Trump si colloca in una visione politica che richiede trasparenza, pluralismo ideologico e aderenza ai principi di equità democratica.
La decisione di Trump di bloccare i finanziamenti alla ricerca per Harvard ha avuto impatto anche su ospedali, centri di eccellenza nella ricerca oncologica, pediatrica e neurologica.
Harvard è diventata, nel tempo, un centro egemonico di potere ideologico, dove la neutralità è sacrificata in nome di una visione politica dominante.
Harvard è il baluardo della libertà accademica contro l’ingerenza politica
La più antica università statunitense sta vivendo uno degli scontri più significativi della storia recente tra sapere e potere. Lo scontro tra Harvard e l’amministrazione Trump non è una semplice controversia burocratica o una divergenza sui fondi: è la manifestazione visibile di una lotta ideologica per il controllo della cultura e del pensiero critico.
Nel corso del 2025, l’amministrazione Trump ha adottato una serie di misure straordinarie contro Harvard: ha congelato oltre 2,3 miliardi di dollari in finanziamenti alla ricerca, ha tentato di revocare la certificazione SEVP che consente all’università di accogliere studenti internazionali e ha avanzato richieste inedite che comprendono “verifiche ideologiche” sui corsi, controlli sulle opinioni dei docenti e la chiusura dei programmi DEI (Diversity, Equity, Inclusion). Alan Garber, presidente dell’università, ha definito le richieste come “unmoored from the law”, fuori da ogni legalità costituzionale. In un messaggio alla comunità accademica, ha dichiarato: “Nessun governo, qualunque sia il partito al potere, dovrebbe decidere cosa possano insegnare le università, chi possano assumere o quali ricerche debbano perseguire”. Le parole di Garber sono un monito potente in un’epoca in cui la libertà accademica viene subordinata a interessi politici.
L’effetto di questo scontro non è solo interno all’ateneo. L’interruzione dei finanziamenti ha colpito centri medici affiliati come il Mass General, il Dana-Farber e il Boston Children’s Hospital. In gioco non c’è solo l’autonomia universitaria, ma anche la ricerca su malattie come il cancro e il diabete, come ricordato dal decano della Harvard Medical School, George Daley: “Questi fondi sono la linfa dell’innovazione medica americana. Sospenderli significa danneggiare l’intera società”.
L’interferenza governativa ha anche conseguenze globali. Harvard ospita più di 6.800 studenti stranieri, provenienti da oltre 140 paesi. La minaccia di revoca dei visti ha creato incertezza legale e psicologica, con studenti costretti a valutare il trasferimento o il rientro forzato nei paesi d’origine. Molti sono studenti ebrei o ricercatori palestinesi, stretti in una morsa ideologica in cui la tutela dell’identità viene usata come pretesto per misure discriminatorie.
Secondo Steven Levitsky, professore di Harvard e studioso di regimi autoritari, “l’attacco a Harvard è il simbolo della volontà di subordinare le istituzioni culturali al potere esecutivo”. L'università diventa così un capro espiatorio perfetto per un progetto politico che mira a ridefinire le coordinate del sapere pubblico. La resistenza di Harvard, quindi, non è solo una questione interna o finanziaria. È una difesa pubblica dei valori liberali, della pluralità di pensiero e del diritto delle università a essere luoghi autonomi di ricerca, critica e formazione.
Nina Celli, 17 luglio 2025
Harvard è l’esempio di autoreferenzialità delle élite accademiche
L’università di Harvard è simbolo di eccellenza e prestigio globale. Tuttavia, anche le istituzioni più autorevoli devono rispondere al principio della responsabilità pubblica, soprattutto quando ricevono miliardi in fondi federali provenienti dai contribuenti. La posizione dell’amministrazione Trump, seppur criticabile nei toni e nei metodi, si colloca all’interno di una visione politica che richiede trasparenza, pluralismo ideologico e aderenza ai principi di equità democratica.
Secondo diverse testate giornalistiche (“New York Times”, “Politico”, “Al Jazeera”), il governo ha chiesto a Harvard una serie di riforme che includono: assunzioni basate sul merito, la verifica della “diversità di opinione” nei corsi e nei centri di ricerca e l’eliminazione di programmi che promuovono una visione unilaterale o ideologicamente distorta della realtà accademica. Queste richieste, presentate sotto forma di lettera dal Dipartimento dell’Educazione, sono state definite da alcuni critici come un tentativo di “riformare dall’esterno” un sistema chiuso su se stesso. Linda McMahon, segretaria all’Educazione, ha scritto che Harvard “ha trasformato l’istruzione superiore in una parodia”, accusandola di pratiche di selezione opache e ideologicamente sbilanciate. Secondo McMahon, la storica università si comporterebbe come “un’istituzione finanziata pubblicamente ma gestita come un’aristocrazia intellettuale autoreferenziale”.
Queste critiche si inseriscono in una lunga linea di malcontento che attraversa non solo i corridoi della politica conservatrice, ma anche parte dell’opinione pubblica. Il dibattito sulla presunta mancanza di pluralismo nelle università elitarie è documentato da numerosi studi che evidenziano l’eccessiva omogeneità ideologica dei docenti e la marginalizzazione di visioni alternative, specie in ambito storico, sociale e politico.
Il caso delle proteste filopalestinesi esplose nei campus di Harvard nel 2024–2025 è stato un punto di svolta. Il governo ha accusato l’università di non aver protetto adeguatamente gli studenti ebrei da intimidazioni e atti discriminatori. In risposta, l’amministrazione ha avviato indagini e congelato fondi. In questo contesto, le misure federali — benché aggressive — sono presentate come strumenti di pressione legittima per difendere i diritti civili e non come semplice ritorsione politica.
Va inoltre considerato il peso finanziario dell’endowment di Harvard, pari a circa 53 miliardi di dollari. Il governo ha argomentato che un’università con un patrimonio così vasto non dovrebbe dipendere in maniera determinante da fondi pubblici. Questo punto è stato sottolineato anche da Trump stesso, che ha suggerito: “Harvard può benissimo continuare con le sue ricerche usando i soldi dei suoi donatori multimilionari”.
Le richieste dell’amministrazione Trump non rappresenterebbero, quindi, un attacco alla libertà accademica, ma una richiesta di responsabilità istituzionale. Il governo, in qualità di finanziatore, ha il diritto di esigere che i fondi siano usati in modo coerente con i valori democratici della Nazione. Ignorare questa dimensione rischia di alimentare la percezione che le università siano “torri d’avorio” impermeabili a ogni controllo pubblico.
Nina Celli, 17 luglio 2025
Le ingerenze governative sono un danno alla ricerca scientifica e al prestigio globale degli Stati Uniti
Quando il potere esecutivo impone criteri ideologici per la concessione dei fondi pubblici, la scienza smette di essere libera. E quando la vittima è Harvard, una delle università più influenti del mondo, le conseguenze travalicano i confini del campus e si riflettono sull’intero sistema scientifico ed economico americano. La decisione dell’amministrazione Trump di bloccare i finanziamenti federali alla ricerca accademica condotta da Harvard ha avuto un impatto senza precedenti. Oltre 2,2 miliardi di dollari in progetti scientifici sono stati sospesi, colpendo non solo l’università ma anche 11 ospedali affiliati, inclusi centri di eccellenza nella ricerca oncologica, pediatrica e neurologica. Questi fondi erano destinati a progetti che riguardano, tra le altre cose, lo sviluppo di farmaci contro l’obesità e il diabete, tecnologie di intelligenza artificiale applicate alla medicina e modelli predittivi per le pandemie. Come sottolineato nel rapporto United for Medical Research, ogni dollaro investito dalla NIH (National Institutes of Health) genera 2,56 dollari di ritorno economico, e nel solo 2024 ha attivato 94,5 miliardi di dollari in attività economica e sostenuto oltre 400.000 posti di lavoro. Il blocco, quindi, non è solo un attacco a un’università, ma a un ecosistema produttivo di conoscenza, innovazione e competitività globale. George Daley, decano della Harvard Medical School, ha definito l’interruzione dei fondi come un "atto autolesionista per la leadership biotecnologica americana", sottolineando come questo tipo di ricerca rappresenti il cuore dell’infrastruttura medico-scientifica statunitense, spesso in competizione diretta con paesi come la Cina.
In un contesto di crescente rivalità geopolitica, bloccare la ricerca accademica per motivi politici significa lasciare spazio a potenze straniere. Secondo numerosi rettori e analisti citati dal “New York Times” e da “Politico”, il messaggio lanciato agli studenti e ai ricercatori internazionali è che gli Stati Uniti non sono più un porto sicuro per il sapere libero. Già nel maggio 2025, numerosi studenti hanno dichiarato di volersi trasferire in Canada, Regno Unito o Australia per proseguire i loro studi. Questo esodo silenzioso sta compromettendo il ruolo di Harvard — e più in generale delle università statunitensi — come attrattori globali di talenti. L’effetto di queste politiche, avverte l’economista Daniel Gross (Duke University), è una contrazione strutturale della capacità innovativa nazionale.
L’intervento del governo non si è limitato al blocco dei fondi. Ha incluso richieste senza precedenti, come la sorveglianza elettronica degli studenti stranieri, l’analisi delle loro attività sui social media e la censura preventiva delle aree disciplinari ritenute ideologicamente deviate. Misure che — se accettate — creerebbero un precedente gravissimo per tutte le istituzioni accademiche che ricevono fondi pubblici.
Il prestigio di Harvard è stato costruito su secoli di autonomia intellettuale e apertura globale. Smantellarlo per motivi politici significa non solo indebolire un’università, ma compromettere la reputazione scientifica degli Stati Uniti.
Nina Celli, 17 luglio 2025
Harvard è un’università politicizzata, non neutrale
Per decenni, Harvard ha incarnato l’archetipo dell’eccellenza accademica americana. Tuttavia, questa immagine idealizzata ha oscurato una realtà che molti conservatori, ma anche alcuni intellettuali liberali, denunciano da anni: l’università è diventata, nel tempo, un centro egemonico di potere ideologico, dove la neutralità è sacrificata in nome di una visione politica dominante. Il conflitto con l’amministrazione Trump, iniziato formalmente con il congelamento dei fondi federali e la revoca della possibilità di accogliere studenti internazionali è solo l’ultimo atto di una crisi più profonda: quella della perdita di credibilità delle università come luoghi di confronto imparziale.
Come evidenziato da diverse indagini, Harvard ha mostrato tolleranza selettiva verso alcune forme di attivismo. Le proteste filopalestinesi che hanno attraversato il campus sono state spesso tollerate anche quando si sono trasformate in manifestazioni ostili verso studenti ebrei, con episodi documentati di esclusione, intimidazione e antisemitismo. La risposta dell’università è stata lenta e ambigua, portando l’amministrazione a intervenire con richieste concrete: protezione dei diritti civili, riforme disciplinari e cambiamenti strutturali.
Secondo quanto emerso da documenti ufficiali del Dipartimento dell’Educazione (ripresi da “Harvard Gazette” e “New York Times”), il governo ha richiesto l’istituzione di una supervisione esterna sui criteri di ammissione, l’introduzione di audit sulla diversità ideologica e il superamento delle politiche DEI, considerate discriminatorie nei confronti di studenti bianchi, asiatici o conservatori. Richieste che, sebbene criticate da molti, rispondono a una visione della democrazia liberale dove l’universalismo dei diritti deve prevalere sull’attivismo selettivo. Anche alcune voci interne all’università — riportate da “The Harvard Crimson” e “NPR” — hanno sollevato perplessità sul ruolo sempre più militante e normativo di determinati dipartimenti e centri di ricerca. Secondo alcuni membri della AAUP (American Association of University Professors), Harvard avrebbe progressivamente perduto la propria neutralità epistemologica, trasformandosi in un soggetto politico che si esprime sistematicamente in una sola direzione ideologica.
Il dibattito sul concetto di “diversità di pensiero” ha alimentato il dibattito: può una università pubblicamente finanziata permettersi di rappresentare una sola visione del mondo, ignorando correnti alternative? La risposta dell’amministrazione Trump è no. Per questo ha imposto una condizionalità nei fondi, similmente a quanto fatto con altre università come Columbia e Michigan, accusate anch’esse di bias sistematico.
Per l’elettorato trumpiano, colpire Harvard significa sfidare un’egemonia culturale percepita come distante, elitaria e autoreferenziale. In questo senso, la controversia rappresenta una battaglia non solo tra un governo e un’università, ma tra due visioni del ruolo della cultura nella società democratica: da un lato, l’idea di un sapere impegnato e progressista; dall’altro, l’esigenza di pluralismo, controllo e responsabilità pubblica.
Nina Celli, 17 luglio 2025