Nr. 367
Pubblicato il 10/07/2025

L'accelerazione tecnologica aumenterà la disuguaglianza come mai prima

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Nel giro di pochi anni, l’intelligenza artificiale è passata dall’essere una frontiera tecnologica per addetti ai lavori a una forza trasversale che sta ridisegnando le strutture stesse della nostra società. Non è più una questione di macchine intelligenti che giocano a scacchi o traducono testi: oggi l’IA scrive codici, valuta CV, redige contratti, elabora diagnosi, compone musica, gestisce magazzini, prende decisioni finanziarie. Ha conquistato settori che un tempo si credevano al sicuro dall’automazione, come le professioni intellettuali, creative e relazionali. Ma mentre celebriamo questo salto epocale, una domanda si fa sempre più urgente: chi vince e chi perde in questo nuovo ordine digitale?


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - La tecnologia è un motore di disuguaglianza salariale

L’accelerazione tecnologica sta ampliando la disuguaglianza economica come mai prima. Non lo fa in odo repentino, ma con l’erosione lenta e sistematica dei ceti medi e dei lavori “standardizzati”.

02 - L’intelligenza artificiale è una leva per l’inclusione, non per l’esclusione

Le tecnologie, se governate con intelligenza politica e visione strategica, possono diventare strumenti utili per ridurre le disparità esistenti.

03 - La sostituibilità algoritmica è un nuovo criterio di esclusione sociale

L’accelerazione tecnologica sta modificando il modo in cui la società misura il valore delle persone, rendendolo sempre più dipendente dalla loro “sostituibilità algoritmica”.

04 - è possibile un rapporto equo tra automazione e giustizia sociale

Pensare che la tecnologia da sola possa cambiare l'assetto della società non tiene conto della capacità degli uomini, delle istituzioni e delle comunità di adattarsi al cambiamento tecnologico.

05 - L’invisibilità digitale è la nuova frontiera della disuguaglianza globale

L’innovazione accelera la frattura sociale. L’accesso diseguale alle infrastrutture digitali e alle competenze necessarie per utilizzarle aumenta le disuguaglianze sociali.

06 - La disuguaglianza non è il destino tecnologico, ma una scelta politica

Le disuguaglianze non nascono dalla tecnologia. Questa può essere anche un’opportunità per ripensare radicalmente la distribuzione del potere, del reddito e delle conoscenze.

 
01

La tecnologia è un motore di disuguaglianza salariale

FAVOREVOLE

L’intelligenza artificiale e l’automazione stanno modificando il tessuto del lavoro e delle opportunità economiche, ma lo stanno facendo in modo profondamente ineguale. Il discorso pubblico tende a oscillare tra l’entusiasmo utopico per le infinite possibilità della tecnologia e l’allarmismo distopico sui robot che rimpiazzeranno ogni forma di lavoro umano. Tuttavia, nel mezzo di queste narrazioni, si sta consolidando una verità meno visibile ma più preoccupante: l’accelerazione tecnologica sta ampliando la disuguaglianza economica come mai prima. Non lo fa con un’esplosione spettacolare, ma con l’erosione lenta e sistematica dei ceti medi e dei lavori “standardizzati”, che hanno storicamente rappresentato la spina dorsale dell’equilibrio sociale nelle economie occidentali.
Secondo uno studio basato su dati di 240 regioni europee, pubblicato su “Lavoce.info”, l’adozione di tecnologie digitali emergenti ha prodotto effetti positivi sull’occupazione solo in termini netti aggregati. Ma da un’analisi approfondita, risulta che i lavoratori a media qualificazione – tecnici, impiegati, operatori con esperienza – sono quelli che stanno perdendo più terreno. Mentre crescono le opportunità per i lavoratori ad alta qualificazione, e in parte anche per quelli a bassa, gli intermedi stanno sparendo. È la “polarizzazione occupazionale”, la tendenza per cui il lavoro si concentra agli estremi della scala salariale e delle competenze, desertificando il centro. L’OECD ha confermato questo fenomeno nel suo Employment Outlook 2025: il 20% più qualificato della forza lavoro ha beneficiato di un aumento reale dei salari nell’ultimo decennio, mentre il resto ha visto stagnazione o peggioramento. È una redistribuzione al contrario, una frattura strutturale che si approfondisce a ogni ciclo innovativo.
Non si tratta di derive teoriche. Andy Jassy, CEO di Amazon, ha scritto in una comunicazione aziendale che nei prossimi anni l’impresa ridurrà la forza lavoro corporate “grazie ai guadagni di efficienza dell’intelligenza artificiale”. E Amazon è solo l’inizio. Le nuove AI generative non si limitano a velocizzare calcoli o gestire magazzini: imparano a scrivere email, generare testi, rispondere ai clienti, programmare, analizzare dati. Sostituiscono funzioni umane centrali nel lavoro cognitivo e relazionale. L’universo dei “colletti bianchi” – consulenti, creativi, copywriter, traduttori, perfino giornalisti – non è più al sicuro. L’élite professionale si ritrova improvvisamente sulla stessa china delle fabbriche automatizzate di vent’anni fa. Il mito del lavoro intellettuale come rifugio sicuro vacilla.
Al tempo stesso, chi già oggi vive al margine del mondo digitale – per mancanza di infrastrutture, competenze o reti sociali – rischia di essere definitivamente escluso. Il World Economic Forum stima che entro il 2030 ben 92 milioni di posti saranno eliminati. Non è solo una questione numerica: quei lavori sono occupati in larga parte da donne, persone nere, latinoamericane, immigrati, giovani senza laurea. L’AI non è neutra: riflette e amplifica le disuguaglianze esistenti, trasformandole in barriere tecnologiche. Il caso Amazon, con oltre 27.000 licenziamenti dal 2022, illustra perfettamente questo meccanismo. È l’efficienza come imperativo assoluto a guidare la rivoluzione, non la giustizia sociale.
Secondo Brian Albrecht, economista e autore del saggio Will AI Skyrocket Inequality?, l’intelligenza artificiale incarna un esempio perfetto di “skill-biased technical change”, un cambiamento tecnico che avvantaggia sistematicamente chi ha alte competenze e penalizza tutti gli altri. Se non si interviene con politiche pubbliche forti – redistribuzione fiscale, formazione gratuita, accesso universale alla connettività – l’innovazione diventerà un meccanismo di esclusione. Non solo di alcuni lavori, ma di intere classi sociali. La disuguaglianza smetterà di essere un effetto collaterale del progresso e diventerà la sua conseguenza strutturale. La tecnologia, in questa dinamica, non sarà il motore di un futuro condiviso, ma il selettore silenzioso di chi resta in corsa e chi viene scartato.

Nina Celli, 10 luglio 2025

 
02

L’intelligenza artificiale è una leva per l’inclusione, non per l’esclusione

CONTRARIO

La narrazione secondo cui l’intelligenza artificiale e l’automazione stiano inevitabilmente aggravando la disuguaglianza rischia di oscurare una verità più complessa: queste tecnologie, se governate con intelligenza politica e visione strategica, possono diventare strumenti utili per ridurre le disparità esistenti. Ciò è dimostrato da numerose esperienze in corso. È vero che ogni grande trasformazione comporta rischi di esclusione, ma è altrettanto vero che l’IA offre leve per correggere squilibri sociali, ampliare l’accesso a servizi essenziali e creare nuove traiettorie di inclusione economica e sociale.
Un esempio concreto di questa possibilità ci viene dal World Resources Institute, che nel suo rapporto del 2025 descrive come l’uso mirato dell’intelligenza artificiale stia migliorando la qualità della vita in comunità svantaggiate. In contesti con risorse limitate, le tecnologie digitali possono potenziare gli interventi sanitari, monitorare l’uso dell’acqua, prevedere catastrofi naturali e pianificare infrastrutture sostenibili. Il punto chiave è che tutto ciò accade solo quando la tecnologia viene progettata con un approccio locale, collaborativo e centrato sui bisogni dell’uomo. In queste condizioni, l’IA smette di essere uno strumento estrattivo e diventa un catalizzatore di sviluppo equo.
Anche sul fronte del lavoro, esistono evidenze che smontano la narrazione allarmistica. Uno studio pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale nel 2025, firmato da Ajay Agrawal, mostra come l’adozione dell’IA possa produrre effetti molto diversi a seconda del contesto. In un call center statunitense, ad esempio, l’introduzione di sistemi di supporto conversazionale ha portato a un aumento del 34% della produttività tra i lavoratori meno qualificati. Questi non sono stati sostituiti, ma sono stati addirittura potenziati. La tecnologia, in questo caso, ha colmato un gap di esperienza, riducendo le disparità interne al team. Questo esempio rivela un principio cruciale: l’IA non è né buona né cattiva in sé. È un amplificatore. A seconda di come viene implementata, può rafforzare o mitigare le disuguaglianze.
In ambito educativo, la tecnologia sta aprendo nuove vie alla personalizzazione dell’apprendimento, con potenzialità ancora tutte da esplorare. Le piattaforme basate su intelligenza artificiale possono adattarsi al ritmo e allo stile cognitivo di ogni studente, abbattendo le barriere tradizionali legate alla classe sociale o al contesto familiare. Se integrate in politiche pubbliche lungimiranti, queste soluzioni possono ridurre il fallimento scolastico, aumentare la mobilità sociale e contrastare la riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze. Il problema non è l’IA in sé, ma la sua distribuzione e accessibilità.
Anche nel mondo dell’impresa esistono casi virtuosi. Aziende come Brembo hanno dimostrato come l’intelligenza artificiale possa essere usata per innovare senza escludere, trasformando il know-how industriale in piattaforme di consulenza che valorizzano l’esperienza accumulata. La creazione di Brembo Solutions ne è un esempio: una divisione che trasferisce conoscenze e strumenti digitali a settori meno digitalizzati come il tessile o l’alimentare. Qui l’IA non cancella posti di lavoro, ma crea ponti tra industria avanzata e settori in trasformazione.
Il nodo centrale, dunque, non è l’intelligenza artificiale, ma le politiche pubbliche e le scelte aziendali che ne regolano lo sviluppo. Laddove mancano regolamentazione, investimenti in formazione e infrastrutture, la tecnologia diventa un acceleratore di disuguaglianza. Ma se questi elementi sono presenti, può diventare uno strumento di riequilibrio senza precedenti. Pensare che l’automazione sia intrinsecamente diseguale significa confondere il mezzo con gli scopi.
Grazie alla tecnologia oggi possiamo immaginare modelli alternativi di distribuzione della ricchezza e del sapere. Il rischio maggiore non è l’IA, ma la nostra incapacità di governarla in modo equo. L’opportunità che abbiamo davanti è storica: usare l’automazione non per escludere, ma per includere. Non per aumentare i profitti di pochi, ma per migliorare le condizioni di vita di molti. E questa non è una scelta tecnologica, ma politica.

Nina Celli, 10 luglio 2025

 
03

La sostituibilità algoritmica è un nuovo criterio di esclusione sociale

FAVOREVOLE

Nel dibattito sull’intelligenza artificiale ci si focalizza spesso sull’efficienza, sulla produttività, sui vantaggi economici per le imprese e i consumatori. Ma c’è un’altra dimensione, meno trattata ma altrettanto cruciale: l’effetto trasformativo che l’adozione massiva dell’IA sta avendo sul significato stesso del lavoro e sul modo in cui le persone si relazionano con il proprio ruolo sociale. L’accelerazione tecnologica non sta solo spostando le competenze richieste o cancellando professioni obsolete: sta modificando il modo in cui la società misura il valore delle persone, rendendolo sempre più dipendente dalla loro “sostituibilità algoritmica”. In altre parole, stiamo entrando in una fase in cui chi non può dimostrare di essere superiore – o almeno complementare – a un sistema automatizzato, rischia di perdere non solo il lavoro, ma anche lo status sociale che quel lavoro comportava.
Questo processo è già in atto e si sta manifestando in forme diverse. Come ha osservato il giornalista Paolo Manfredi in un articolo sul “Sole 24 Ore”, ciò che l’intelligenza artificiale rivela oggi sul nostro lavoro è più inquietante di quanto sembri: “non è tanto la macchina che diventa come l’uomo, è l’uomo che finisce per diventare come la macchina”. L’autore parla di un progressivo adattamento del lavoro umano alle logiche dell’efficienza, della standardizzazione, della prevedibilità. L’ambiguità, l’errore, la lentezza – elementi costitutivi dell’esperienza umana – diventano problemi da eliminare. Ma così facendo, ciò che viene marginalizzato non è solo una fascia di lavoratori, bensì tutto ciò che rende umano il lavoro: l’improvvisazione, il senso, la relazione.
La crescente dipendenza dalle AI nei processi decisionali sta anche generando una nuova forma di potere asimmetrico. I sistemi di intelligenza artificiale vengono addestrati su dataset selezionati, gestiti e controllati da pochissime aziende globali, creando un’architettura computazionale opaca e centralizzata. L’analista Michele Kettmaier ha parlato di una “tecnologia che si fa soggetto”, ribaltando il rapporto tra esseri umani e strumenti: “il problema non è se l’IA diventerà cosciente, ma chi decide cosa è etico e con quali poteri”. In questo contesto, i lavoratori si trovano schiacciati tra due forme di pressione: l’automazione delle funzioni operative e la tecnocratizzazione delle funzioni strategiche. Si perde così la possibilità di mediazione, di interpretazione, di critica.
Le disuguaglianze che ne derivano non sono più solo economiche o geografiche, ma esistenziali. I lavori ripetitivi vengono automatizzati, quelli cognitivi intermedi vengono “gommapiumizzati”, come li definisce Manfredi, ovvero resi standard e impersonali fino al punto da poter essere tranquillamente svolti da un’AI. Restano solo due estremi: da un lato, una minoranza di ruoli iper-specializzati o creativi ad alto valore aggiunto, spesso inaccessibili; dall’altro, una moltitudine di micro-mansioni, precarizzate e frammentate, esposte alla sostituibilità continua. La classe media professionale, che ha storicamente garantito coesione sociale, rischia di estinguersi, portando con sé il concetto stesso di progresso condiviso.
Ciò che aggrava ulteriormente questa dinamica è l’illusione che basti “riqualificarsi” per salvarsi. Studi come quello pubblicato su “ScienceDirect” nel 2025 dimostrano che anche in scenari simulati, dove l’automazione era esplicitamente identificata come causa della disuguaglianza, le persone mostrano solo una moderata propensione a sostenere politiche redistributive. Questo suggerisce che la retorica dell’adattamento individuale – “imparare a programmare”, “sviluppare soft skills”, “essere flessibili” – non è sufficiente. Serve una visione politica ampia che consideri l’impatto strutturale dell’IA sul mercato del lavoro e sulla dignità delle persone.
L’accelerazione tecnologica non sta solo creando nuove disuguaglianze economiche, quindi, ma sta ridefinendo i parametri stessi della disuguaglianza. La capacità di essere considerati “utili” in un mondo governato da logiche algoritmiche diventa la nuova linea di demarcazione. Non si tratta più di redistribuire reddito, ma di decidere chi ha diritto a partecipare alla società digitale e chi no. In questa lettura, la tecnologia non è neutra, è un moltiplicatore silenzioso di potere.

Nina Celli, 10 luglio 2025

 
04

è possibile un rapporto equo tra automazione e giustizia sociale

CONTRARIO

L’idea che ogni avanzamento tecnologico generi inevitabilmente la “distruzione” di qualcosa, in cui i deboli soccombono e solo i più forti si adattano è fondata su un pregiudizio. Questa visione trascura un elemento fondamentale: la capacità degli esseri umani, delle istituzioni e delle comunità di anticipare, progettare e adattare il cambiamento tecnologico. L’automazione, di per sé, non è una condanna per i lavoratori. È un processo che, se accompagnato da politiche attive del lavoro, può diventare uno strumento di transizione equa, capace di redistribuire competenze e opportunità, non solo rischi.
A conferma di questa prospettiva, l’OECD, nel suo rapporto 2025, ha evidenziato il ruolo cruciale delle politiche attive del lavoro (ALMP) e dei servizi pubblici per l’impiego (PES) nella gestione dell’impatto dell’innovazione tecnologica. In oltre la metà dei Paesi OCSE, sono già attivi programmi specifici che mirano a riqualificare i lavoratori colpiti dall’automazione, indirizzandoli verso settori emergenti, in particolare legati alla transizione verde e digitale. Non si tratta di iniziative isolate, ma di un cambio di paradigma in atto: dalla logica della protezione passiva del reddito alla promozione attiva dell’occupabilità. Corsi mirati, supporto alla mobilità geografica, incentivi per le imprese che assumono profili in riconversione: sono strumenti già sperimentati, in grado di mitigare gli effetti più duri della dislocazione tecnologica.
La Svezia, ad esempio, ha introdotto programmi di transizione che accompagnano i lavoratori nella fase di uscita e reingresso nel mercato, con risultati superiori alla media europea. In Grecia, i PES hanno integrato nuove piattaforme digitali per mappare in tempo reale domanda e offerta di competenze. In Irlanda, le politiche verdi e digitali sono state unificate in un unico schema nazionale di aggiornamento professionale. Questi casi mostrano che non è l’automazione in sé a generare disuguaglianza, ma l’assenza di un disegno pubblico forte e reattivo.
Un altro aspetto centrale riguarda la distribuzione geografica dell’impatto. La narrativa dominante tende a rappresentare il fenomeno come una marea uniforme che sommerge intere categorie. Ma i dati mostrano una realtà più articolata: l’esposizione alla tecnologia varia enormemente tra regioni, industrie e profili professionali. Il rapporto OCSE segnala che i lavoratori più a rischio non sono solo quelli meno qualificati, ma quelli le cui mansioni non evolvono da anni, in contesti produttivi statici. Laddove esiste innovazione organizzativa, aggiornamento continuo e cooperazione sindacale, la tecnologia tende a integrare, non a sostituire.
C’è poi un elemento spesso trascurato: l’IA non è solo un fattore che “sottrae” lavoro, ma può anche “umanizzare” il lavoro, rendendolo più ricco e significativo. Liberando le persone da compiti ripetitivi, può lasciare spazio a funzioni relazionali, creative, strategiche. Il problema non è la tecnologia, ma la scarsità di immaginazione sociale con cui la affrontiamo. Se concepiamo il lavoro solo come esecuzione, allora l’IA è una rivale. Ma se lo vediamo come espressione di valore umano, l’IA può diventarne un alleato.
Occorre riconoscere che la transizione tecnologica, per quanto rapida, non è mai istantanea. I processi di sostituzione si sviluppano nell’arco di anni. Questo tempo può essere usato per preparare le persone. Affermare che l’innovazione aggraverà necessariamente la disuguaglianza è una profezia che si autoavvera: deresponsabilizza, paralizza l’azione, alimenta il fatalismo. Invece, riconoscere la controllabilità politica del cambiamento è il primo passo per affrontarlo con coraggio.
L’accelerazione tecnologica non è una valanga da subire, ma un terreno da modellare. L’idea che essa generi automaticamente disuguaglianza è superficiale. Con gli strumenti giusti – politiche attive, governance partecipativa, formazione continua – possiamo trasformarla in un’occasione per costruire un mercato del lavoro più giusto, dinamico e resiliente. La storia dell’automazione non è ancora scritta, potrebbe essere anche una storia di inclusione.

Nina Celli, 10 luglio 2025

 
05

L’invisibilità digitale è la nuova frontiera della disuguaglianza globale

FAVOREVOLE

L’effetto dell’intelligenza artificiale sulla disuguaglianza non si manifesta solo attraverso la trasformazione dei ruoli lavorativi o il potere concentrato delle grandi piattaforme tecnologiche. Esiste un altro livello, più profondo e spesso invisibile, in cui l’innovazione accelera la frattura sociale: l’accesso diseguale alle infrastrutture digitali e alle competenze necessarie per sopravvivere in un’economia sempre più automatizzata. Non si tratta solo di chi viene rimpiazzato o di chi mantiene il lavoro, ma di chi può accedere alle opportunità stesse di partecipazione economica e culturale. In questa prospettiva, il divario non è solo tra chi ha e chi non ha, ma tra chi può evolvere insieme alla tecnologia e chi ne rimane escluso.
Secondo i dati pubblicati da ISPI nel 2025, oltre 2,6 miliardi di persone nel mondo risultano ancora offline. Nei Paesi a basso reddito, solo il 27% della popolazione ha accesso a internet, contro il 93% nei Paesi ad alto reddito. Tra le categorie più colpite spiccano donne e ragazze: nei Paesi a basso reddito, il 90% di loro non ha accesso al digitale. Questa esclusione non è solo tecnica o infrastrutturale, è sociale: senza accesso alla rete, le persone non possono formarsi, accedere a servizi, partecipare a bandi, cercare lavoro, interagire con le istituzioni. Nella nuova economia della conoscenza, la connessione non è un vantaggio, è una condizione minima di cittadinanza. Eppure, questa condizione resta negata a miliardi di persone.
Il divario digitale non si limita però ai Paesi poveri. Anche all’interno delle economie avanzate, esistono fratture evidenti tra aree urbane e rurali, tra centri ricchi e periferie, tra individui con background culturale diverso. Secondo il FMI, il punteggio medio dell’“AI preparedness index” è 0,68 nei Paesi sviluppati e 0,32 nei Paesi a basso reddito: un divario che si traduce in incapacità di sfruttare i benefici dell’automazione, ma anche nell’impossibilità di difendersi dai suoi effetti più duri. In mancanza di alfabetizzazione digitale e formazione avanzata, l’innovazione si trasforma in un meccanismo escludente. Mentre le élite digitali parlano di “democratizzazione della tecnologia”, le masse restano escluse dal linguaggio, dalle competenze e dalle risorse necessarie per usarla.
Un esempio emblematico di questa dinamica si osserva nell’ambito dell’educazione. Il World Economic Forum ha stimato che servirebbero investimenti fino a 1,4 trilioni di dollari per garantire connettività educativa globale. Ma senza un intervento politico deciso, questa cifra resterà sulla carta. E nel frattempo, generazioni intere crescono fuori dalla rivoluzione digitale. A ciò si aggiunge un altro paradosso: l’IA può anche aiutare a colmare il divario – basti pensare alle piattaforme educative adattive o all’analisi predittiva per interventi sanitari in aree remote – ma solo se viene progettata e distribuita in modo inclusivo. In caso contrario, diventa un moltiplicatore di distanza ed esclusione.
Il punto, allora, non è solo quanto sia avanzata una tecnologia, ma quanto sia accessibile a tutti. Le imprese che adottano IA in modo massiccio aumentano la produttività e il valore di mercato, ma rischiano di lasciare indietro territori, settori e gruppi sociali meno attrezzati. La geografia dell’automazione non è neutra: si concentra dove già esiste capitale umano e infrastrutturale, rafforzando le aree forti e svuotando quelle deboli. È una tendenza documentata anche dall’OECD, che segnala come l’adozione dell’IA sia fortemente correlata alla densità urbana, alla disponibilità di capitale e alla concentrazione di industrie ad alto contenuto tecnologico.
La narrativa dominante – quella dell’innovazione come forza intrinsecamente positiva – ignora questo squilibrio. Si dà per scontato che i benefici della tecnologia si diffonderanno spontaneamente, a cascata, attraverso la società. Ma non è così. Senza un’azione intenzionale, inclusiva, redistributiva, il gap si allargherà. Non solo tra Paesi, ma tra classi, tra generazioni, tra comunità. La vera disuguaglianza non sarà più nel reddito, ma nella capacità di esistere digitalmente. Chi è offline – o disallineato – non sarà solo povero, sarà invisibile. In un mondo dove l’IA prende decisioni su assunzioni, credito, sanità, educazione, essere invisibili significa essere esclusi non solo dal mercato, ma dalla società.
L’accelerazione tecnologica non sta creando un mondo più equo. Sta creando un mondo più veloce. E in un mondo più veloce, chi è lento o scollegato non resta semplicemente indietro, ma sparisce.

Nina Celli, 10 luglio 2025

 
06

La disuguaglianza non è il destino tecnologico, ma una scelta politica

CONTRARIO

L’innovazione non è un’entità autonoma, capace di plasmare il mondo a prescindere dalla volontà umana. La tecnologia appare come un uragano, che travolge le istituzioni, i lavoratori, le comunità e lascia dietro di sé solo fratture e polarizzazioni. Ma questa visione è miope e storicamente infondata. La storia dell’innovazione è anche una storia di contrattazione, adattamento, governance. Le disuguaglianze non nascono dalla tecnologia in sé, ma dalla scelta di ignorare o abbandonare la politica come strumento di mediazione. In questo senso, la tecnologia può essere anche un’opportunità per ripensare radicalmente la distribuzione del potere, del reddito e delle conoscenze.
Uno dei miti più resistenti è quello secondo cui l’intelligenza artificiale rappresenti un salto qualitativo tale da rendere obsoleti tutti i paradigmi regolativi precedenti. Ma a ben vedere, ogni rivoluzione tecnologica – dalla meccanizzazione agricola all’informatica – ha posto sfide simili: sostituzione di mansioni, spiazzamento di competenze, riorganizzazione dei flussi economici. Ogni volta, la risposta è stata l’innovazione istituzionale: dal welfare novecentesco al diritto del lavoro, dalla scuola pubblica all’imposta progressiva. Oggi, strumenti simili devono essere aggiornati. Invece di chiedersi se l’IA produrrà disuguaglianza, dovremmo chiederci quali istituzioni servono per prevenirla e correggerla.
L’idea che la tecnologia sia “troppo veloce” per la politica è stata usata spesso per giustificare l’inazione. Ma in realtà, sono proprio le tecnologie complesse come l’IA a richiedere una governance democratica forte. Diversi esperti, come Michele Kettmaier, hanno messo in guardia dal rischio che l’automazione diventi un’occasione per centralizzare il potere in poche mani – quelle che possiedono i dati, gli algoritmi, le infrastrutture. Per questo, occorre mobilitare gli strumenti della democrazia economica: trasparenza nei modelli, accesso equo alle risorse digitali, redistribuzione della ricchezza generata dall’automazione. La sfida non è impedire che l’IA venga usata, è impedire che venga usata senza responsabilità.
Un esempio paradigmatico di governance possibile viene dal modello europeo. L’AI Act, la normativa dell’Unione Europea sull’intelligenza artificiale, rappresenta un primo tentativo di definire limiti, obblighi e diritti in un campo in continua evoluzione. Ciò dimostra che la politica può ancora guidare la tecnologia, non solo rincorrerla. Allo stesso modo, il dibattito su una tassazione delle imprese ad alta automazione – proposta anche in contesti OCSE – apre lo spazio a una nuova fiscalità redistributiva, che riconosca il valore sociale del lavoro umano e lo compensi anche quando non è più “produttivo” nel senso tradizionale.
Anche le imprese stanno esplorando nuovi modelli. La cooperazione tra pubblico e privato in ambito formativo, la diffusione di pratiche di reskilling collettivo, l’adozione di principi ESG che includano l’equità occupazionale: sono segnali di un sistema in movimento. Alcune realtà stanno già sperimentando forme di co-governance algoritmica, in cui i lavoratori hanno voce sui criteri di automazione. Non si tratta di frenare il progresso, ma di umanizzarlo.
Occorre quindi rifiutare l’idea che l’innovazione debba semplicemente “accadere”. Esiste il diritto collettivo a decidere dove, quando e come introdurre una tecnologia, e soprattutto a valutare chi ne beneficia. Non siamo spettatori, siamo ancora, almeno in parte, protagonisti della direzione che prenderà il cambiamento.
Dunque, affermare che l’accelerazione tecnologica aumenterà inevitabilmente la disuguaglianza significa accettare una visione deterministica del futuro. Ma il futuro è una costruzione collettiva. Con le giuste regole, partecipazione e coraggio istituzionale, la tecnologia può essere non una minaccia, ma un campo di battaglia democratica.

Nina Celli, 10 luglio 2025

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