Libertà di espressione assoluta online
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Nel 1949, il filosofo Karl Popper scriveva: “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza”. Era un monito rivolto a una società ancora scossa dai traumi del totalitarismo. Oggi, in un’epoca in cui l’arena pubblica si è spostata quasi interamente nel cyberspazio, le parole di Popper suonano più attuali che mai. Internet è divenuto il nuovo spazio pubblico globale – un’agorà senza confini, senza autorità centrali, dove miliardi di persone si confrontano, si scontrano, si organizzano, si ascoltano o si ignorano.
In questo scenario affascinante e caotico, una domanda cruciale impegna giuristi, filosofi, tecnologi, attivisti e politici: la libertà di espressione online deve essere assoluta? Ovvero: dobbiamo accettare che qualunque contenuto, opinione, provocazione o persino menzogna possa essere condivisa, senza filtri, in nome della democrazia? Oppure la democrazia stessa richiede dei confini alla parola, per difendersi dalla violenza verbale, dall’odio organizzato, dalla disinformazione sistemica?

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
La possibilità di esprimere opinioni, critiche e idee senza censura preventiva è la condizione di base perché si formino opinione pubblica e dissenso, per bilanciare i poteri.
Una libertà assoluta di parola online rischia di trasformare internet in un ambiente tossico, dove le voci più aggressive prevalgono su quelle vulnerabili.
Le minoranze traggono vantaggio da uno spazio digitale non filtrato da autorità centrali. La censura, anche se motivata da buoni propositi, tende a colpire proprio chi ha meno potere.
La libertà assoluta di espressione online non si configura come un baluardo democratico, bensì come un moltiplicatore di caos cognitivo e sfiducia istituzionale.
Uno degli argomenti più forti a favore della libertà assoluta online è la necessità di resistere all’arbitrarietà dei filtri di entità private, il cui potere supera quello di molti Stati.
Le principali piattaforme online sono veri attori globali di governance. Garantire una libertà assoluta di espressione online è pericolosa: rafforza il potere di attori privati.
L’assoluta libertà di espressione online è il fondamento della democrazia moderna
Nel dibattito sulla libertà di espressione online, un argomento cruciale in favore della sua assolutezza è che essa costituisce un pilastro essenziale delle democrazie liberali contemporanee. La possibilità di esprimere opinioni, critiche e idee senza censura preventiva non è soltanto un diritto individuale: è la condizione di base perché l’opinione pubblica possa formarsi liberamente, il dissenso possa emergere e i poteri possano essere bilanciati.
Questa visione è radicata nella tradizione costituzionale degli Stati Uniti, dove il Primo Emendamento della Costituzione garantisce una protezione quasi assoluta al discorso, con pochissime eccezioni (come l’incitamento alla violenza imminente o la diffamazione). La Corte Suprema americana ha più volte ribadito che il “freedom of speech” è particolarmente prezioso quando protegge opinioni impopolari o offensive, proprio perché mette alla prova la tolleranza e la resilienza delle istituzioni democratiche.
Sarah Lee, in un articolo per “Number Analytics”, richiama le posizioni storiche di pensatori come John Stuart Mill e Noam Chomsky, per i quali ogni forma di limitazione alla parola rappresenta una minaccia latente alla libertà intellettuale. Per Mill, anche l’opinione più assurda va tollerata, perché solo dal confronto aperto può emergere la verità. Per Chomsky, “se non credi nella libertà di parola per chi disprezzi, allora non credi affatto nella libertà di parola”.
Il legame tra libertà di espressione e democrazia è evidenziato anche da “Brookings Institution”, che in un recente episodio del podcast Democracy in Question sostiene che “il diritto di protestare e di esprimere dissenso pubblicamente è indicatore dello stato di salute di una democrazia”. Vanessa Williamson, esperta di movimenti civici, sottolinea che il potere delle proteste e delle opinioni radicali online sta nella loro capacità di rompere il silenzio e mettere in discussione il potere. Senza uno spazio digitale libero, il dibattito politico risulta impoverito e asfittico.
Persino in contesti accademici, dove il discorso è tradizionalmente protetto, emerge la preoccupazione per un’erosione del pluralismo. Secondo un sondaggio riportato dall’Office for Students nel Regno Unito, un docente su cinque non si sente libero di esprimere opinioni controverse. Questa autocensura, aggravata dalla paura di reazioni online o disciplinari, rappresenta un segnale d’allarme sulla fragilità della libertà culturale anche negli ambienti più tutelati.
L’esperienza delle piattaforme social come X (ex Twitter), Meta o YouTube mostra che ogni intervento di regolamentazione – anche motivato da intenti legittimi – può facilmente sfociare in arbitrarietà o censura mascherata. Il Cato Institute, analizzando le decisioni del Meta Oversight Board, ha osservato che il 40% dei casi valutati ha portato alla restrizione di contenuti, spesso legati a opinioni “right-coded” (cioè di destra). Ciò solleva interrogativi sulla neutralità delle policy e sulla capacità delle piattaforme di garantire un vero pluralismo.
La libertà assoluta di espressione online, dunque, non è un’utopia anarchica, ma un presupposto imprescindibile per la vitalità democratica. Limitare il diritto di parola, anche con le migliori intenzioni, apre la strada alla delegittimazione del dissenso, alla concentrazione del potere comunicativo e alla manipolazione algoritmica della conversazione pubblica. Come ammoniva Chomsky: “la difesa della libertà di parola deve iniziare proprio da ciò che riteniamo più sgradevole”.
Nina Celli, 19 giugno 2025
L’assoluta libertà d’espressione online favorisce l’odio e mina la coesione sociale
La libertà di espressione è un diritto fondamentale, ma come ogni diritto in una società democratica, deve confrontarsi con i diritti altrui e con il bene collettivo. L’ipotesi di una libertà assoluta di parola online, cioè senza limiti di legge, algoritmi o moderazione, rischia di trasformare internet in un ambiente tossico, dove le voci più aggressive, organizzate e radicalizzate prevalgono su quelle vulnerabili. Le conseguenze non sono solo teoriche: si misurano in atti d’odio, isolamento sociale, discriminazione, radicalizzazione politica e, nei casi peggiori, violenza fisica.
Il Parlamento Europeo, in uno studio comparativo tra USA e UE (giugno 2025), mette in guardia dai limiti del modello americano, dove il Primo Emendamento garantisce ampia protezione anche al discorso d’odio. Secondo l’analisi, l’assenza di regolamentazione ha permesso la proliferazione di contenuti estremisti su piattaforme come X e YouTube, con effetti tangibili sulla sicurezza dei cittadini e sulla percezione delle minoranze. In contrapposizione, il modello europeo – basato su limiti proporzionati sanciti dalla CEDU – cerca di bilanciare la libertà di espressione con la dignità e l’integrità degli individui.
Questa preoccupazione è condivisa anche da organismi internazionali come il Consiglio d’Europa, che durante la No Hate Speech Week (giugno 2025) ha definito l’hate speech “una minaccia alla democrazia stessa”. Il Segretario Generale Alain Berset ha sottolineato il rischio che il linguaggio d’odio, se non contrastato, si trasformi in crimine, specialmente quando amplificato da algoritmi e contenuti generati da intelligenze artificiali. L’invito è stato a promuovere “regole trasparenti e proporzionate”, non come censura, ma come difesa attiva dei valori democratici.
Numerosi studi hanno documentato come le piattaforme non moderate diventino incubatori di odio organizzato. Il report dell’EFF (gennaio 2025) su Meta mostra che anche piccoli cambiamenti nelle policy possono aumentare la diffusione di messaggi denigratori contro minoranze LGBTQ+ o migranti. Le modifiche che consentono “discorsi esclusivi di genere” o “linguaggio insultante in contesti religiosi o politici” sono stati interpretati – e utilizzati – da gruppi radicali per legittimare l’offesa pubblica, generando una spirale di esclusione sociale e violenza verbale.
Anche nel contesto giudiziario, la libertà assoluta si è dimostrata insufficiente a prevenire l’abuso. Il caso dell’EFF e della canzone “Shoot the Boer” in Sudafrica, oggetto di controversia internazionale, mostra come la libertà di espressione possa essere utilizzata per legittimare simboli di aggressione. Sebbene la Corte Suprema sudafricana abbia stabilito che la canzone è protetta da “contesto storico”, molti attivisti ed esponenti politici hanno sottolineato che la sua reiterazione online, in ambienti polarizzati, favorisce un clima di tensione etnica e razziale.
Anche i dati parlano chiaro. Secondo il ministro sudafricano Senzo Mchunu, nel primo trimestre del 2025, 5 delle 6 persone uccise in ambienti rurali erano nere – contraddicendo la narrazione del genocidio dei bianchi. Tuttavia, quella narrazione è cresciuta online fino a spingere il presidente USA a offrire asilo politico a oltre 60 Afrikaner, diffondendo un’immagine distorta della realtà e acuendo le fratture geopolitiche.
L’idea di una libertà illimitata di parola online ignora il fatto che le parole non sono mai neutre: possono rafforzare identità, ma anche alimentare conflitti. Senza limiti legali o moderazione responsabile, internet rischia di diventare un’arma contro la coesione sociale e un campo minato per le minoranze. La libertà deve sì esistere, ma sempre in equilibrio con la responsabilità.
Nina Celli, 19 giugno 2025
Attraverso la non censura si proteggono le minoranze e il dissenso
Uno degli aspetti più delicati e controversi del dibattito sulla libertà assoluta di espressione online è il suo rapporto con le minoranze. A prima vista, potrebbe sembrare che lasciare spazio illimitato al discorso su internet favorisca la diffusione di odio o disinformazione contro gruppi vulnerabili. Tuttavia, un’analisi più approfondita mostra che proprio le minoranze – etniche, culturali, sessuali, politiche – traggono vantaggio da uno spazio digitale non filtrato da autorità centrali, pubbliche o private. La censura, anche se motivata da buoni propositi, tende spesso a colpire proprio chi ha meno potere.
Un esempio eloquente viene dall’esperienza della Electronic Frontier Foundation (EFF), che ha documentato numerosi casi in cui contenuti LGBTQ+ o legati a dissidenza politica sono stati rimossi arbitrariamente da piattaforme come Meta. Nell’articolo del 9 gennaio 2025, Jillian C. York denuncia come le modifiche alle politiche di contenuto di Facebook abbiano finito per aumentare la tolleranza verso discorsi discriminatori, pur promettendo maggiore apertura. I soggetti realmente penalizzati sono stati gli attivisti queer, i difensori dei diritti dei sex worker e le voci dissidenti nei confronti dei governi.
Una dinamica simile è stata descritta in un’altra analisi dell’EFF (18 giugno 2025), focalizzata sul mese dell’orgoglio LGBTQ+. Secondo il report, molti contenuti di educazione sessuale, autodifesa digitale e supporto psicologico per giovani queer sono stati sistematicamente censurati o “declassati” nei motori di ricerca delle piattaforme. Ciò ha avuto effetti concreti sulla capacità di questi gruppi di fare rete, ottenere risorse e difendersi da abusi. L’unico vero strumento di resilienza rimane, ancora una volta, la libertà totale di espressione online e l’uso di strumenti decentralizzati (VPN, reti P2P, forum criptati).
A sostegno di questa tesi interviene anche l’esperienza accademica. La guida dell’Office for Students nel Regno Unito sottolinea come molte opinioni “non ortodosse” – ad esempio critiche alla teoria gender o posizioni filosofiche minoritarie – vengano auto-censurate per paura di sanzioni, proteste studentesche o penalizzazioni nei finanziamenti. Questo clima ha un effetto raggelante (“chilling effect”) sull’innovazione intellettuale e sulla libertà pedagogica. In assenza di una protezione assoluta del discorso, le minoranze di pensiero sono le prime a soccombere.
L’esperienza politica internazionale rafforza ulteriormente il legame tra libertà assoluta e tutela del dissenso. In un’analisi del “Brookings Institution” sulla funzione della protesta in democrazia (giugno 2025), Vanessa Williamson afferma: “La protesta – inclusa quella digitale – è il sintomo vitale di una società libera. Gli autocrati non temono il dissenso individuale, ma il dissenso organizzato”. Questo principio si applica pienamente anche allo spazio digitale: ciò che le autorità (governi o piattaforme) temono è l’auto-organizzazione delle minoranze attraverso contenuti, hashtag, video, live stream e reti alternative.
Il caso dell’Oklahoma Supreme Court (giugno 2025), che ha stabilito l’illegittimità della censura accademica su temi razziali e LGBTQ+, dimostra che la libertà assoluta non è un nemico delle minoranze, ma una loro alleata. È grazie a questa libertà che studenti e docenti possono discutere apertamente di razzismo sistemico, colonialismo, identità di genere – e contribuire a un cambiamento culturale profondo.
Una moderazione troppo zelante, anche se ben intenzionata, quindi, rischia di trasformarsi in silenziamento delle stesse voci che pretende di difendere. La libertà assoluta online offre invece uno spazio aperto, in cui le minoranze possono parlare, organizzarsi e resistere. E in un’epoca in cui i margini di dissenso si restringono offline, proteggere questa libertà è una forma di autodifesa collettiva.
Nina Celli, 19 giugno 2025
La disinformazione sistemica è una minaccia alla democrazia
Se c’è un elemento che caratterizza l’infosfera del XXI secolo è la pervasività della disinformazione digitale. In un ambiente non regolato, dove chiunque può pubblicare qualsiasi cosa senza verifica, limiti o conseguenze, la quantità di contenuti falsi, fuorvianti o manipolatori cresce esponenzialmente, influenzando opinioni, decisioni politiche, voti e perfino il comportamento quotidiano dei cittadini. In questo scenario, la libertà assoluta di espressione online non si configura come un baluardo democratico, bensì come un moltiplicatore di caos cognitivo e sfiducia istituzionale.
Il “Brookings Institution”, nel suo approfondimento su proteste e salute della democrazia (giugno 2025), sottolinea che una democrazia può esistere solo se i cittadini possono ragionare su fatti condivisi. Senza una base comune di realtà, il dibattito politico diventa uno scontro tra narrazioni autoreferenziali, incapaci di interagire tra loro. Vanessa Williamson afferma chiaramente: “La disinformazione mina la possibilità stessa di scegliere consapevolmente al momento del voto, rendendo la democrazia un esercizio vuoto”.
Questo fenomeno è ben visibile nel caso delle affermazioni di Donald Trump sulla presunta “pulizia etnica dei bianchi” in Sudafrica. Come documentato dalla “BBC” (giugno 2025), tali dichiarazioni si sono propagate online senza alcun fondamento statistico. I dati del governo sudafricano mostrano che la maggior parte delle vittime rurali sono nere e nessuna forza politica o giuridica sudafricana ha mai parlato di “genocidio”. Tuttavia, la reiterazione continua di questo mito in forum, social, blog e ambienti criptati ha prodotto effetti reali: il riconoscimento di status di rifugiato a oltre 60 Afrikaner, tensioni diplomatiche tra USA e Sudafrica, e l’intensificazione del sentimento suprematista tra alcune fasce della popolazione americana.
La disinformazione online è potente perché sfrutta le emozioni. Algoritmi progettati per massimizzare l’engagement (piattaforme come X, Facebook, TikTok) tendono a promuovere contenuti polarizzanti, sensazionalisti, violenti o cospirazionisti. L’inchiesta del Cato Institute su Meta ha rilevato che la mancanza di una moderazione chiara ha portato a una distorsione selettiva del discorso pubblico: post moderati su vaccini, elezioni, minoranze venivano penalizzati o rimossi, mentre campagne orchestrate disinformative circolavano indisturbate sotto il radar degli algoritmi.
Anche i meccanismi giuridici hanno mostrato difficoltà nell’intervenire. L’EFF ha denunciato più volte la difficoltà di distinguere tra censura politica e controllo della disinformazione, ma questo non significa che la soluzione sia il laissez-faire. Al contrario, una cornice legale chiara, trasparente e rispettosa dei diritti fondamentali è l’unico modo per garantire che le piattaforme non diventino megafoni di menzogne. Il rischio non è solo quello di voti alterati, ma anche di panico sociale, discriminazioni, boicottaggi, intimidazioni e violenza.
Un esempio concreto di disinformazione massiva è l’uso dei social media da parte di alcuni movimenti populisti per diffondere fake news su migranti, crimini, vaccini o élite finanziarie. Il Parlamento Europeo evidenzia come questi contenuti, se non moderati, generano una spirale di sfiducia istituzionale e alimentano la radicalizzazione politica. L’assenza di limiti favorisce l’emergere di “ecosistemi informativi chiusi”, dove ogni fatto viene reinterpretato per confermare i pregiudizi del gruppo.
La libertà di parola, quindi, non può essere un alibi per tollerare la disinformazione sistemica. Come ogni diritto, anche quello all’espressione deve essere esercitato con responsabilità. Senza meccanismi di verifica, trasparenza e contrasto, l’ambiente online si trasforma in un campo di battaglia cognitivo, dove la verità perde terreno e la democrazia rischia di diventare ostaggio di chi grida più forte e mente meglio.
Nina Celli, 19 giugno 2025
Con la moderazione algoritmica privata c’è il rischio di arbitrarietà
La quasi totalità della comunicazione avviene su piattaforme private – social media, forum, sistemi di messaggistica – gestite da multinazionali con poteri editoriali e tecnologici enormi. In questo contesto, una libertà di espressione “moderata” non è più regolata solo da leggi statali o da principi costituzionali, ma da policy aziendali opache, algoritmi automatizzati e team di revisione senza trasparenza pubblica. Per questo, uno degli argomenti più forti a favore della libertà assoluta online è proprio la necessità di resistere all’arbitrarietà dei filtri imposti da entità private, il cui potere supera ormai quello di molti Stati.
Un caso emblematico è quello studiato dal Cato Institute, che ha analizzato le decisioni del Meta Oversight Board. Dei 100 casi valutati nel report del giugno 2025, ben il 40% ha portato alla restrizione della libertà di parola, spesso su contenuti etichettati come “right-coded speech” (cioè, politicamente conservatori o di destra). In particolare, i contenuti legati a temi controversi (immigrazione, identità sessuale, Islam) sono stati rimossi in misura sproporzionata, spesso senza spiegazioni coerenti.
Questo evidenzia un problema fondamentale: quando la moderazione è affidata ad algoritmi o policy flessibili, i criteri di rimozione sono soggetti a bias culturali, pressioni politiche, interessi economici e reazioni del pubblico. Secondo il Future of Free Speech Project, un’indagine federale della FTC sulle pratiche di moderazione delle piattaforme rischia di rafforzare la percezione che l’intervento pubblico o statale sia l’unica alternativa alla censura privata. Tuttavia, anche questo intervento rischia di produrre effetti distorsivi se non si fonda su un principio forte e chiaro: la parola dev’essere libera, sempre e comunque.
Le modifiche recenti alle policy di contenuto di Meta, denunciate da EFF (gennaio 2025), mostrano come il passaggio da una “tolleranza zero” a una politica più permissiva nei confronti di contenuti controversi non sia stato accompagnato da coerenza o trasparenza. Mentre venivano allentate le restrizioni su discorsi controversi su genere e orientamento sessuale, altri contenuti – come attivismo LGBTQ+ e dissenso politico – continuavano a essere moderati o eliminati. L’impressione è che la “libertà” concessa sia selettiva e guidata da logiche interne di marketing, relazioni pubbliche o politiche di conformità.
Persino documenti istituzionali, come il briefing del Parlamento Europeo su hate speech (giugno 2025), ammettono che le piattaforme operano in una “zona grigia” tra obblighi normativi e libertà editoriali, con strumenti come il Digital Services Act che delegano gran parte della moderazione a meccanismi privatizzati. In mancanza di garanzie chiare per l’utente, il rischio è che la moderazione diventi una forma di censura di fatto. La riflessione di John Rosenthal su “Claremont Review of Books” (gennaio 2025) è brutale ma efficace: “La libertà d’espressione su internet è morta nel momento in cui le piattaforme hanno accettato di sottomettersi a normative sovranazionali per non perdere l’accesso ai mercati”. Secondo Rosenthal, le grandi aziende non hanno obblighi costituzionali come gli Stati, e ciò le rende ancora più pericolose: possono chiudere account, rimuovere contenuti o alterare la visibilità di un messaggio senza doverne rispondere a nessuna autorità democratica.
Quindi, la libertà assoluta online è anche una difesa contro l’oligopolio editoriale delle piattaforme. In un mondo in cui la voce di miliardi di utenti dipende da decisioni automatizzate o policy flessibili, la richiesta di un diritto illimitato alla parola non è una provocazione ideologica, ma una necessità civile per evitare che pochi attori privati decidano cosa può o non può essere detto.
Nina Celli, 19 giugno 2025
Il potere delle piattaforme richiede limiti e responsabilità normative
Le principali piattaforme online – Meta, X, Google, TikTok – non sono semplici spazi di discussione, ma veri e propri attori globali di governance. Gestiscono miliardi di utenti, plasmano l’agenda pubblica, filtrano le informazioni e decidono chi può parlare e con quali regole. In questo scenario, l’idea di garantire una libertà assoluta di espressione online non solo è utopistica, ma anche pericolosa: rafforza il potere incontrollato di attori privati a discapito della trasparenza, della responsabilità e dell’equilibrio democratico.
Un esempio emblematico viene dall’analisi del Digital Services Act (DSA) dell’Unione Europea, approfondita da John Rosenthal su “Claremont Review of Books”. Secondo l’autore, il DSA rappresenterebbe una “vittoria della censura”. Tuttavia, dal punto di vista normativo, il DSA è uno sforzo per bilanciare la libertà di parola con la trasparenza algoritmica, la responsabilità della moderazione e la protezione degli utenti da contenuti nocivi. Senza regole come quelle proposte dall’UE, le piattaforme restano giudici e arbitri di se stesse, agendo in base a interessi economici, logiche di engagement e pressioni politiche variabili.
Questa dinamica è visibile anche nella recente causa intentata dalla piattaforma X (ex Twitter) contro lo Stato di New York, riportata da “The Guardian” (giugno 2025). La legge “Stop Hiding Hate” richiede alle aziende di dichiarare pubblicamente come gestiscono l’hate speech e la disinformazione, imponendo multe per la mancata trasparenza. Musk sostiene che tale obbligo viola il Primo Emendamento. Tuttavia, la legge non impone censura, ma accountability: sapere quali sono i criteri con cui una piattaforma rimuove o promuove certi contenuti è il minimo richiesto in una democrazia digitale.
Il paradosso della libertà assoluta è che, in assenza di regolamentazione pubblica, non si crea un’utopia di discorso libero, ma una realtà in cui le voci più potenti e organizzate monopolizzano la visibilità. Il rapporto del Cato Institute mostra che il Meta Oversight Board ha limitato contenuti “right-coded” in modo sproporzionato. Ma ciò non implica che serva libertà assoluta: implica che la moderazione deve essere soggetta a regole pubbliche e verificabili, non lasciata alla discrezionalità opaca delle Big Tech. Anche l’EFF, pur difendendo la libertà digitale, ha criticato le nuove policy di Meta (gennaio 2025) che rimuovono protezioni per gruppi vulnerabili. In nome della libertà, si è finito per permettere l’uso di insulti o esclusioni di genere, colpendo chi è più esposto. L’assenza di standard legali lascia ogni decisione nelle mani di team interni o algoritmi, senza controllo democratico. È il contrario della libertà: è oligarchia digitale.
Nel Regno Unito, l’Office for Students ha introdotto linee guida che distinguono chiaramente tra opinioni legittime e incitamento all’odio, sottolineando che solo i discorsi illegali possono essere vietati. Questa posizione, moderata ma efficace, dimostra che non serve imporre il silenzio, ma tracciare confini ragionevoli e pubblici.
La ricerca condotta dal Parlamento Europeo evidenzia che l’autoregolamentazione ha fallito: i codici di condotta firmati dalle piattaforme spesso restano inapplicati e la rimozione di contenuti dannosi avviene solo sotto minaccia di multe o di esclusione dal mercato. La regolamentazione non serve a censurare, ma a garantire parità di accesso, equità e responsabilità.
La libertà assoluta online, dunque, è un mito che nasconde la realtà: senza norme pubbliche, chi controlla le piattaforme controlla anche la parola. Difendere la democrazia digitale oggi significa chiedere più regole, più trasparenza e più controllo democratico.
Nina Celli, 19 giugno 2025