Il ruolo internazionale della premier Meloni
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Quando Giorgia Meloni ha assunto la guida del governo italiano nell’autunno del 2022, il contesto internazionale era tutt’altro che favorevole. L’invasione russa dell’Ucraina aveva già trasformato radicalmente l’equilibrio geopolitico europeo; l’inflazione e la crisi energetica scuotevano le fondamenta dell’Unione; l’Atlantico politico era attraversato da tensioni tra le amministrazioni statunitensi e Bruxelles; il Mediterraneo tornava a imporsi come crocevia di sfide strutturali: migrazioni, instabilità africana, competizione con Cina e Russia. In questo scenario, l’arrivo a Palazzo Chigi della prima premier donna della storia repubblicana italiana – e per giunta espressione di un partito post-conservatore – fu accolto con un misto di scetticismo e curiosità nelle cancellerie internazionali. Pochi, forse, avrebbero immaginato che nel giro di appena due anni Meloni sarebbe diventata una delle figure più visibili – e discusse – del panorama politico europeo.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Nel giro di poco più di due anni, l'Italia ha riacquisito una centralità nelle dinamiche euro-atlantiche e globali che mancava da tempo.
Con la Meloni, il numero delle missioni estere, la capacità di imporsi nei consessi multilaterali, il rilancio del ruolo geopolitico dell’Italia hanno rappresentato una svolta.
Il “Piano Mattei” rappresenta una delle mosse più significative della premier nel rilancio del ruolo internazionale dell’Italia, tentativo di ridefinire l’Italia come ponte tra Nord e Sud globale.
Dietro le foto con i leader mondiali, si nasconde una realtà più fragile: l’Italia fatica a sostenere una politica estera coerente, strategicamente efficace e influente.
Se agli esordi era guardata con diffidenza per le sue origini politiche, oggi Meloni è considerata la rappresentante di una nuova forma di leadership conservatrice.
La politica estera italiana ha assunto connotati sempre più personalizzati. La figura della premier ha occupato il centro della scena internazionale.
Lontana sia dal sovranismo radicale sia dall’europeismo acritico, Meloni ha scelto di mantenere l’adesione ai grandi consessi internazionali, ma con una postura autonoma.
Mentre l’Europa cerca maggiore coesione, l'Italia guidata da Giorgia Meloni si è mossa su un binario parallelo, spesso incerto, a volte disallineato. L’Italia è presente ma non protagonista.
Con Giorgia Meloni l’Italia ritorna al protagonismo strategico
Quando Giorgia Meloni ha assunto la guida del governo italiano nell’ottobre del 2022, pochi osservatori internazionali avrebbero previsto una trasformazione tanto rapida e profonda nella postura estera dell’Italia. Nel giro di poco più di due anni, il Paese ha riacquisito una centralità nelle dinamiche euro-atlantiche e globali che mancava da tempo. Al centro di questa evoluzione vi è una strategia coerente, fondata sull’idea che l’Italia possa e debba uscire dalla marginalità strategica e tornare a essere un attore attivo nei grandi snodi della diplomazia multilaterale, della sicurezza collettiva e della proiezione economica globale.
Secondo una mappatura dettagliata dell’Institute of New Europe, la premier Meloni ha effettuato 100 missioni internazionali in appena 850 giorni di governo. Queste visite non sono state meramente protocollari: al contrario, hanno toccato centri di potere decisivi come Bruxelles, Washington, Tokyo, Abu Dhabi e New Delhi. Sono stati rafforzati i rapporti con Stati Uniti e NATO, con Meloni che ha visitato gli USA sette volte, diventando l’unico capo di governo europeo invitato all’inaugurazione del secondo mandato di Donald Trump. Allo stesso tempo, si è aperto un canale strutturato con l’Indo-Pacifico, dove l’Italia ha sottoscritto intese strategiche con India e Giappone, in particolare nel campo della difesa e dell’innovazione tecnologica. La partecipazione al programma GCAP, che porterà alla produzione di un caccia di sesta generazione, testimonia l’ambizione italiana di posizionarsi al centro delle filiere industriali più avanzate.
Questa proiezione internazionale è stata accompagnata da una visione coerente della sicurezza collettiva. Meloni ha mantenuto l’impegno nei confronti dell’Ucraina, sia in ambito UE che NATO, assumendo il comando del battaglione alleato in Bulgaria e rafforzando la partecipazione italiana alla missione KFOR in Kosovo. Mark Rutte, nuovo segretario generale della NATO, ha definito l’Italia “un alleato saldo e affidabile”, riconoscendo il ruolo di Roma nel bilanciamento tra Est e Sud dell’Alleanza Atlantica.
Parallelamente, l’Italia ha dato vita a una strategia di presenza nell’Indo-Pacifico che non ha precedenti nella sua storia recente. Le missioni navali – come quella della nave Morosini – e le intese con ASEAN e IORA indicano un salto di qualità nella capacità dell’Italia di dialogare con attori extra-europei su basi di parità e non solo come appendice dell’Occidente. Il Mediterraneo allargato è stato ridefinito come “porta di accesso” ai teatri globali, grazie anche al Piano Mattei: un piano di cooperazione con l’Africa del valore di oltre 5 miliardi di euro, centrato su energia, agricoltura e stabilizzazione politica.
Gli esperti concordano nel ritenere che l’azione diplomatica italiana sotto la guida di Meloni si fondi su un “radicalismo pragmatico”, una formula che mescola fedeltà agli alleati tradizionali con una spinta verso l’autonomia strategica. Secondo il Carnegie Endowment, Meloni si propone come “voce europea a Washington”, ma senza abbandonare il vincolo comunitario. È una postura complessa, che implica equilibrio, ma che ha dato frutti concreti: l’Italia è tornata a sedere al tavolo dei grandi, con una visione coerente e un’agenda riconoscibile.
Non mancano certo le sfide. Il vincolo del debito pubblico, la fragilità demografica, le tensioni politiche interne sono elementi che limitano la capacità di manovra. Ma proprio in questo quadro si coglie il valore della strategia estera di Meloni: non una fuga in avanti, ma un tentativo strutturato di proiettare l’Italia dove può contare di più, ossia nelle sfere dove diplomazia, sicurezza ed economia si intrecciano.
La politica estera di Giorgia Meloni ha segnato una svolta nella tradizione italiana. Da osservatore passivo a protagonista multilivello, l’Italia è riuscita a inserirsi nei circuiti decisionali globali con una voce autonoma ma costruttiva. In un mondo attraversato da crisi e frammentazioni, la capacità di costruire ponti – tra Europa e USA, tra NATO e Indo-Pacifico, tra Nord e Sud globale – rappresenta una delle qualità più rilevanti della leadership italiana contemporanea. Se questa direzione sarà mantenuta, Roma potrà ambire a un ruolo sistemico che trascende il proprio peso economico, puntando sulla credibilità, sulla stabilità e sull’intelligenza strategica.
Nina Celli, 12 giugno 2025
Meloni tra Washington e Bruxelles, un’ambiguità che frena la leadership italiana in Europa
Quando Giorgia Meloni ha varcato la soglia di Palazzo Chigi nel 2022, ha portato con sé una promessa ambiziosa: far tornare l’Italia protagonista sulla scena internazionale. In effetti, il numero e l’intensità delle missioni estere, la capacità di imporsi nei consessi multilaterali e il rilancio del ruolo geopolitico dell’Italia hanno rappresentato, almeno sulla carta, una svolta. Ma se la quantità è fuori discussione, è la qualità della direzione scelta che solleva interrogativi. In particolare, la gestione ambigua del rapporto tra Unione Europea e Stati Uniti ha posto l’Italia in una posizione di crescente difficoltà strategica. Un’ambivalenza che rischia non solo di annacquare la visione italiana nel contesto europeo, ma anche di ridurre la sua influenza proprio nei momenti in cui la coesione tra i partner è più necessaria.
Il momento simbolico di questa ambiguità si è manifestato nel marzo 2025, durante il vertice di Londra sull’Ucraina. Mentre leader europei come Emmanuel Macron e Keir Starmer ribadivano con forza il sostegno compatto dell’Europa a Kyiv, Giorgia Meloni appariva visibilmente in difficoltà. In un contesto segnato dalle tensioni tra il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e Donald Trump – con quest’ultimo incline a una linea più morbida verso la Russia – Meloni ha scelto di non schierarsi apertamente. Il suo appello all’unità tra Europa e USA è suonato più come un auspicio che come una posizione politica netta. In quel frangente, l’Italia ha perso l’opportunità di mostrarsi leader di una risposta strategica comune europea. La sua esitazione ha alimentato la percezione che Roma fosse più interessata a conservare la sua intesa privilegiata con Washington che a consolidare l’unità del fronte europeo.
L’analisi del Carnegie Endowment sottolinea come Meloni abbia costruito una relazione diretta con Trump, partecipando alla sua seconda inaugurazione presidenziale e presentandosi come figura di collegamento privilegiato tra l’amministrazione americana e l’Europa. Ma la scommessa su questo doppio binario comporta rischi enormi. Non solo perché Trump rappresenta una visione politica apertamente ostile all’UE e ai meccanismi multilaterali, ma anche perché tale strategia mina la fiducia dei partner europei nei confronti di Roma. La presa di posizione pubblica di Macron, che ha auspicato “un’Italia forte accanto a Francia e Germania”, va letta proprio come un segnale d’allarme: la collocazione dell’Italia nei circuiti decisionali europei non può essere data per scontata.
Sul piano pratico, l’ambiguità si traduce anche in difficoltà strutturali. Secondo i dati NATO, l’Italia nel 2024 ha investito solo l’1,49% del PIL in difesa, ben al di sotto del target del 2% richiesto dall’Alleanza e distante dagli impegni di Francia, Germania e Regno Unito. In un contesto geopolitico in cui Washington chiede maggiori contributi agli alleati, questa debolezza rischia di ridurre il margine di trattativa dell’Italia. E mentre la retorica di Meloni cerca di posizionare il Paese come “cerniera strategica” tra USA e UE, le risorse reali – economiche, diplomatiche, militari – rimangono modeste. Con un debito pubblico al 136% del PIL, una crescita stagnante (0,7% nel 2024) e una diplomazia sottofinanziata, l’Italia si presenta spesso come attore con grandi ambizioni ma mezzi limitati.
Questa dissonanza tra aspirazioni e capacità si riflette anche nel campo simbolico. La figura di Meloni, spesso celebrata come icona della destra europea, è divenuta popolare tra i circoli conservatori americani, ma rischia di apparire isolata in Europa. Mentre la sua immagine cresce come “voce del radicalismo di governo”, come sottolinea l’Istituto Affari Internazionali, manca ancora una piattaforma solida che le consenta di guidare una coalizione europea. Il risultato è una strategia fluttuante, che oscilla tra spinte nazionaliste e necessità di legittimazione comunitaria.
Questa ambiguità strategica tra Bruxelles e Washington non solo indebolisce la coerenza della politica estera italiana, ma mina anche la possibilità per l’Italia di diventare un riferimento stabile in Europa. Se Meloni non chiarirà la direzione del suo europeismo rischia di perdere il doppio ruolo a cui aspira: quello di alleato di peso per gli USA e di leader riconosciuto nell’Unione. In tempi di instabilità globale, l’equidistanza non è una virtù, ma un limite.
Nina Celli, 12 giugno 2025
Il Piano Mattei: la strategia di Meloni per fare dell’Italia il ponte tra Europa e Africa
In un’epoca segnata da crisi migratorie, competizione geopolitica e insicurezze energetiche, Giorgia Meloni ha risposto con un’iniziativa che ha sorpreso tanto per ambizione quanto per rapidità di attuazione. Il “Piano Mattei”, battezzato con il nome del fondatore dell’ENI, rappresenta una delle mosse più significative della premier nel rilancio del ruolo internazionale dell’Italia. A differenza di molte politiche di cooperazione tradizionali, spesso sbilanciate o paternalistiche, questo piano propone una nuova visione strategica: creare un partenariato tra pari tra Italia e Africa, fondato su investimenti strutturali, sicurezza condivisa e sviluppo sostenibile. In questo senso, il Piano Mattei non è solo una proposta di politica estera, ma un tentativo organico di ridefinire la collocazione dell’Italia come ponte naturale tra Nord e Sud globale.
Lanciato ufficialmente a Roma nel gennaio 2024 con il primo vertice Italia–Africa, il Piano ha visto la partecipazione di 45 paesi africani e dell’Unione Africana. Durante l’evento, il governo italiano ha annunciato un investimento iniziale di 5,5 miliardi di euro, destinato a finanziare progetti nei settori dell’energia, dell’agricoltura, della formazione e delle infrastrutture. Ma la cifra è solo un indicatore simbolico: ciò che conta è la filosofia che guida questa iniziativa. Non si tratta di esportare un modello, ma di costruire sinergie dove le esigenze africane e le priorità italiane – dalla sicurezza energetica al contenimento dei flussi migratori – possano trovare convergenza.
Il piano ha già dato vita a una serie di azioni concrete. In Algeria, l’Italia ha siglato nuovi accordi con Sonatrach, rafforzando il suo ruolo di hub energetico per il gas in Europa. In Tunisia, la premier Meloni ha concluso un’intesa volta a combinare aiuti economici e controllo dei flussi migratori, in una logica che mira a trattare le cause profonde delle partenze e non solo a rafforzare le frontiere. Ancora, in Egitto e Libia, l’Italia ha rilanciato progetti infrastrutturali legati alla logistica energetica, ottenendo in cambio uno spazio crescente nel dialogo regionale.
Sul versante dello sviluppo, l’Italia ha sottoscritto due intese di grande impatto: una da 400 milioni di euro tra CDP e la Banca Africana di Sviluppo per finanziare l’agricoltura sostenibile; l’altra tra Leonardo e BF, che investiranno altri 400 milioni per portare alta tecnologia in quattordici Stati africani. A questi si aggiunge il centro agroalimentare in Mozambico, un progetto da 38 milioni che punta a rafforzare la sicurezza alimentare locale.
L’interesse per il Piano non arriva solo dai partner africani. In Europa, l’iniziativa è stata accolta con crescente attenzione: molti governi hanno chiesto incontri specifici per conoscere i dettagli operativi del piano, come confermato dal deputato Giangiacomo Calovini, relatore del progetto. Negli Stati Uniti, dove il tema Africa è storicamente marginale, il Piano Mattei ha suscitato interesse nei circoli strategici, anche grazie al prestigio guadagnato da Meloni in occasione del Global Citizen Award ricevuto dall’Atlantic Council.
Al di là della diplomazia, il Piano Mattei offre un ritorno immediato anche per gli interessi nazionali italiani. Sul fronte energetico, consente di rafforzare la sicurezza di approvvigionamento, in un momento storico in cui la dipendenza dalla Russia è divenuta un rischio geopolitico. Sul fronte migratorio, si propone come strumento alternativo ai meri respingimenti: un approccio sistemico che mette insieme sviluppo locale e contenimento delle partenze.
Con il Piano Mattei, dunque, Giorgia Meloni ha compiuto un’operazione duplice: ha dotato l’Italia di una piattaforma coerente e ambiziosa per la cooperazione con il continente africano e ha ridefinito la percezione internazionale del nostro Paese, non più come periferia dell’Europa, ma come hub tra Europa, Mediterraneo e Africa. In un mondo in cui l’Africa è tornata a essere campo di competizione tra potenze globali – Cina, Russia, Turchia, Paesi del Golfo – l’Italia ha risposto con una visione autonoma, realistica e proattiva. Una visione che, se attuata con coerenza, potrebbe lasciare un’impronta duratura nella politica estera italiana del XXI secolo.
Nina Celli, 12 giugno 2025
Retorica e apparenza: i limiti strutturali della proiezione internazionale di Giorgia Meloni
L’attivismo internazionale mostrato da Giorgia Meloni in questi anni ha senz’altro restituito visibilità all’Italia nel contesto globale. Ma al di là della scena, dietro le foto con i leader mondiali, le strette di mano al G7, le dichiarazioni altisonanti sull’unità dell’Occidente o sull’equilibrio transatlantico, si nasconde una realtà ben più fragile: nonostante i proclami, l’Italia fatica a sostenere nel lungo periodo una politica estera coerente, strategicamente efficace e influente. Questa difficoltà non è frutto di scelte ideologiche, ma di limiti strutturali che la narrazione mediatica non può eludere: risorse economiche limitate, apparati diplomatici sottodimensionati e un impianto istituzionale spesso più concentrato sul consenso interno che sulla coerenza geopolitica.
Il nodo più visibile è quello economico. L’Italia, come confermato da Eurostat, mantiene il secondo debito pubblico più alto dell’Unione Europea, con una percentuale che ha raggiunto il 136% del PIL nel 2024. Il deficit strutturale si accompagna a una crescita stagnante (stimata allo 0,7%), sostenuta quasi esclusivamente dai fondi europei del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che però scadranno nel 2026. La mancanza di una base economica autonoma e solida rende difficile sostenere una politica estera ambiziosa: ogni missione, ogni progetto, ogni cooperazione multilaterale diventa oggetto di difficile copertura finanziaria, con il rischio di restare una bella intenzione non seguita da azioni concrete.
A questo si aggiunge un problema più silenzioso ma altrettanto incisivo: la fragilità della diplomazia italiana. Secondo i dati del Ministero degli Esteri, l’Italia dispone di una rete diplomatica inferiore in dimensioni e mezzi rispetto a paesi come Germania, Francia o Regno Unito. Il personale è scarso, le sedi all’estero faticano a gestire le attività operative e spesso i dossier di politica estera vengono accentrati a Palazzo Chigi, rischiando la duplicazione di ruoli. Questa carenza incide direttamente sulla capacità dell’Italila di trasformare le dichiarazioni in linee d’azione durature.
Nel settore della difesa, la situazione non migliora. I dati della NATO parlano chiaro: l’Italia ha destinato nel 2024 solo l’1,49% del PIL alla spesa militare, ben al di sotto del 2% richiesto dagli standard dell’Alleanza Atlantica e distante dai numeri di Francia (2,06%), Germania (2,12%) e Regno Unito (2,33%). In un momento in cui gli Stati Uniti – soprattutto sotto una possibile seconda presidenza Trump – chiedono maggiori oneri agli alleati, questa debolezza strutturale rischia di rendere l’Italia meno ascoltata nei tavoli dove conta esserci davvero.
Non sorprende, dunque, che l’Italia – pur più presente sulla scena internazionale – fatichi a imporsi come punto di riferimento nei processi decisionali dell’UE e della NATO. Giorgia Meloni, pur con la forza comunicativa che l’ha resa riconoscibile, si è spesso trovata a rincorrere piuttosto che a guidare. Lo si è visto nel vertice di Londra sull’Ucraina, dove la sua reticenza nel condannare apertamente le ambiguità di Trump l’ha isolata dal fronte franco-britannico. Lo si è visto anche nella gestione del Piano Mattei, lodato per la sua visione ma ancora in fase embrionale dal punto di vista operativo, con fondi annunciati ma in gran parte ancora non erogati.
Vi è inoltre un tema che va oltre l’economia e le strutture: quello della coerenza. La politica estera richiede una narrazione univoca, che sappia tenere insieme parole e azioni, interessi e alleanze. Meloni, al contrario, oscilla tra la retorica della sovranità e la necessità di aderire ai vincoli europei; tra l’adesione atlantista e la fascinazione per il mondo trumpiano; tra l’ambizione globale e le fragilità locali. Questa oscillazione genera confusione.
La proiezione internazionale dell’Italia sotto Meloni, dunque, somiglia più a una corsa a ostacoli che a una marcia strategica. Senza un rafforzamento strutturale della macchina diplomatica, senza un impegno economico stabile e senza una visione unitaria condivisa anche dalle istituzioni, il rischio è che il protagonismo italiano resti confinato alla superficie mediatica. E che, nel lungo periodo, l’Italia finisca per essere vista non come un partner autorevole e stabile, ma come una voce discontinua nel concerto complesso della diplomazia globale.
Nina Celli, 12 giugno 2025
Giorgia Meloni, un nuovo modello di leadership femminile conservatrice
Nel 2024, l’Atlantic Council ha consegnato a Giorgia Meloni il prestigioso “Global Citizen Award”, riconoscendole un ruolo di primo piano nella ridefinizione dell’equilibrio geopolitico occidentale. A New York, davanti a una platea di 750 persone, la premier italiana ha tenuto un discorso che ha segnato un punto di svolta nella percezione della sua figura all’estero. Se agli esordi era guardata con diffidenza per le sue origini politiche e l’etichetta di “post-fascista”, oggi Meloni viene considerata da molti osservatori internazionali come la rappresentante di una nuova forma di leadership conservatrice, capace di coniugare determinazione politica, pragmatismo strategico e credibilità personale. Un esempio di come la comunicazione, se supportata da atti coerenti, possa trasformarsi in soft power.
Il riconoscimento internazionale di Meloni passa anche da una costruzione d’immagine attentamente calibrata. In un mondo dove la rappresentanza femminile ai vertici rimane ancora minoritaria, Meloni si presenta come figura anomala ma potente: madre, credente, autodidatta, priva di retorica femminista ma con uno stile di governo saldo, visibile e fortemente personalizzato. La sua presenza scenica si contrappone alla storica iper-mascolinità della politica italiana e internazionale. In questo senso, la sua ascesa rappresenta anche una svolta simbolica: per la prima volta nella storia repubblicana, una donna esercita un controllo totale sul potere esecutivo italiano ed è riconosciuta come tale anche a livello globale.
La sua figura ha attirato l’attenzione non solo delle istituzioni ma anche dei media internazionali. “Politico”, noto giornale statunitense tendenzialmente critico verso il conservatorismo europeo, ha indicato Meloni come “la persona più influente d’Europa” nel dicembre 2024. Lo ha fatto non tanto per adesione ideologica, quanto per riconoscimento del fatto che, a differenza di altri leader – da Macron a Scholz – Meloni è riuscita a rafforzare la propria base elettorale mentre consolidava la propria proiezione esterna.
Ma ciò che rende ancora più interessante questo caso è la capacità della premier di trasformare il riconoscimento personale in leva diplomatica. Il suo intervento all’ONU del settembre 2024, nel quale ha parlato di un “Occidente che deve risvegliarsi senza diventare prevaricatore”, è stato citato da numerosi osservatori come una delle più lucide analisi del disorientamento valoriale dell’Occidente post-pandemico. Le sue parole su immigrazione, sicurezza, governance dell’intelligenza artificiale sono state poi riprese – tra gli altri – dal premier indiano Narendra Modi, che ha invocato proprio una “governance globale sull’IA”, come già suggerito da Meloni davanti a Elon Musk.
Giorgia Meloni ha compreso prima di altri che la leadership globale del futuro si gioca su una combinazione di visione e riconoscibilità. In un mondo in cui le istituzioni internazionali sono sempre più sfidate e in cui i blocchi tradizionali (USA-Europa) devono reinventarsi, la capacità di incarnare un’identità chiara, credibile e coerente è diventata una moneta preziosa. In questo, la premier italiana ha saputo muoversi con intelligenza: legando le sue scelte a temi forti (Africa, difesa, energia), evitando lo scontro frontale con l’UE, ma senza rinunciare a una visione autonoma.
Naturalmente, ogni figura polarizzante porta con sé ambivalenze. Ma ciò che colpisce nel caso di Giorgia Meloni è l’equilibrio tra narrazione e concretezza: la sua immagine pubblica è sempre supportata da una presenza tangibile nei luoghi in cui si decide davvero. Che sia il G7, il Consiglio Atlantico o l’ONU, Meloni non si limita a presenziare: interviene, propone, polarizza.
Il ruolo internazionale della premier italiana non si fonda solo su scelte diplomatiche o investimenti strategici, ma anche – e forse soprattutto – sulla capacità di interpretare un ruolo simbolico in un’epoca in cui la leadership è anche immaginario collettivo. In un’Europa spesso afona e divisa, la voce di Meloni risuona con forza. Ed è proprio in questo spazio che la sua figura ha saputo ritagliarsi un posto nel panorama globale. Non come anomalia, ma come punto di riferimento di una nuova stagione conservatrice, femminile e proiettata oltre i confini italiani.
Nina Celli, 12 giugno 2025
Eccessiva personalizzazione della politica estera: una strategia ad alto rischio per l’Italia
Nella stagione politica inaugurata da Giorgia Meloni, la politica estera italiana ha assunto connotati sempre più personalizzati. La figura della premier ha occupato il centro della scena internazionale, non solo come capo del governo ma come simbolo incarnato di una visione politica, di un’identità ideologica e di un certo modo di intendere le relazioni internazionali. In molti casi, questo protagonismo ha portato visibilità e ha accresciuto il profilo dell’Italia nel mondo. Ma come ogni strategia fondata su una forte centralizzazione della leadership, anche questa comporta rischi concreti: il principale è quello di rendere la politica estera vulnerabile alla sorte di una singola figura politica, riducendo la continuità istituzionale, la profondità strategica e la capacità di costruire alleanze durature oltre il ciclo elettorale.
Il caso più emblematico è il rapporto tra Meloni e il presidente americano Donald Trump. Sin dai primi mesi del suo mandato, la premier italiana ha coltivato un canale diretto con il tycoon repubblicano, al punto da essere l’unico leader europeo presente alla sua seconda cerimonia di insediamento nel gennaio 2025. Questa vicinanza, costruita su affinità ideologiche e interessi strategici comuni, ha offerto a Roma un accesso privilegiato alla Casa Bianca. Ma ha anche posto l’Italia in una posizione ambigua: legare così strettamente la propria politica estera a un singolo leader americano – peraltro controverso e divisivo – significa accettare il rischio di essere trascinati in una logica di polarizzazione interna alla politica statunitense. In un sistema democratico maturo, la diplomazia dovrebbe mantenere una distanza critica da queste oscillazioni.
Il legame personale con Trump non è un’eccezione, ma parte di un modello ricorrente. Anche con altri leader internazionali, da Narendra Modi a Viktor Orbán, Meloni ha impostato relazioni bilaterali basate su canali informali, spesso guidati da una forte sintonia ideologica. Questa dinamica ha prodotto una sorta di “diplomazia per affinità”, efficace sul piano mediatico, ma fragile sul piano istituzionale. In mancanza di un’infrastruttura diplomatica forte, radicata nei ministeri e nelle ambasciate, queste relazioni rischiano di spegnersi non appena cambiano gli equilibri politici nei Paesi partner.
Un altro aspetto problematico è il rapporto intermittente con l’Unione Europea. Se da un lato Meloni si è dichiarata “pragmatica” nei confronti di Bruxelles, dall’altro ha spesso evitato di esporsi nei momenti chiave del dibattito europeo. Questo vale in particolare nei dossier più delicati, come la riforma del patto di stabilità o la creazione di una difesa comune europea. Anche in questi casi, l’approccio sembra più orientato alla gestione del consenso interno che alla costruzione di alleanze stabili e strutturate. Il risultato è una percezione crescente, tra molti partner europei, di un’Italia imprevedibile, guidata più dall’orientamento del momento della premier che da una strategia condivisa da tutto il sistema-paese.
L’effetto della personalizzazione estrema si avverte anche nella gestione del Piano Mattei per l’Africa. Pur essendo una delle iniziative più ambiziose promosse da un governo italiano negli ultimi decenni, il piano continua a essere comunicato come “la visione della premier”, senza una solida cornice istituzionale che ne garantisca la durata oltre il suo mandato. A differenza di altre politiche strutturali italiane – come quelle europee co-finanziate da Bruxelles – il Piano Mattei non è accompagnato da una governance plurale che coinvolga regioni, imprese, università e corpi intermedi. Così rischia di diventare, più che una strategia di Stato, un progetto personale, destinato a perdere forza con il mutare del ciclo politico.
Infine, c’è un rischio reputazionale. Una politica estera che ruota interamente attorno a un solo leader è vulnerabile alle critiche internazionali, alle fluttuazioni del consenso interno e ai cambi di scenario globale. In un contesto così dinamico e incerto, la resilienza si costruisce con istituzioni forti, processi inclusivi e visioni collettive. L’Italia ha bisogno di una diplomazia che sia più grande del suo governo pro tempore, capace di garantire continuità, credibilità e coerenza nel lungo periodo.
Nina Celli, 12 giugno 2025
Multilateralismo selettivo e realismo strategico: la nuova postura dell’Italia nei consessi internazionali
Nel corso della sua leadership, Giorgia Meloni ha ridefinito la posizione dell’Italia all’interno delle organizzazioni internazionali, adottando un approccio che si potrebbe definire “multilateralismo selettivo”. Lontana tanto dal sovranismo radicale quanto dall’europeismo acritico, Meloni ha scelto un percorso intermedio: mantenere l’adesione ai grandi consessi internazionali – NATO, UE, ONU, G7 – ma rivendicando, al loro interno, una maggiore flessibilità negoziale, una postura più autonoma e orientata al realismo degli interessi nazionali. In altre parole, l’Italia ha smesso di essere il “paese mediatore” per diventare un attore consapevole delle proprie priorità, disposto a sostenere la cooperazione multilaterale solo quando compatibile con i propri obiettivi strategici.
Questa scelta si è manifestata in diversi scenari. Nel 2024 e 2025, ad esempio, Meloni ha partecipato a tutti i principali summit multilaterali, dai vertici G7 alla sessione plenaria dell’ONU, dalle riunioni del Consiglio Atlantico fino agli incontri con la Commissione europea. Ma in ciascuno di questi contesti, la premier ha portato una linea chiara, ancorata a un’agenda precisa: sicurezza energetica, contenimento migratorio, difesa della competitività economica, rilancio industriale, equilibri geopolitici. Più che un’Italia schierata ideologicamente, si è vista un’Italia pragmatica, pronta a cooperare dove c’è utilità reciproca, ma anche capace di dissociarsi quando le condizioni non sono favorevoli.
Questo realismo si è espresso in modo esemplare nei rapporti con la NATO. Pur non raggiungendo ancora la soglia del 2% del PIL in spesa militare, l’Italia ha aumentato il proprio contributo operativo sul campo: guida il battlegroup NATO in Bulgaria, partecipa attivamente alla missione in Kosovo, rafforza la presenza nel Mediterraneo orientale. A fronte di risorse limitate, Meloni ha scelto di puntare su missioni visibili e politicamente significative, in linea con la strategia dell’Alleanza di bilanciare il fronte Est con quello Sud. Il segretario generale Mark Rutte ha pubblicamente elogiato il contributo italiano, definendo il nostro Paese “una colonna portante della sicurezza europea”.
Simile approccio è stato adottato anche in sede UE. L’Italia non si è schierata sistematicamente contro le proposte della Commissione, ma ha fatto valere le proprie esigenze su dossier critici: dalle modifiche al Patto di Stabilità alla governance del Green Deal, dalle regole su immigrazione e asilo fino alla strategia industriale europea. In ciascun caso, Meloni ha cercato di far pesare il ruolo dell’Italia, pur restando dentro il perimetro delle alleanze tradizionali.
Il multilateralismo selettivo ha consentito a Roma di mantenere relazioni trasversali: con Francia e Germania nei negoziati economici, con Polonia e Ungheria in ambito migratorio, con India e Giappone nel quadro indo-pacifico. Un’Italia flessibile, non allineata a blocchi rigidi, ma capace di costruire alleanze tematiche in base al contesto. Non è un caso che, nell’ultimo anno, Meloni sia stata ricevuta sia alla Casa Bianca da Biden che a Mar-a-Lago da Trump, che abbia incontrato Xi Jinping in Cina e Macron a Parigi, senza perdere la bussola degli interessi italiani.
Il riconoscimento di questa postura è arrivato anche da ambienti tradizionalmente critici. Il “Financial Times” ha definito l’Italia “una delle poche economie UE con una direzione strategica chiara”, mentre “Politico” ha sottolineato come “la coerenza pragmatica di Meloni l’abbia resa l’interlocutrice più stabile tra i grandi Paesi europei”. Perfino all’ONU, dove il linguaggio della cooperazione prevale sulla realpolitik, Meloni è riuscita a inserire la sua narrativa sull’Occidente “protagonista ma non arrogante”, con citazioni riprese da Modi, Musk e altri interlocutori globali.
Naturalmente, il rischio di un multilateralismo “a intermittenza” esiste. Ma rispetto a un passato in cui l’Italia oscillava tra allineamenti acritici e isolazionismo impotente, la postura adottata da Meloni rappresenta una sintesi operativa: un realismo che non rinuncia al principio, una visione internazionale che parte dall’interesse nazionale. In un mondo multipolare, dove le alleanze cambiano e i centri di potere si moltiplicano, questa flessibilità potrebbe essere non solo una necessità, ma una virtù. Ed è su questo terreno che si gioca oggi la credibilità dell’Italia: non più come semplice alleato, ma come architetto consapevole del proprio destino internazionale.
Nina Celli, 12 giugno 2025
L’Italia corre il rischio di marginalizzazione nei processi decisionali UE
Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha intrapreso un percorso di rafforzamento strategico. Le sfide globali – guerra in Ucraina, competizione tecnologica, instabilità nel Mediterraneo e nella regione indo-pacifica – hanno imposto ai Paesi membri di accelerare verso forme più integrate di difesa, politica industriale e autonomia strategica. In questo processo, molti osservatori si sarebbero aspettati un ruolo centrale da parte dell’Italia. Eppure, proprio mentre l’Europa cercava maggiore coesione, la politica estera italiana guidata da Giorgia Meloni si è mossa su un binario parallelo, spesso incerto, a volte disallineato. Il risultato è un’Italia presente, ma non protagonista. Un Paese che partecipa, ma che raramente guida.
Le occasioni mancate sono molte, a partire dalla Conferenza sulla Difesa Europea del marzo 2025, dove le proposte franco-tedesche per una difesa comune sono state accolte con freddezza da Roma. Mentre Francia, Germania e persino la Spagna spingevano per accelerare sulla creazione di strumenti condivisi – dalla mutualizzazione delle spese militari alla creazione di un fondo europeo per l’industria bellica – l’Italia ha mantenuto una posizione defilata, evitando impegni precisi. Non è stata un’assenza formale, ma politica: nel momento in cui si definiva l’architettura della sicurezza europea post-NATO-centrica, Roma è sembrata più interessata a preservare i legami con Washington che a contribuire a un disegno autonomo europeo.
Anche sul piano economico, la voce dell’Italia si è fatta più flebile. Nella trattativa sulla riforma del Patto di Stabilità, Meloni ha scelto una linea ambigua: da un lato ha promesso rigore, dall’altro ha chiesto flessibilità; ha invocato una “governance europea più equa”, ma senza proporre alternative strutturate. Alla fine, le decisioni sono state prese altrove, tra Berlino e Bruxelles, con Parigi come partner privilegiato. L’Italia, pur avendo il secondo debito pubblico d’Europa, non è riuscita a imporsi come leader di un fronte mediterraneo, né come mediatore tra Nord e Sud economico.
Il problema è che questa marginalizzazione non nasce da un complotto europeo, ma da una scelta di postura. La politica estera di Meloni ha privilegiato la visibilità globale – con viaggi in Asia, vertici bilaterali con Trump, interviste a testate americane – a discapito dell’investimento nei meccanismi lenti ma fondamentali dell’integrazione europea. I consigli sulla competitività, le riunioni ECOFIN, i tavoli energia e industria, sono stati trattati come dossier tecnici, raramente presidiati dal vertice politico. Il risultato è che l’Italia non siede più in modo stabile nei cosiddetti “gruppi guida” dell’UE: non fa parte del Weimar Triangle, non è interlocutore primario né di Macron né di Scholz, e nemmeno della presidente della Commissione Ursula von der Leyen.
Questa marginalità ha conseguenze molto concrete. Sul fronte della difesa, ad esempio, l’Italia rischia di restare esclusa dai nuovi strumenti europei di procurement militare. Sul piano industriale, ha faticato a ottenere risorse dal nuovo fondo sovrano europeo per le tecnologie verdi. Sui temi migratori, ha subito piuttosto che definito le nuove linee di regolazione. In sintesi: un Paese da cui ci si attenderebbe guida e invece si limita a reagire.
Il paradosso è che tutto ciò avviene mentre Meloni gode di un consenso personale molto alto in patria e viene percepita come una figura forte all’estero. Ma proprio questo rende il contrasto ancora più stridente: una leadership forte che, invece di tradursi in influenza sistemica, si rifugia nella gestione dell’immagine. E l’Europa, nel frattempo, va avanti senza l’Italia.
L’ultimo segnale è arrivato nel maggio 2025, quando il presidente del Consiglio Europeo, António Costa, ha convocato una riunione informale tra “gli Stati guida della nuova sovranità europea”: Germania, Francia, Spagna, Paesi Bassi, e – per la prima volta – Polonia. L’Italia non era tra gli invitati principali. Non per dimenticanza, ma perché non più percepita come attore centrale.
Nina Celli, 12 giugno 2025