Tassa sulla carne rossa per ridurre l’impatto ambientale
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Si tratta di una proposta tanto semplice quanto divisiva: tassare la carne rossa. Non per ragioni economiche, ma per finalità ambientali e sanitarie. L’idea è che la produzione e il consumo di carne bovina e ovina abbiano un costo collettivo — in termini di emissioni, deforestazione, consumo di acqua, malattie croniche — che oggi non si riflette nel prezzo pagato alla cassa. Una tassa mirata servirebbe dunque a colmare questo divario, scoraggiando i comportamenti più impattanti e incentivando alternative più sostenibili.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
L’impatto climatico della carne bovina è elevato. Qui che nasce l’idea di tassare la carne rossa, allo scopo di ridurne il consumo e orientare il mercato verso alternative più sostenibili.
Una meat tax rischia di colpire proprio le fasce più vulnerabili della popolazione, aggravando le disuguaglianze sociali anziché ridurle. Questo effetto è noto in come “effetto regressivo”.
Malattie croniche come diabete, patologie cardiovascolari e alcune forme di tumore sono in costante aumento, spesso sono riconducibili a un eccessivo consumo di carne rossa.
Le cosiddette "sin taxes" — tasse su fumo, alcol, bevande zuccherate — sono utilizzate per scoraggiare abitudini poco salutari o insostenibili, ma spesso si sono dimostrate inutili.
Se ben disegnata, una tassa sulla carne può non solo evitare effetti regressivi, ma addirittura diventare uno strumento di giustizia redistributiva.
Non tutta la carne né i sistemi di produzione sono uguali. Esistono pratiche di allevamento sostenibile che non aggravano la crisi climatica, anzi, possono essere una soluzione.
Tassare la carne rossa è una necessità ambientale per ridurre le emissioni e rispettare gli obiettivi climatici
Nel mondo della crisi climatica, ogni grado conta, ogni tonnellata di CO₂ risparmiata rappresenta un passo in avanti nella corsa contro il tempo. Eppure, vi è un settore che troppo spesso rimane ai margini del dibattito pubblico e delle azioni politiche: quello zootecnico, in particolare legato alla produzione di carne rossa. L’impatto climatico della carne bovina, infatti, è tanto elevato quanto sottovalutato. Ed è proprio da qui che nasce l’idea — supportata da numerosi studiosi ed enti internazionali — di introdurre una tassa specifica sulla carne rossa, allo scopo di ridurne il consumo e orientare il mercato verso alternative più sostenibili.
La carne rossa, secondo la FAO, è responsabile del 14,5% delle emissioni globali di gas serra, un dato che supera quello dell’intero settore dei trasporti. Questo accade perché gli allevamenti bovini emettono enormi quantità di metano, un gas serra 84 volte più potente della CO₂ nel breve periodo. A ciò si aggiunge l’enorme uso di risorse naturali: ogni chilo di manzo prodotto richiede circa 15.000 litri d’acqua e un consumo di suolo che contribuisce pesantemente alla deforestazione, soprattutto in aree vulnerabili come l’Amazzonia.
La dimensione del problema è confermata anche da uno studio recente pubblicato su “Nature Communications” (Bilotto et al., 2025), che analizza le possibilità di riduzione delle emissioni attraverso pratiche agronomiche. Il pacchetto di tecnologie analizzato ha permesso una riduzione del 37–69% delle emissioni nette in un'azienda zootecnica specializzata in carne bovina. Tuttavia, gli stessi autori sottolineano che l’effetto è limitato se non si interviene anche sulla domanda: senza una riduzione del consumo, le migliorie tecniche rischiano di essere un palliativo. La tassazione ambientale è uno strumento per internalizzare nel prezzo i costi ambientali oggi esternalizzati. Un’analisi dell’OECD del 2025 conferma che una carbon tax applicata al settore agricolo e forestale (AFOLU) è in media due volte più efficace dei sussidi nel ridurre le emissioni pro capite. Secondo lo studio, un incremento di 10 dollari per tonnellata di CO₂ può ridurre le emissioni del 4,6% nel lungo periodo. Applicando tale principio alla carne rossa, la tassa fungerebbe da stimolo economico per modificare le abitudini alimentari e indirizzare le risorse verso produzioni meno impattanti.
Iniziano a emergere esempi concreti. La Danimarca ha annunciato l’introduzione, dal 2030, di una tassa sulle emissioni del settore zootecnico: ogni tonnellata di gas serra sarà tassata inizialmente a 120 corone danesi (circa 16 euro), con un aumento previsto fino a 300 corone entro il 2035. Il gettito sarà reinvestito per finanziare la transizione verde degli agricoltori e sviluppare alternative alimentari sostenibili. Si tratta del primo tentativo strutturato di applicare il principio "chi inquina paga" al settore agricolo in modo esplicito, come riportato da “The Guardian” nel giugno 2024.
Questi segnali vanno letti in un quadro più ampio. Il rapporto IPCC del 2023 ha ribadito con forza che, senza una trasformazione profonda del sistema alimentare globale, sarà impossibile mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C. Cambiare dieta è uno degli interventi individuali più potenti, ma necessita di essere accompagnato da politiche pubbliche che facilitino e guidino questa trasformazione. La tassa sulla carne è uno di questi strumenti, forse il più efficace perché incide direttamente sul comportamento dei consumatori.
Naturalmente, una tale misura deve essere progettata con attenzione per evitare effetti indesiderati, ma ciò non può diventare un alibi per l’inazione. La crisi climatica impone scelte coraggiose e tempestive. E tra queste, la tassazione della carne rossa emerge non solo come un’opzione possibile, ma come una necessità urgente per salvare il clima e dare un segnale forte: i costi ambientali devono rientrare nel prezzo reale delle nostre abitudini alimentari.
Nina Celli, 20 maggio 2025
Una tassa sulla carne rossa rischia di penalizzare ingiustamente i redditi più bassi
Nel dibattito sull'introduzione di una tassa sulla carne rossa, l'obiettivo ambientale è certamente nobile. Tuttavia, è impossibile ignorare una delle obiezioni più forti e più legittime che emergono con forza da economisti, sociologi e osservatori politici: una meat tax, se non attentamente calibrata, rischia di colpire duramente proprio le fasce più vulnerabili della popolazione, aggravando le disuguaglianze sociali anziché ridurle. Questo effetto è noto in economia come “effetto regressivo”: quando una tassa incide maggiormente sui redditi bassi, non in termini assoluti ma in termini percentuali. Le famiglie con redditi più bassi, infatti, destinano una quota molto più elevata del proprio bilancio all'acquisto di beni di prima necessità — e tra questi vi è la carne. Per molte persone, la carne non è un lusso, ma un alimento centrale nella dieta, facilmente reperibile, ricco di calorie e proteine e culturalmente radicato. Introdurre una tassa che ne alza artificialmente il prezzo significa, nei fatti, colpire la spesa alimentare quotidiana di milioni di persone con minori margini di scelta.
Lo studio di Klenert et al. su “Nature Food” del 2023 lo ammette apertamente: una tassa sulla carne è, di base, leggermente regressiva. I ricercatori aggiungono che con meccanismi di redistribuzione (es. bonus alimentari, tagli su altri beni, incentivi plant-based) questa regressività può essere corretta, ma nella pratica la realizzazione di questi meccanismi è complessa e richiede un impegno politico e amministrativo non scontato. Le difficoltà sono molteplici: come si definiscono i criteri di accesso agli incentivi? Quali garanzie esistono affinché le famiglie più vulnerabili ricevano davvero le compensazioni? E soprattutto, come evitare che le misure di mitigazione diventino terreno fertile per burocrazia inefficiente o addirittura disuguaglianze mascherate da tecnicismi? La giustizia redistributiva, sulla carta, funziona. Ma nella realtà, spesso, inciampa nella complessità dei sistemi fiscali e amministrativi.
Inoltre, a livello comunicativo, una tassa sulla carne può essere percepita come un’imposizione ideologica da parte di élite urbane e ambientaliste su stili di vita radicati nelle classi lavoratrici. In Francia, il movimento dei gilet gialli ha dimostrato con forza come una politica climatica, se mal calibrata, possa esplodere in una crisi sociale. Anche nel caso danese, dove il piano per alimenti plant-based è tra i più avanzati al mondo, non mancano tensioni. Come riportato da “The Guardian”, la proposta del Consiglio Etico Danese di tassare la carne ha scatenato proteste tra agricoltori e allevatori, che temono per la sopravvivenza economica delle proprie aziende.
Inoltre, va considerato che i mercati alimentari sono interconnessi. Se si tassa la carne senza aumentare significativamente la disponibilità e l’accessibilità di alternative valide (sia sul piano nutrizionale che economico), il rischio è che i consumatori più poveri si rivolgano a soluzioni ancora peggiori: prodotti ultra-processati, ricchi di zuccheri e grassi, economicamente convenienti ma dannosi per la salute. In questo modo, la tassa sulla carne potrebbe finire per aggravare non solo le disuguaglianze economiche, ma anche quelle sanitarie.
Infine, bisogna riconoscere il legame identitario che molte persone hanno con la carne. In molte culture, mangiare carne è un atto sociale, simbolico, intergenerazionale. Trasformarlo in un comportamento da penalizzare fiscalmente senza un percorso di mediazione culturale rischia di alimentare resistenze e conflitti, anziché promuovere un cambiamento consapevole e condiviso.
Tassare la carne rossa per ragioni ambientali o sanitarie, dunque, è un’idea che, per quanto ben intenzionata, rischia di avere effetti profondamente iniqui se implementata in modo superficiale. Senza un robusto impianto di redistribuzione e senza una riflessione sulle implicazioni culturali e sociali della misura, si rischia di spingere ancora di più ai margini chi ha già meno potere di scelta, generando una nuova forma di disuguaglianza.
Nina Celli, 20 maggio 2025
Tassare la carne rossa è una strategia efficace per migliorare la salute pubblica e ridurre i costi sanitari
La salute pubblica è diventata uno degli snodi più critici per il futuro delle società moderne. Malattie croniche come diabete, patologie cardiovascolari e alcune forme di tumore sono in costante aumento, aggravando i bilanci sanitari nazionali e riducendo la qualità della vita di milioni di persone. Una parte significativa di queste malattie è legata a fattori dietetici, tra cui l’eccessivo consumo di carne rossa, in particolare quella lavorata. Ed è proprio in questo contesto che l’introduzione di una tassa sulla carne rossa trova una potente giustificazione sanitaria, oltre che ambientale.
Secondo uno studio condotto dall’Università di Oxford e pubblicato nel 2018, se i prezzi della carne rossa riflettessero i costi sociali legati alle malattie che essa contribuisce a causare, il consumo diminuirebbe del 16% a livello globale. Gli autori stimano che una tassa del 20% sulla carne non lavorata e del 110% su quella trasformata potrebbe evitare 220.000 decessi ogni anno, con un risparmio di oltre 41 miliardi di dollari in costi sanitari legati a cure e trattamenti medici.
Ma tassare la carne rossa ha un valore anche simbolico: rappresenta un messaggio chiaro da parte delle istituzioni verso una nuova responsabilità collettiva. Quando uno Stato decide di tassare un bene, lo fa perché quel bene genera danni collettivi. È già successo con il tabacco, con l’alcol, e persino con le bevande zuccherate in alcune nazioni. Perché allora non applicare lo stesso principio alla carne rossa, che è associata a un rischio aumentato del 18% per malattie cardiovascolari e del 17% per alcuni tumori, come affermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità?
Un’altra considerazione importante riguarda l’effetto di una tassa sulla carne in termini di prevenzione. Le politiche sanitarie preventive sono, nel lungo periodo, molto più efficaci ed economiche rispetto alle strategie curative. Ridurre il consumo di carne rossa significa non solo diminuire l’incidenza di malattie croniche, ma anche alleggerire i sistemi sanitari, liberarli da una parte della pressione crescente legata all’invecchiamento della popolazione e ai costi crescenti dei farmaci. I dati a supporto non mancano. Uno studio pubblicato su “Nature Food” nel 2023 ha confermato che una meat tax ben disegnata non solo ridurrebbe il consumo, ma avrebbe anche effetti positivi sulla dieta media della popolazione. Se accompagnata da misure di redistribuzione (es. incentivi per alimenti vegetali o sconti su frutta e verdura), la tassa sulla carne può spingere i consumatori verso scelte più salutari, democratizzando l’accesso a diete equilibrate e nutrienti. In Danimarca, l’esempio è concreto. Il governo ha deciso non solo di tassare le emissioni del settore agricolo, ma anche di finanziare programmi di educazione alimentare, innovazione nelle alternative vegetali e formazione professionale per i cuochi del futuro. Il primo corso universitario per chef vegani, istituito a Copenaghen, è solo una delle tante misure simboliche ma efficaci adottate per promuovere un cambio culturale, oltre che dietetico.
È fondamentale notare che la tassa sulla carne non agisce in isolamento. Essa deve far parte di una strategia più ampia, integrata e progressiva di salute pubblica, che coinvolge scuola, informazione, commercio e ricerca. La trasformazione del sistema alimentare, così come quella energetica, richiede tempo e strumenti differenziati. Ma iniziare a disincentivare ciò che nuoce alla salute è un primo passo logico, equo e potenzialmente rivoluzionario. Una tassa sulla carne rossa, quindi, non è solo una misura ambientale. È una scelta sanitaria, culturale e preventiva.
Nina Celli, 20 maggio 2025
Le tasse comportamentali, come quella sulla carne, rischiano di essere inefficaci e produrre effetti controproducenti
Nel campo delle politiche pubbliche, le cosiddette "sin taxes" — tasse su comportamenti ritenuti dannosi come fumo, alcol, bevande zuccherate — hanno una lunga storia. Sono spesso utilizzate per scoraggiare abitudini poco salutari o insostenibili, agendo attraverso un meccanismo semplice: aumentare il prezzo per ridurne il consumo. L’idea di estendere questo approccio alla carne rossa si inserisce in questa tradizione, ma presenta peculiarità che la rendono molto più problematica, tanto da far sorgere dubbi sulla sua efficacia e sui suoi effetti collaterali. Un esempio emblematico viene dalla Danimarca. Nel 2011, il paese scandinavo introdusse la cosiddetta “fat tax”, una tassa sui prodotti ad alto contenuto di grassi saturi. L’intento era di migliorare la salute pubblica attraverso un disincentivo economico. Ma l’esperimento si concluse appena 15 mesi dopo, con la revoca della misura. I motivi erano gli effetti collaterali inaspettati: i consumatori cominciarono a fare acquisti oltre confine per eludere la tassa, le piccole imprese alimentari subirono cali di vendite e l’opinione pubblica si rivolse contro la misura, percependola come punitiva e inefficace.
Uno studio del 2023 pubblicato su “arXiv” ha analizzato gli effetti reali della fat tax danese. I dati rivelano che, sì, ci fu una diminuzione del consumo di alcuni alimenti grassi — come pancetta e formaggi — ma anche un aumento delle spese su altri beni e un cambiamento nei comportamenti di acquisto che ha ridotto l’efficacia sanitaria della tassa. In altre parole, le persone non smettono di mangiare male solo perché qualcosa costa di più: spesso riorientano i propri consumi su beni ugualmente poco salutari, ma non tassati.
Traslando questa esperienza sul dibattito della meat tax, emergono preoccupazioni simili. Tassare un alimento come la carne, che ha un forte valore culturale, identitario e nutrizionale, rischia di generare resistenze, elusioni e comportamenti compensatori. Le persone potrebbero rivolgersi a carni meno costose ma più lavorate, a prodotti ultra-processati o a fonti proteiche meno equilibrate. Inoltre, vi è il rischio che le abitudini non cambino affatto nelle fasce più abbienti, mentre quelle più povere si trovino costrette a rinunciare senza alternative valide, aggravando le disuguaglianze già esistenti.
Le tasse comportamentali hanno poi una caratteristica ambigua: per essere davvero efficaci nel cambiare comportamenti, devono essere alte. Ma tasse alte sono impopolari, rischiano di generare malcontento e possono essere facilmente strumentalizzate politicamente. Al contrario, tasse troppo basse finiscono per essere poco più di un simbolo, incapaci di modificare davvero le scelte dei consumatori.
C’è poi il tema dell’effetto “rebound”: il denaro che i consumatori “risparmiano” smettendo di acquistare carne può essere speso in altri beni ad alto impatto ambientale, come prodotti importati, snack confezionati o beni di consumo a ciclo breve. Senza una strategia integrata che accompagni la tassazione con educazione, accesso a cibi alternativi e trasformazione della filiera produttiva, la tassa sulla carne rischia di agire su un solo tassello del sistema, ignorando la complessità delle interazioni tra economia, cultura e ambiente.
L’esperienza delle tasse comportamentali dimostra che l’introduzione di una meat tax richiede più di una semplice alzata del prezzo. Richiede una profonda analisi degli effetti collaterali, dei cambiamenti nei comportamenti di consumo e delle reazioni politiche e culturali. Altrimenti, il rischio concreto è che una misura nata per aiutare il pianeta si trasformi in uno strumento inefficace, divisivo e, nel peggiore dei casi, controproducente.
Nina Celli, 20 maggio 2025
Una tassa sulla carne rossa può essere equa e socialmente accettabile se ben progettata
Nel dibattito sulle politiche ambientali, l’equità sociale è spesso la variabile più delicata. Ogni misura fiscale che incide sui beni di consumo essenziali — come il cibo — rischia di scontrarsi con una dura realtà: le famiglie a basso reddito destinano una quota maggiore del proprio bilancio all’alimentazione, e ogni aumento dei prezzi può trasformarsi in un ostacolo quotidiano. È per questo che l’idea di tassare la carne rossa genera reazioni contrastanti. Ma ciò che spesso si trascura è che, se ben disegnata, una tassa sulla carne può non solo evitare effetti regressivi, ma addirittura diventare uno strumento di giustizia redistributiva.
Uno studio pubblicato su “Nature Food” nel 2023 ha analizzato gli effetti distributivi di diverse strutture di meat tax nei paesi europei. I risultati iniziali mostrano che, senza correttivi, la tassa ha un effetto leggermente regressivo: le famiglie a basso reddito ne sopportano il peso in proporzione maggiore. Tuttavia, lo studio sottolinea anche che, se i proventi fiscali vengono redistribuiti tramite sussidi alimentari o riduzioni su altri beni essenziali, l’effetto si azzera o addirittura si inverte, diventando progressivo. Non è la tassa in sé a essere iniqua, ma il modo in cui i suoi ricavi vengono impiegati.
Questo approccio è già stato sperimentato in alcuni paesi. La Danimarca, ad esempio, sta applicando una strategia integrata: alla tassa sul carbonio per le emissioni agricole affianca investimenti massicci in educazione alimentare, innovazione vegetale e sostegno alle famiglie. Il piano d’azione per promuovere alimenti plant-based ha ricevuto 170 milioni di euro in finanziamenti pubblici, destinati a trasformare il sistema agroalimentare in modo inclusivo. Come racconta “The Guardian”, il paese ha persino istituito il primo corso universitario per chef vegani, segno che il cambiamento non è solo economico, ma anche culturale.
Un altro aspetto cruciale è il consenso sociale. Secondo uno studio condotto da Erhard, Banerjee e Morren (Università di Göttingen, 2024), l’accettazione pubblica di una tassa sulla carne aumenta significativamente se la misura è accompagnata da interventi comportamentali e fiscali ben comunicati. Le campagne di informazione, l’etichettatura ambientale e l’utilizzo dei proventi per migliorare il sistema sanitario o l’educazione alimentare sono tutti fattori che aumentano il sostegno popolare alla tassazione. L’opinione pubblica, infatti, è più favorevole a una tassa percepita come strumento di miglioramento collettivo, piuttosto che come imposizione punitiva.
Non meno importante è il ruolo dell’innovazione e dell’accessibilità. Una tassa sulla carne ha senso solo se affiancata da politiche che rendano disponibili alternative valide: proteine vegetali, alimenti locali sostenibili, mense pubbliche bilanciate. In questo modo, la scelta di ridurre il consumo di carne non sarà imposta, ma favorita da un contesto economico e sociale che ne riconosce il valore. La giustizia ambientale non può prescindere dalla giustizia sociale.
Consideriamo inoltre l’impatto culturale. L’idea che una tassa possa educare i consumatori potrebbe sembrare paternalistica, ma è in linea con molte politiche pubbliche che abbiamo ormai accettato: le cinture di sicurezza obbligatorie, le accise sul tabacco, le restrizioni sulle bevande zuccherate. Se accettiamo l’idea che lo Stato debba proteggere la salute collettiva e l’ambiente, allora dobbiamo riconoscere che anche una tassa sulla carne — se progettata con attenzione e partecipazione — rientra legittimamente in questo orizzonte di responsabilità.
Una tassa sulla carne rossa, quindi, non è per forza iniqua. Può, al contrario, diventare un’opportunità per redistribuire risorse, educare i consumatori, incentivare la produzione sostenibile e costruire un patto sociale nuovo tra cittadini, istituzioni e ambiente.
Nina Celli, 20 maggio 2025
L’allevamento sostenibile rappresenta un’alternativa più efficace e giusta della tassazione indiscriminata sulla carne rossa
Nell’era della transizione ecologica, l’attenzione si concentra spesso sulla necessità di ridurre — o addirittura eliminare — il consumo di carne rossa, accusata di essere uno dei principali motori del cambiamento climatico. Questa narrativa, supportata da dati scientifici validi, ha portato alla proposta di tassarne il consumo come misura di disincentivazione. Tuttavia, ciò che questo approccio trascura è la crescente evidenza che non tutta la carne è uguale, né lo sono i sistemi di produzione. Esistono pratiche di allevamento sostenibile che, anziché aggravare la crisi climatica, possono diventare parte della soluzione. Tassare la carne in modo indiscriminato rischia di colpire anche questi modelli virtuosi, soffocando l’innovazione e la diversificazione nel settore agricolo.
L’allevamento rigenerativo è una forma di produzione che integra pratiche agroecologiche, rotazione delle colture, gestione dei pascoli e biodiversità per ottenere carne in modo responsabile. Questi sistemi, ben implementati, non solo riducono le emissioni nette, ma possono addirittura contribuire al sequestro del carbonio nel suolo, migliorare la qualità dell’acqua e promuovere ecosistemi resilienti. Secondo l’inchiesta pubblicata da “The Guardian” nel maggio 2025, numerosi allevatori nel Regno Unito e negli Stati Uniti stanno adottando queste pratiche con risultati promettenti. Ma lamentano che la narrativa pubblica e le politiche fiscali emergenti tendono a trattare tutta la carne come ugualmente dannosa, creando un pregiudizio normativo che rischia di penalizzare l’eccellenza.
In altre parole, la tassazione uniforme ignora la diversità dei metodi produttivi. Una tassa sulla carne prodotta industrialmente, con alta intensità energetica e impatto ambientale, potrebbe avere senso. Ma applicarla anche a piccole aziende familiari che praticano pascolo rotazionale o conservano habitat naturali rappresenta una penalizzazione ingiusta. Anziché promuovere una trasformazione del settore, una tassa piatta potrebbe spingere fuori dal mercato proprio quei produttori che stanno cercando di fare la differenza.
Esiste poi un aspetto culturale e territoriale. In molte regioni del mondo — dalle Alpi italiane ai pascoli della Nuova Zelanda — l’allevamento estensivo fa parte dell’equilibrio paesaggistico e socioeconomico. Gli animali contribuiscono alla gestione del territorio, prevengono incendi, mantengono la fertilità dei suoli. Eliminare o scoraggiare queste attività in nome di una tassazione standardizzata significherebbe disgregare economie rurali già fragili, aumentando il rischio di abbandono delle aree interne e perdita di tradizioni locali. Anche dal punto di vista climatico, le valutazioni devono essere più calibrate. Uno studio dell’OECD (2025) ha evidenziato che misure di conservazione degli ecosistemi — incluse alcune forme di pascolo controllato — possono essere efficaci tanto quanto la riduzione delle emissioni dirette, con benefici a lungo termine sulla resilienza ambientale. Penalizzare tali pratiche attraverso una tassazione cieca rischia di vanificare questi vantaggi.
Un sistema alimentare veramente sostenibile non si costruisce solo togliendo, ma aggiungendo: premiando l’innovazione, sostenendo le pratiche agricole virtuose, valorizzando la qualità sul prezzo. Invece di una tassa universale sulla carne rossa, sarebbe più utile sviluppare un sistema di etichettatura climatica trasparente, incentivi fiscali per la carne prodotta in modo sostenibile e campagne informative per aiutare i consumatori a distinguere tra filiere industriali e artigianali. Invece, tassare tutta la carne rossa in modo indiscriminato è una scorciatoia pericolosa, che rischia di punire proprio chi sta cercando di fare la cosa giusta. L’allevamento sostenibile è un alleato, non un nemico, nella lotta contro il cambiamento climatico, e come tale, va incentivato, non tassato.
Nina Celli, 20 maggio 2025