Nr. 339
Pubblicato il 14/05/2025

La passività dell’Unione Europea contribuisce al genocidio in Palestina

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

C'è una parola che riecheggia sempre più spesso nei corridoi delle istituzioni europee: genocidio. La si legge a proposito di Gaza, dove decine di migliaia di civili palestinesi hanno perso la vita in operazioni militari israeliane condotte con una brutalità senza precedenti. Si legge nei report delle Nazioni Unite, nelle indagini delle ONG, nelle testimonianze dei sopravvissuti. E si legge nel silenzio — o nella cautela — dell’Unione Europea.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - La complicità dell’UE si esprime anche attraverso l’assenza di sanzioni

La scelta deliberata dell'UE di non attivare sanzioni politiche, economiche o militari contro Israele ha contribuito a normalizzare una delle più gravi emergenze umanitarie del XXI secolo.

02 - L’azione umanitaria e diplomatica dell’UE non è trascurabile

L'Unione Europea può rivendicare una serie di azioni concrete, soprattutto sul piano umanitario e diplomatico, che costituiscono una risposta tangibile alla crisi.

03 - L’Unione Europea aiuta a perpetuare l’impunità israeliana

La scelta di non delegittimare pubblicamente le operazioni israeliane, ha confermato, normalizzato e giustificato il comportamento di Israele agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

04 - La definizione di genocidio è contestata e l’UE non può agire su basi giuridiche incerte

“Genocidio” è tra le parole più gravi, pesanti e giuridicamente cariche dell’intero vocabolario delle relazioni internazionali. Usarlo richiede prove, processi e sentenze.

05 - L’industria bellica europea ha un ruolo non trascurabile nella prosecuzione del conflitto

L’Unione non è spettatrice del conflitto a Gaza: è una fonte di armamenti, tecnologie e componenti che alimentano l’apparato militare israeliano, quindi il conflitto.

06 - La frammentazione interna dell’UE impedisce un’azione unitaria contro Israele

L'Unione è formata da 27 Stati sovrani. Ogni decisione significativa richiede l'unanimità. Questo è il principale freno a qualunque reazione forte e unitaria nei confronti di Israele.

 
01

La complicità dell’UE si esprime anche attraverso l’assenza di sanzioni

FAVOREVOLE

Nel Diritto internazionale, esistono momenti in cui la neutralità diventa corresponsabilità. È il caso dell’Unione Europea di fronte alla crisi di Gaza, dove la scelta deliberata di non attivare sanzioni politiche, economiche o militari contro Israele ha contribuito a normalizzare una delle più gravi emergenze umanitarie del XXI secolo. A quasi due anni dall’inizio dell’offensiva israeliana, l’UE non ha mai attivato l’articolo 2 dell’Accordo di Associazione UE-Israele, che vincola esplicitamente il mantenimento delle relazioni bilaterali al rispetto dei diritti umani fondamentali.
Nel frattempo, le immagini provenienti da Gaza raccontano una devastazione sistematica: oltre 50.000 morti, più di 1,9 milioni di sfollati, il 91% della popolazione in fame estrema, ospedali e scuole rasi al suolo. Eppure, a fronte di queste evidenze, l’Unione ha scelto la via della retorica diplomatica, affidandosi a dichiarazioni di “profonda preoccupazione” e richiami alla “moderazione”, senza mai adottare strumenti di pressione realmente incisivi.
L’inerzia pesa non solo sul piano simbolico, ma geopolitico, della deterrenza e sul piano morale. Il mancato ricorso a sanzioni ha trasmesso un segnale chiaro: le azioni israeliane non comportano conseguenze rilevanti nei rapporti con l’Europa.
Le parole più dure sono arrivate da figure istituzionali interne alla stessa Unione. L’ex Alto Rappresentante Josep Borrell ha parlato di una “pulizia etnica più ampia dal 1945”, denunciando che “metà delle bombe che cadono su Gaza sono europee”. In Parlamento Europeo, più di 100 deputati hanno chiesto formalmente l’introduzione di un embargo militare e la sospensione degli accordi. Ma la Commissione ha evitato il dibattito, nascondendosi dietro l’argomento della “mancanza di consenso unanime”.
Nel report riservato pubblicato da “The Intercept”, si documenta come già a novembre 2024 un documento interno della Commissione suggerisse l’interruzione delle relazioni strategiche con Israele, proprio in base alla clausola dei diritti umani. Ma il rapporto è stato ignorato.
Così, mentre la crisi si aggrava, l’Europa rimane bloccata in una diplomazia senza coraggio, scegliendo di non agire pur avendone gli strumenti legali e politici. Una non-decisione che ha avuto un impatto concreto: ha lasciato campo libero a Israele, ha privato la popolazione palestinese di un alleato forte sul piano giuridico e ha svuotato di significato i meccanismi europei di condizionamento esterno.
In questo quadro, la mancata imposizione di sanzioni non è una semplice omissione, ma una scelta politica. E come tutte le scelte politiche, porta con sé delle responsabilità. In questo caso, la responsabilità di non aver fatto nulla per fermare l’inaccettabile.

Nina Celli, 14 maggio 2025

 
02

L’azione umanitaria e diplomatica dell’UE non è trascurabile

CONTRARIO

In un conflitto tragico come quello che sta devastando la Striscia di Gaza, la tentazione di dividere il mondo in complici e oppositori è forte. Ma la realtà è più complessa. Di fronte alle accuse di passività, l’Unione Europea può rivendicare una serie di azioni concrete, soprattutto sul piano umanitario e diplomatico, che costituiscono una risposta tangibile — anche se non sempre visibile — alla crisi.
Sul fronte umanitario, l’UE è attualmente il principale donatore internazionale di aiuti a Gaza. La Commissione Europea ha stanziato, tra il 2023 e il 2027, oltre 1,6 miliardi di euro destinati a interventi di emergenza, ricostruzione e resilienza. Solo nel 2023, 450 milioni di euro sono stati impiegati per garantire l’accesso a beni di prima necessità, acqua potabile, cure sanitarie e supporto psicologico.
I risultati sono stati: distribuzione di cibo per oltre un milione di persone; l’allestimento di scuole temporanee per 100.000 bambini; assistenza sanitaria e supporto psicosociale per decine di migliaia di sfollati. In un contesto in cui le Nazioni Unite parlano di “catastrofe umanitaria in tempo reale”, questi interventi hanno salvato vite ogni giorno, mitigando gli effetti più devastanti del blocco israeliano e del collasso infrastrutturale della Striscia.
Sul piano diplomatico, l’Unione ha mantenuto canali di dialogo attivi con tutte le parti: Israele, Autorità Palestinese, Egitto, ONU, Stati Uniti. Ha promosso, in sede ONU e G7, risoluzioni per il cessate il fuoco, l’accesso agli aiuti e il rispetto del diritto umanitario. Il 5 maggio 2025, un portavoce della Commissione ha dichiarato: “Non stiamo chiedendo con gentilezza: stiamo esercitando una pressione diplomatica continua per la fine delle operazioni militari indiscriminate”.
L’UE ha inoltre appoggiato, senza ambiguità, il riconoscimento del diritto palestinese a uno Stato, posizione ribadita in tutte le sedi internazionali e sostenuta attivamente da alcuni Stati membri con azioni unilaterali (Irlanda, Spagna, Belgio).
Va poi considerato l’aspetto giuridico dell’UE, la quale non è uno Stato, ma una comunità politica fondata su consenso multilaterale. Qualsiasi misura vincolante in politica estera — comprese sanzioni o embargo — richiede unanimità tra i 27 Stati membri. In un’Unione profondamente divisa su questo tema, dove la Germania ha legami strategici con Israele e l’Irlanda chiede invece l’embargo, il blocco decisionale è strutturale, non ideologico.
Inoltre, rompere completamente le relazioni con Israele significherebbe perdere ogni forma di leva negoziale. L’UE è uno dei pochi attori globali ancora in grado di interloquire con entrambe le parti. Distruggere questo ruolo equivarrebbe a rinunciare a ogni capacità di mediazione futura.
L’UE ha fatto e continua a fare molto. Forse non abbastanza, forse non tutto ciò che sarebbe auspicabile. Ma parlare di passività o complicità significa ignorare un impegno reale, quotidiano, documentato, che ha salvato vite e sostenuto la pace anche in condizioni di paralisi politica. L’Europa non è il problema. È uno dei pochi strumenti ancora disponibili per immaginare una soluzione.

Nina Celli, 14 maggio 2025

 
03

L’Unione Europea aiuta a perpetuare l’impunità israeliana

FAVOREVOLE

Ogni conflitto armato si gioca su due fronti: quello delle armi e quello della legittimità. È su questo secondo campo, meno visibile ma altrettanto decisivo, che l’Unione Europea ha contribuito — seppure indirettamente — a rafforzare l’impunità diplomatica di Israele. Non solo con la sua inazione politica, ma soprattutto attraverso la scelta deliberata di non delegittimare pubblicamente le operazioni israeliane, evitando ogni riferimento formale al diritto penale internazionale. Questa omissione ha avuto l’effetto di confermare, normalizzare e giustificare il comportamento dello Stato israeliano agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.
Nella narrazione diplomatica europea, le azioni israeliane a Gaza vengono quasi sempre accompagnate da formule caute: “diritto alla difesa”, “preoccupazione umanitaria”, “necessità di moderazione”. In nessun documento ufficiale dell’UE è stata utilizzata, fino a oggi, l’espressione “crimine di guerra”, e tantomeno “genocidio”. Eppure, numerose fonti autorevoli — dal rapporto della relatrice ONU Francesca Albanese fino a dichiarazioni congiunte di ONG internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International — descrivono le operazioni militari israeliane come sistematicamente criminali, fondate su atti di punizione collettiva, uso della fame come arma, targeting deliberato di infrastrutture civili.
L’assenza di una condanna formale da parte dell’UE non è irrilevante. L’Unione Europea è considerata una potenza normativa globale, e le sue dichiarazioni hanno un impatto significativo sulla costruzione della narrativa internazionale. Quando l’UE non qualifica giuridicamente gli eventi, contribuisce — direttamente o indirettamente — a rendere possibile la prosecuzione delle violazioni, creando un contesto diplomatico in cui Israele può continuare a operare senza temere sanzioni morali.
L’effetto è amplificato dal fatto che Israele utilizza la posizione europea come scudo legittimante. In dichiarazioni pubbliche, esponenti del governo israeliano hanno più volte citato l’assenza di condanne formali europee come prova della legittimità delle proprie azioni. E nel frattempo, la diplomazia israeliana rafforza le sue relazioni bilaterali con singoli Stati membri — come Germania, Repubblica Ceca, Austria — sfruttando le divisioni interne all’UE per impedire una posizione comune.
A questo si aggiunge l’aspetto processuale: la Corte Penale Internazionale sta valutando l’apertura di procedimenti contro esponenti israeliani per crimini di guerra, ma il sostegno europeo a questa iniziativa è stato tiepido e frammentario. Nessuno dei leader comunitari ha espresso pubblicamente l’intenzione di cooperare attivamente con la Corte, né è stata prevista alcuna forma di pressione diplomatica per garantire l’adesione di Israele allo Statuto di Roma.
La retorica dei diritti umani, pilastro della politica estera europea, appare quindi svuotata di efficacia. Non basta finanziare l’UNRWA o inviare convogli umanitari: se non si agisce anche sul piano della narrazione giuridica e diplomatica, si lascia che il Diritto internazionale venga eroso ogni giorno, parola dopo parola, omissione dopo omissione.
L’impunità diplomatica di Israele è dunque anche un effetto della cautela europea. Un effetto che si traduce, nei fatti, in una legittimazione implicita delle violazioni.

Nina Celli, 14 maggio 2025

 
04

La definizione di genocidio è contestata e l’UE non può agire su basi giuridiche incerte

CONTRARIO

“Genocidio” è tra le parole più gravi, pesanti e giuridicamente cariche dell’intero vocabolario delle relazioni internazionali. Non è solo una definizione morale o politica: è un termine giuridico preciso, che implica l’intenzione deliberata di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Usarlo — e soprattutto, basare su di esso politiche ufficiali, sanzioni o rotture diplomatiche — richiede prove, processi e sentenze. E finché questo passaggio formale non è completato, l’Unione Europea non può legalmente agire sulla base di tale accusa.
Nel gennaio 2024, il Sudafrica ha presentato un’istanza alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), accusando Israele di atti genocidari nella Striscia di Gaza. La Corte ha emesso misure provvisorie, raccomandando di evitare “atti potenzialmente genocidari” e garantire l’accesso agli aiuti. Ma, ad oggi, non ha emesso una sentenza definitiva che qualifichi giuridicamente l’offensiva come genocidio. Né la Corte Penale Internazionale (CPI) ha formalmente incriminato rappresentanti israeliani per tale accusa.
In questo contesto, l’UE non può assumere una posizione ufficiale che anticipi i tribunali. Farlo significherebbe non solo compromettere la propria credibilità come attore normativo, ma anche aprire un precedente pericoloso: decidere politicamente ciò che deve essere accertato giuridicamente.
Alcuni critici rispondono a questo che “l’evidenza morale è sufficiente”. Ma l’Unione Europea si fonda sul principio del Diritto. Le sue decisioni — soprattutto in politica estera e in materia di sanzioni — devono essere giustificate, difendibili e basate su criteri giuridici consolidati. Agire in assenza di questi presupposti non rafforzerebbe l’azione europea, ma la renderebbe vulnerabile a ricorsi, contestazioni e paralisi.
Va inoltre ricordato che, in altri conflitti gravi (come in Siria, Yemen o Myanmar), la comunità internazionale ha impiegato anni per definire giuridicamente la natura dei crimini. In alcuni casi, la qualifica di genocidio non è mai arrivata. La prudenza dell’UE in questo caso non è un’eccezione: è una coerenza con la sua stessa storia diplomatica e giuridica.
Inoltre, l’UE non è sola in questo approccio. Altri attori globali, come le Nazioni Unite, il Canada, l’India, la Corea del Sud, l’Unione Africana, non hanno ufficialmente parlato di genocidio, pur condannando le violazioni. Anche l’ONU, pur usando toni durissimi, ha finora evitato la definizione formale, in attesa dei tribunali.
La responsabilità morale resta, ed è giusto discuterla. Ma le misure legali — come sanzioni, sospensioni di trattati o embargo — devono essere adottate in presenza di basi giuridiche certe. Altrimenti si rischia di trasformare il diritto in un’arma politica.

Nina Celli, 14 maggio 2025

 
05

L’industria bellica europea ha un ruolo non trascurabile nella prosecuzione del conflitto

FAVOREVOLE

L’Unione Europea non è solo spettatrice del conflitto a Gaza: è una fonte strutturale di armamenti, tecnologie e componenti che alimentano direttamente o indirettamente l’apparato militare israeliano. Mentre il linguaggio ufficiale europeo parla di “moderazione” e “cessate il fuoco”, l’industria bellica comunitaria ha registrato record storici di crescita e profitti, in piena escalation del conflitto.
Il caso più emblematico è quello di Rheinmetall, gigante tedesco della difesa, che nel primo trimestre del 2025 ha riportato un incremento del 73% nel comparto armi e munizioni, con ricavi per 599 milioni di euro. La crescita è stata attribuita, esplicitamente, all’“escalation dei conflitti in Medio Oriente e alla necessità di ricostituire arsenali”. Le forniture includono componenti per blindati, sistemi di targeting e munizioni, parte delle quali destinate — direttamente o attraverso triangolazioni — a Israele.
Non si tratta di un caso isolato. Secondo quanto riportato dall’European Palestinian Council, almeno otto Stati membri UE hanno mantenuto attive le esportazioni militari verso Israele anche dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza. Germania, Italia, Bulgaria, Francia e Paesi Bassi sono tra i principali fornitori. Nonostante i ripetuti appelli della società civile e le richieste formali di oltre 100 eurodeputati per un embargo, nessun Paese UE ha adottato un blocco unilaterale delle forniture.
Il paradosso è evidente: l’UE, da un lato finanzia convogli umanitari, ospedali da campo, programmi di emergenza per l’infanzia. Dall’altro, continua a fornire le stesse armi che devastano quegli ospedali e uccidono quei bambini. Il risultato è una doppia responsabilità: etica e operativa.
La complicità materiale è aggravata dall’assenza di controlli efficaci. Mentre la normativa europea vieta l’export verso Paesi che violano sistematicamente i diritti umani, i criteri vengono interpretati con estrema elasticità e le autorizzazioni sono lasciate ai singoli Stati membri. Questo ha permesso, ad esempio, al Regno Unito — non più parte dell’UE, ma strettamente legato alle sue filiere — di continuare a inviare munizioni a Israele anche dopo la sospensione ufficiale delle licenze, per un totale di oltre 8.600 proiettili solo tra dicembre e marzo.
Le richieste di embargo si sono moltiplicate. ONG, parlamentari, sindacati e perfino alcuni governi nazionali, come Irlanda e Spagna, hanno chiesto una moratoria immediata sulle esportazioni militari verso Israele. Ma queste proposte sono rimaste lettera morta, bloccate da veti incrociati e dalla riluttanza della Commissione a intervenire su una materia ritenuta “di competenza nazionale”.
Così, mentre l’UE si racconta come portatrice di valori e diritti, le sue industrie continuano a fatturare sulle macerie di Gaza. La retorica umanitaria convive con i profitti del complesso militare-industriale, in una dicotomia che mina alla radice la credibilità dell’azione esterna europea.

Nina Celli, 14 maggio 2025

 
06

La frammentazione interna dell’UE impedisce un’azione unitaria contro Israele

CONTRARIO

L’Unione Europea non è uno Stato federale, né un governo centralizzato. È una comunità politica formata da 27 Stati sovrani, ciascuno con la propria storia, cultura diplomatica, interessi strategici e sensibilità geopolitica. In politica estera, ogni decisione significativa — dalle sanzioni all’embargo, fino alla sospensione di accordi — richiede l’unanimità. Questo meccanismo, pensato per tutelare l’equilibrio interno, è anche il principale freno a qualunque reazione forte e unitaria nei confronti di crisi internazionali. Ed è il cuore della questione nel dibattito sulla risposta dell’UE al conflitto a Gaza.
Fin dall’inizio dell’offensiva israeliana, gli Stati membri hanno manifestato posizioni profondamente divergenti. Da una parte Paesi come Irlanda, Spagna, Belgio e Lussemburgo, che hanno chiesto a gran voce un embargo sulle armi e la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele. Dall’altra, Stati come Germania, Repubblica Ceca, Austria, Ungheria e Paesi Bassi, che hanno difeso il diritto di Israele alla sicurezza e si sono opposti a qualsiasi misura punitiva.
Queste divisioni non sono solo politiche, ma anche storiche e culturali. La Germania, ad esempio, ha un legame profondo e irrinunciabile con Israele, derivante dalla memoria dell’Olocausto. Questo condiziona profondamente la sua politica estera, rendendo difficile ogni iniziativa che possa essere percepita come ostile allo Stato ebraico, anche quando motivata da preoccupazioni umanitarie.
Inoltre, gli interessi economici e militari sono fortemente intrecciati: la Germania e l’Italia sono tra i principali esportatori di tecnologie militari in Israele; la Francia mantiene cooperazioni strategiche in campo aerospaziale; i Paesi dell’est, come la Polonia e l’Ungheria, vedono in Israele un alleato nella lotta all’immigrazione e al terrorismo. Questa rete di rapporti bilaterali ostacola qualunque azione collettiva.
Il risultato è una paralisi strutturale. La Commissione Europea non ha il potere di imporre sanzioni autonomamente. Il Parlamento Europeo può esprimere pareri politici, ma non può decidere la politica estera dell’Unione. Solo il Consiglio, con l’unanimità degli Stati membri, può approvare misure vincolanti. E questa unanimità, su Israele, non c’è. Né sembra realizzabile nel breve periodo.
Alcuni critici accusano l’UE di nascondersi dietro i veti. Ma la verità è che questa è la struttura sulla quale l’Unione si basa. Essa è nata per costruire consenso, non per imporre diktat. E finché i trattati resteranno gli attuali, l’azione esterna dell’UE continuerà a riflettere le sue divisioni interne.
Questo non significa che non si possa fare nulla. Gli Stati membri possono agire in autonomia: Irlanda e Spagna, ad esempio, hanno interrotto cooperazioni bilaterali con Israele. Ma trasformare queste iniziative in una politica comune è, allo stato attuale, istituzionalmente irrealistico.
Accusare l’UE di “non agire” equivale, quindi, a ignorare la natura del suo funzionamento interno. Il vero problema non è la volontà politica dell’Europa come entità astratta, ma la divergenza irreversibile tra le sue componenti.

Nina Celli, 14 maggio 2025

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