Gli USA stanno diventando uno Stato autoritario
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Washington continua a svegliarsi ogni mattina sotto l’ombra rassicurante della democrazia più longeva del mondo contemporaneo. Eppure, secondo un numero crescente di studiosi, funzionari, analisti politici e attivisti, il cuore stesso dell’esperimento costituzionale americano sta attraversando una trasformazione silenziosa ma profonda. Una trasformazione che impone una domanda non più eludibile: gli Stati Uniti stanno diventando uno Stato autoritario?

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Gli USA stanno andando verso un'autoritarismo competitivo, dove le istituzioni democratiche sono svuotate di senso e piegate a interessi personali e ideologici.
Dire che gli Stati Uniti stiano diventando uno Stato autoritario è una lettura eccessivamente catastrofista, che sottovaluta la forza delle istituzioni federali.
Gli USA stanno andando verso la concentrazione del potere esecutivo, che riduce il controllo di Congresso, stampa e giustizia.
Gli USA, pur attraversando una fase politica radicale, non stanno diventando uno Stato autoritario, ma restano uno dei pochi paesi al mondo in cui la contestazione è viva.
Gli Stati Uniti stanno vivendo un’erosione della democrazia
C’è un filo rosso che lega l’ascesa di regimi autoritari nel mondo: la sistematica erosione della democrazia attraverso strumenti apparentemente legittimi. È proprio lungo questo filo che si muove oggi la democrazia americana. Non si tratta più di una minaccia astratta: gli Stati Uniti stanno concretamente transitando verso una forma di autoritarismo competitivo, dove le elezioni esistono ancora, ma le istituzioni democratiche sono svuotate di senso e piegate a interessi personali e ideologici.
Lo dimostra con chiarezza un’indagine del progetto Bright Line Watch, citata da “NPR” (2025), in cui oltre 500 scienziati politici valutano la democrazia americana a 55/100, in netto calo rispetto al 67 registrato nel 2020. Il fattore decisivo? Il secondo mandato presidenziale di Donald Trump, avviato nel gennaio 2025 con una serie di decreti esecutivi che hanno trasformato in poche settimane l’assetto istituzionale federale: epurazioni di funzionari, ristrutturazioni coercitive di agenzie indipendenti, intimidazioni verso media e università.
Il cuore di questa trasformazione è il cosiddetto Project 2025, una roadmap di 920 pagine redatta dalla Heritage Foundation, che prevede la centralizzazione assoluta del potere esecutivo e la subordinazione delle agenzie federali alla sola volontà del presidente. Secondo “CNN” e “The Atlantic”, Trump ha già iniziato a implementarlo, licenziando migliaia di funzionari non allineati, togliendo autonomia alla Federal Trade Commission, usando il Dipartimento di Giustizia per colpire avversari politici. Le politiche adottate non si limitano a ridefinire le priorità: cambiano la struttura stessa del sistema democratico americano.
Un elemento chiave di questa deriva autoritaria è l’uso selettivo e punitivo dello Stato. “The Atlantic” (aprile 2025) parla di un "governo della vendetta", dove ex funzionari critici vengono indagati retroattivamente, dove si revocano le protezioni legali e si riorganizzano interi dipartimenti per colpire gruppi sociali scomodi. Il Dipartimento dell’Istruzione ha smantellato l’Ufficio per i Diritti Civili, cancellato programmi per studenti LGBTQ+ e istituito portali per “denunciare” l’inclusività scolastica, come riporta “ProPublica” (maggio 2025).
A livello simbolico e strutturale, la laicità dello Stato è stata messa in discussione: la Faith Office evangelica, secondo il “New York Times”, è ora stabilmente all’interno della West Wing, con una pastora personale del presidente che guida eventi religiosi trasmessi dalla Casa Bianca. Questa fusione tra potere politico e fede religiosa ha effetti diretti su politiche pubbliche in materia di educazione, diritti e accesso alla salute.
A completare il quadro, le nuove restrizioni elettorali introdotte in oltre 22 Stati repubblicani (“CNN”, aprile 2025), tra cui l’obbligo di prova di cittadinanza per la registrazione al voto, rischiano di escludere milioni di persone, in particolare donne, anziani e poveri. Come ha scritto Daniel Ziblatt sul “New York Times”, “la democrazia non muore solo con colpi di Stato, ma con la punizione dell’opposizione”.
L’insieme di queste azioni — giustificate dal diritto, ma contrarie allo spirito democratico — configura una nuova forma di autoritarismo. Non vi è più bisogno di abolire il Congresso o vietare le elezioni: basta piegare le istituzioni, intimidire la stampa, punire i dissidenti e neutralizzare gli anticorpi sociali. Gli Stati Uniti, una volta baluardo del costituzionalismo, sembrano ora percorrere una strada che li avvicina pericolosamente a modelli come Ungheria, Russia o Turchia. L’autoritarismo non è più una possibilità. È, già oggi, una pratica in corso.
Nina Celli, 9 maggio 2025
Sull’autoritarismo negli Stati Uniti si sta facendo allarmismo
Ogni ciclo politico americano genera allarmi sul futuro della democrazia. Ma allarmismo e realtà non coincidono. Dire che gli Stati Uniti stiano diventando uno Stato autoritario è una lettura eccessivamente catastrofista, che sottovaluta la forza delle istituzioni federali, la vitalità del pluralismo politico e il ruolo delle controparti sociali. In verità, ciò che osserviamo oggi è un conflitto profondo tra due visioni di società, non la fine del costituzionalismo.
Il sistema americano, con i suoi check and balances, è stato pensato proprio per resistere a derive autoritarie. E finora ha funzionato. Come evidenzia Kurt Weyland (“NPR”, aprile 2025), molte delle misure più controverse del secondo mandato Trump sono state bloccate o sospese da corti federali, anche in Stati repubblicani. Il potere giudiziario continua a esercitare un controllo effettivo sull’esecutivo: è recente, ad esempio, la sentenza che ha dichiarato incostituzionale il tentativo dell’amministrazione di detenere migranti senza processo o di deportarli all’estero (“The Guardian”, aprile 2025).
È vero che alcune agenzie sono state ristrutturate, e che l’approccio di Trump verso il potere è muscolare. Ma ciò non equivale a un colpo di Stato. Le elezioni sono ancora libere, competitive e regolate da enti indipendenti. Non esistono milizie private al servizio del presidente, né abolizioni di opposizione politica o repressione armata di manifestazioni — tutti elementi distintivi di veri regimi autoritari. Gli USA restano uno Stato di diritto, con livelli di libertà di stampa, giudiziaria e associativa tra i più alti al mondo.
Il dibattito sul Project 2025, spesso citato come prova di autoritarismo, merita un’analisi meno ideologica. Come osserva “CNN” (aprile 2025), si tratta di un documento programmatico di think tank conservatori, non di una norma vincolante. Il presidente può proporre riforme, ma deve passare dal Congresso, dove la maggioranza repubblicana è fragile e continuamente negoziata, come ha dimostrato il caso della mancata nomina di Elise Stefanik (“NYT”, aprile 2025).
Anche gli episodi di “vendetta politica”, per quanto problematici, non sono nuovi nella storia americana. Le amministrazioni Nixon, Reagan e perfino Obama sono state accusate di usare il potere federale per influenzare oppositori. Ma nessuno ha concluso che gli Stati Uniti fossero diventati autoritari. È un tratto del potere esecutivo — criticabile, sì — ma non sufficiente a definire un regime.
Il vero collante che tiene insieme la democrazia americana è la società civile. Il New York Times (maggio 2025) ricorda che la resistenza a politiche liberticide non avviene solo nelle aule giudiziarie, ma anche nelle università, nei media, nei sindacati, nei movimenti per i diritti civili. Se Columbia University ha accettato vincoli per evitare sanzioni, Harvard ha invece sfidato apertamente l’amministrazione Trump, rifiutando “qualsiasi sorveglianza ideologica federale” e rinunciando a 2,2 miliardi di fondi (“CNN”, aprile 2025).
L’elemento più trascurato è il voto popolare. Trump è stato rieletto legalmente, e mantiene un supporto reale ma minoritario (circa il 40%). Nessun leader autoritario governa senza consenso o senza militarizzare lo Stato. Gli Stati Uniti sono oggi una democrazia ferita, polarizzata, sotto stress — ma ancora operante. Lanciare l’allarme autoritarismo senza distinzioni rischia di diseducare la cittadinanza, alimentando cinismo e sfiducia, anziché mobilitazione consapevole.
Nina Celli, 9 maggio 2025
Il consolidamento del potere esecutivo è un sintomo di autoritarismo
La democrazia americana, pur essendo nata da un rifiuto del potere monarchico, sta oggi assistendo a una riconfigurazione radicale dell’equilibrio tra i poteri. Non si tratta solo di una fase politica aggressiva: è un processo sistemico e deliberato che ha come obiettivo la concentrazione del potere esecutivo in modo da ridurre la funzione di controllo esercitata dal Congresso, dalla stampa, dalla giustizia. Questo consolidamento rappresenta, nella sostanza, un salto di qualità verso una forma di autoritarismo presidenziale.
Il Project 2025, oggetto di numerose inchieste (“CNN”, “New York Times”, “Brookings”), non è solo un piano ideologico. È una strategia organizzata, sostenuta da centri di potere conservatori, che ha già trovato applicazione. Le prime settimane del nuovo mandato presidenziale hanno visto un’ondata senza precedenti di decreti esecutivi che bypassano il legislativo, la creazione di un sistema parallelo di fedelissimi al potere in ogni agenzia e la revoca di leggi fondamentali per i diritti civili, ambientali, educativi.
La dottrina dell’executive unitariano, secondo cui il presidente ha poteri illimitati su tutto l’esecutivo, è stata adottata come fondamento giuridico per epurare l’amministrazione pubblica e sostituirla con loyalists politici. Non si tratta solo di “rimpasti”: si parla di migliaia di licenziamenti, spesso senza cause formali, documentati da “ProPublica” e “The Atlantic”. La mancanza di trasparenza è assoluta: molte azioni avvengono tramite memorandum segreti, fondi fuori bilancio, o strumenti di regolamentazione interna.
Ma ciò che è più preoccupante è l’uso selettivo del potere per “punire” gli oppositori. Lo Stato diventa arma. Le università che non si allineano — come Harvard — vedono tagli per miliardi (“CNN”, aprile 2025). Gli enti locali che applicano politiche ambientali autonome vengono citati in giudizio dal DOJ (“Brookings”, aprile 2025). Gli attivisti, gli ex funzionari e persino i media critici vengono colpiti tramite audit fiscali, cause civili, minacce giudiziarie. La legittimità delle istituzioni viene piegata all’intenzione punitiva del potere.
In parallelo, il linguaggio pubblico è mutato. Trump si presenta non come presidente, ma come salvatore. Le sue dichiarazioni — “Chi salva la Nazione non viola la legge” (“The Guardian”, 2025) — evocano dottrine del potere assoluto, più vicine a Carl Schmitt che a Madison o Hamilton. Il messianismo religioso che attraversa la Casa Bianca, con la Faith Office al centro delle decisioni (“NYT”, aprile 2025), rafforza questa impostazione di comando verticale e carismatico.
Infine, l’attacco alla dimensione federale: l’idea che gli stati possano avere politiche divergenti viene vista come sabotaggio. Gli ordini esecutivi sul controllo delle politiche energetiche e sull’istruzione locale impongono direttive federali unificate, minacciando ritorsioni su chi si oppone. È una forma di "federalismo coercitivo" che ricorda le pratiche di regimi autoritari mascherati da democrazie elettorali.
Non è più sufficiente parlare di “crisi democratica”. L’architettura del potere americano sta cambiando sotto i nostri occhi. Se questa traiettoria non verrà invertita, il risultato sarà una nuova forma di Stato autoritario, costruito dall’interno, con gli strumenti della legge ma contro il principio stesso di sovranità popolare.
Nina Celli, 9 maggio 2025
Il pluralismo statunitense è un baluardo contro l’autoritarismo
Ogni civiltà democratica attraversa momenti di turbolenza. Quello che distingue le democrazie autentiche dai regimi autoritari è la loro capacità di resilienza interna, la forza del dissenso, l’energia del pluralismo sociale. Ed è proprio questa la prova che gli Stati Uniti, pur attraversando una fase politica radicale, non stanno diventando uno Stato autoritario, ma restano uno dei pochi paesi al mondo in cui la contestazione è viva, visibile e organizzata.
La seconda presidenza Trump ha senza dubbio rilanciato un’agenda iperconservatrice. Ma i contrappesi non sono scomparsi: hanno semplicemente cambiato sede. Mentre il Congresso fatica a reagire, sono le università, i tribunali, le comunità locali, i media indipendenti e le ONG a fare da argine alla concentrazione del potere. Harvard, ad esempio, ha rifiutato pubblicamente pressioni per modificare programmi accademici e pratiche amministrative, anche a costo di perdere 2,2 miliardi di fondi federali (“CNN”, aprile 2025). Un gesto che in un vero regime autoritario sarebbe impensabile.
Nonostante l’intimidazione, le principali testate — dal “New York Times” a “ProPublica”, da “The Atlantic” alla “CNN” — continuano a pubblicare inchieste che rivelano conflitti d’interesse, abusi di potere e strategie punitive contro minoranze o dissidenti. Se davvero fossimo in un regime autoritario, questi giornali sarebbero stati chiusi, censurati o commissariati. Invece, sono oggi più attivi che mai, spesso con accesso diretto a documenti riservati, e supportati da una solida base legale.
Anche la società civile è tutt’altro che domata. Le proteste nei campus universitari, come quelle che hanno spinto Columbia University a modificare regolamenti e Harvard a resistere, dimostrano che il diritto di manifestare è vivo. Le associazioni per i diritti civili — come il Lawyers’ Committee e l’ACLU — sono riuscite a bloccare in tribunale molte delle disposizioni più controverse: dall’uso dell’Insurrection Act per la sicurezza interna, alle restrizioni elettorali e ai tentativi di disciplinare il contenuto dei corsi scolastici (“Brookings”, aprile 2025).
Inoltre, è importante riconoscere che l’autoritarismo richiede consenso passivo e lungo termine. Trump, però, è ancora un presidente polarizzante. I suoi consensi sono stabili ma minoritari. Secondo dati riportati dal “New York Times” (maggio 2025), il gradimento è sotto il 40%, e molti senatori repubblicani lo sostengono per convenienza, non per convinzione. Questo limita la sua capacità di egemonia istituzionale. Se ci fosse un reale progetto autoritario, sarebbe ben più sistemico e meno esposto al dissenso interno.
Un’altra caratteristica dei regimi autoritari è l’uniformità ideologica. Ma gli Stati Uniti del 2025 sono ideologicamente frammentati: lo si vede nei governi locali, nelle corti di grado inferiore, negli stessi repubblicani moderati che si oppongono apertamente a molte decisioni dell’amministrazione, come accaduto nel caso delle riforme scolastiche (“CNN”, aprile 2025). La varietà di centri di potere, l’autonomia giudiziaria e la capacità di iniziativa delle comunità locali impediscono una centralizzazione piena.
L’autoritarismo vero è quello in cui si smette di discutere, di votare, di protestare. Ma negli Stati Uniti, ogni nuova restrizione viene contestata in piazza e nei tribunali. Le decisioni di Trump sono dure? Sì. Sono pericolose? Spesso. Ma la risposta collettiva della società americana dimostra che la democrazia non è ancora sottomessa. È viva, e proprio per questo può difendersi.
Nina Celli, 9 maggio 2025