Marine Le Pen: l’esclusione dalle presidenziali è sproporzionata
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Il 31 marzo 2025, la leader del Rassemblement National, Marine Le Pen, è stata condannata dal Tribunale di Parigi per appropriazione indebita di fondi europei. La sentenza ha previsto quattro anni di carcere (di cui due con detenzione domiciliare), una multa di 100.000 euro e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, escludendola così dalle elezioni presidenziali del 2027. La vicenda ha sollevato un acceso dibattito nazionale e internazionale. Da un lato, molti vedono la decisione come una risposta necessaria a una grave violazione del diritto pubblico. Dall'altro, numerosi leader politici, intellettuali e osservatori denunciano un uso strumentale della giustizia per “eliminare l’avversaria politica più temibile”.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Suscita dubbi non tanto la condanna, quanto la sua immediata esecutività, valida prima che i giudici d'appello si pronuncino. Questo fa pensare che si tratti di una manovra politica.
La condanna non è stata né improvvisata né priva di fondamento. Si basa su un impianto probatorio robusto e un'indagine pluriennale e confermato, con processo durato nove settimane.
Ha sollevato dubbi la sentenza inflitta a Marine Le Pen per la severità inedita della sanzione e per l'immediata applicabilità, che collidono con la tradizione giuridica francese.
L’interdizione di Marine Le Pen non è una misura punitiva fuori scala, ma l'applicazione di un principio universale: la legalità non può essere negoziata.
Quella che si è svolta a Parigi è stata una procedura giudiziaria pubblica, garantita, lunga e fondata su prove dettagliate, non su opinioni ideologiche.
Chi decide chi può candidarsi in democrazia, il popolo o i tribunali?
L’interdizione è una misura sproporzionata e politicamente motivata
Nel marzo 2025, la Corte ha emesso una sentenza destinata a scuotere profondamente l’architettura politica francese: Marine Le Pen, leader storica della destra radicale, è stata dichiarata colpevole di appropriazione indebita di fondi del Parlamento Europeo. La pena è pesante: quattro anni di reclusione, due dei quali da scontare ai domiciliari con braccialetto elettronico, una multa di 100.000 euro e, soprattutto, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, rendendola ineleggibile per la carica presidenziale nel 2027. Ma il vero terremoto non sta tanto nella condanna, quanto nella sua immediata esecutività, valida prima ancora che i giudici d'appello si pronuncino. È questo dettaglio che ha alimentato una narrazione secondo cui, più che di giustizia, si sarebbe trattato di una manovra politica mascherata da legalità.
Per comprendere la portata della reazione, basta osservare i numeri: secondo un sondaggio IFOP pubblicato pochi giorni prima del verdetto, Le Pen era proiettata a ottenere tra il 34% e il 37% dei voti al primo turno delle presidenziali del 2027. Un risultato che la poneva come favorita assoluta, con concrete possibilità di vittoria al ballottaggio contro un presidente Macron indebolito e un centro diviso (“Journal du Dimanche”, su “NPR”). In un simile scenario, l’eliminazione giudiziaria del principale contendente ha immediatamente sollevato accuse di “giustizia selettiva” e “neutralizzazione politica”.
A guidare la reazione è stato il presidente del Rassemblement National, Jordan Bardella, definendo la condanna come “morte della democrazia francese”. “Non è solo Marine Le Pen ad essere stata colpita – ha dichiarato durante una conferenza stampa – ma milioni di elettori che si vedono privati della possibilità di scegliere” (“The Guardian”). Il partito ha lanciato una campagna nazionale di mobilitazione con volantini, petizioni e manifestazioni. “La volontà popolare è più forte delle sentenze”, ha ribadito Bardella.
La protesta è andata ben oltre i confini francesi. Elon Musk, commentando su “X”, ha paragonato la condanna di Le Pen agli attacchi legali subiti da Donald Trump, parlando di “abuso sistemico della giustizia da parte della sinistra radicale quando non riesce a vincere con il voto” (“Reuters”). Donald Trump Jr., da parte sua, ha scritto: “In Francia condannano la Le Pen e la cacciano dalla corsa presidenziale. Hanno paura del giudizio del popolo?”. Il messaggio è chiaro: l’establishment teme la democrazia e usa gli strumenti giudiziari per bloccarla.
A rafforzare questa percezione è stato anche l’atteggiamento processuale. Marine Le Pen non ha mai negato che il partito abbia utilizzato fondi europei per retribuire collaboratori, ma ha sempre sostenuto che si trattasse di personale “politico” coinvolto nelle attività legislative degli eurodeputati. Non è un caso che lo stesso giudice abbia riconosciuto l’assenza di arricchimento personale diretto da parte della Le Pen. Tuttavia, la severità della pena ha colpito molti come sproporzionata rispetto ai casi simili nella politica francese, molti dei quali conclusi con condanne sospese o interdizioni post-appello.
Il punto critico, secondo i detrattori della sentenza, è la sospensione del diritto alla candidatura in pendenza di giudizio. Una pratica inusuale nella giustizia francese, che ha spinto persino alcuni centristi a interrogarsi sulla legittimità democratica dell’atto. “È un precedente pericoloso,” ha dichiarato Eric Ciotti, ex leader dei Républicains, “Si sta creando un sistema in cui si rimuovono giudiziariamente i candidati troppo forti”.
La stessa Le Pen ha parlato pubblicamente alla TV francese TF1: “Io non mi lascerò eliminare così facilmente. Sono innocente. Questa è una sentenza politica, non legale”. La sua voce ha diviso la Francia, ma ha anche richiamato l’attenzione globale.
L’esclusione di Marine Le Pen non è dunque solo una questione giudiziaria: è diventata il simbolo di un conflitto più ampio tra legalità e legittimità, tra giustizia e percezione di giustizia, tra stato di diritto e tentazione dell’autoritarismo istituzionale. E, in un’epoca in cui i tribunali entrano sempre più nella sfera politica, la domanda è destinata a tornare: chi decide chi può concorrere per il potere? I cittadini, o i giudici?
Nina Celli, 10 aprile 2025
La condanna di Marine Le Pen ha basi solide e documentate
Nel dibattito sull’esclusione di Marine Le Pen dalle elezioni presidenziali francesi del 2027, al di là della polarizzazione, c’è un aspetto che merita di essere riportato al centro dell’attenzione: la condanna non è stata né improvvisata né priva di fondamento. Si basa su un impianto probatorio robusto, costruito nel corso di un'indagine pluriennale e confermato da un processo durato nove settimane, supportato da oltre 150 pagine di motivazione giuridica (“The Guardian”).
Il cuore del caso riguarda l’uso illecito di fondi pubblici europei destinati agli assistenti parlamentari. Secondo l’inchiesta condotta dall’OLAF – l’Ufficio europeo per la lotta antifrode – e confermata dalla magistratura francese, tra il 2004 e il 2016 Marine Le Pen e altri 24 imputati, tra cui 9 ex eurodeputati del Rassemblement National, avrebbero utilizzato oltre 4,5 milioni di euro per finanziare attività di partito e retribuire collaboratori del RN, invece di impiegare quei fondi per il lavoro parlamentare a Bruxelles o Strasburgo.
I giudici hanno ritenuto provato oltre ogni ragionevole dubbio che questi collaboratori non svolgessero attività legate al Parlamento Europeo. Alcuni non avevano mai messo piede a Strasburgo; altri erano iscritti come dipendenti del partito; in almeno tre casi, secondo “Le Monde”, risultavano svolgere attività di comunicazione per la campagna presidenziale 2012, in palese contrasto con le finalità dei fondi pubblici percepiti (“Le Monde”).
Secondo il capo del collegio giudicante, Bénédicte de Perthuis, la sentenza è stata necessaria per riaffermare che “nessuno può invocare l’immunità per violare le regole dello Stato di diritto”. La giudice ha chiarito che “non è in discussione l’ideologia della Le Pen, ma il fatto che abbia orchestrato un sistema di finanziamento parallelo, illegale e sistematico, ai danni dei contribuenti europei”.
È significativo sottolineare che la Corte non ha parlato di un errore amministrativo o di una svista burocratica, ma di una frode strutturata, reiterata per oltre un decennio, che ha coinvolto decine di persone e prodotto un danno economico massiccio. In un contesto simile, l’interdizione dai pubblici uffici non è stata un’eccezione, ma l’applicazione diretta dell’art. 131-26 del Codice Penale francese, che prevede questa pena accessoria per i reati contro la pubblica amministrazione.
Chi sostiene la legittimità della sentenza sottolinea anche che Le Pen ha beneficiato pienamente delle garanzie del giusto processo: accesso alla difesa, tempi congrui, dibattito pubblico, diritto di ricorso. Non si è trattato di una decisione “sommaria”, come qualcuno ha insinuato. La Corte ha deliberato dopo settimane di audizioni, analisi contabili, esami di email e contratti, testimonianze di funzionari UE e analisti forensi.
Un aspetto rilevante è che la condanna non si è basata su una presunta responsabilità "politica" o ideologica, ma su fatti documentati: firme su contratti, bonifici tracciati, email compromettenti, testimonianze dirette di collaboratori. Secondo il reportage di “Reuters”, una delle prove più schiaccianti sarebbe stata la lista interna del RN che classificava i collaboratori come “fittizi”, distinguendoli da quelli effettivamente impiegati nel lavoro parlamentare (“Reuters”).
La Le Pen non è stata accusata di essersi arricchita personalmente, ma in diritto penale amministrativo, non è necessario il beneficio diretto: basta l’utilizzo improprio di risorse pubbliche, specialmente quando si tratta di fondi UE, soggetti a regole stringenti.
Alla luce di tutto questo, l’argomentazione secondo cui la sentenza sarebbe stata “politica” appare indebolita. Anzi, secondo personalità come François Hollande o Marine Tondelier, è proprio l'applicazione neutrale della legge a garantire la credibilità delle istituzioni: “La giustizia ha fatto il suo corso, e Le Pen dovrà risponderne come ogni altro cittadino”, ha dichiarato Hollande, ricordando che “nessuno è al di sopra della legge, neanche chi ha milioni di elettori”. In questa prospettiva, l’interdizione di Marine Le Pen non è una sanzione eccessiva, ma una necessaria riaffermazione del primato della legalità su ogni logica di potere personale.
Nina Celli, 10 aprile 2025
Sproporzione rispetto al reato contestato
Il principio di proporzionalità è uno dei cardini del diritto penale democratico: la pena deve essere adeguata alla gravità del reato, ma anche coerente con precedenti giurisprudenziali e con le aspettative legittime della società civile. È proprio su questo piano che molti osservatori, giuristi e attori politici hanno sollevato dubbi profondi circa la sentenza inflitta a Marine Le Pen. Non tanto per la condanna in sé – supportata da prove – ma per la severità inedita della sanzione e per la sua immediata applicabilità, che sembrano collidere con la tradizione giuridica francese e con il rispetto delle garanzie democratiche.
La leader del Rassemblement National è stata ritenuta colpevole di aver partecipato, tra il 2004 e il 2016, a un sistema di “impieghi fittizi” nel quale oltre 4 milioni di euro di fondi del Parlamento Europeo sarebbero stati destinati, non a collaboratori istituzionali, bensì a funzionari e militanti del partito. Il Tribunale ha imposto, oltre alla multa e alla detenzione domiciliare, un’interdizione dai pubblici uffici di 5 anni, attiva da subito, anche in pendenza di appello. Secondo il giudice Bénédicte de Perthuis, la decisione si fonda su “principi costituzionali” e sulla necessità di preservare la fiducia dei cittadini verso le istituzioni pubbliche (“The Guardian”).
Tuttavia, proprio questa dimensione esemplare e immediata della sanzione è apparsa a molti sproporzionata. Non si tratta solo di un argomento sollevato dalla difesa o dal partito coinvolto. Anche esponenti della destra repubblicana e dell’area centrista hanno espresso preoccupazione. Laurent Wauquiez, ex presidente dei Républicains, ha commentato che si è trattato di una “pena eccezionalmente pesante, non molto salutare in democrazia”. Un giudizio che risuona in un contesto in cui, secondo Le Monde, “altri casi simili di appropriazione indebita non hanno portato a interdizioni immediate”, lasciando spazio a sospensioni e appelli, secondo prassi consolidate.
Il problema centrale, dunque, non è solo giuridico ma politico: la sanzione ha avuto un impatto immediato sull’equilibrio del sistema rappresentativo, impedendo la candidatura della leader che, secondo tutti i sondaggi, era in testa per le elezioni del 2027. Marine Le Pen era accreditata di una percentuale compresa tra il 34% e il 37% al primo turno, con possibilità concrete di vittoria al secondo (“NPR”). In questo contesto, il divieto di candidatura assume la fisionomia di una misura di esclusione politica, più che di una pena proporzionata a un reato patrimoniale senza arricchimento personale diretto. I giudici stessi hanno riconosciuto che Le Pen “non ha tratto profitto individuale” dalla frode, benché ne fosse responsabile come dirigente del partito.
Questa percezione di sproporzionalità è ulteriormente alimentata da una assenza di trasparenza sul criterio dell’urgenza. La scelta di rendere immediatamente esecutiva la pena – prima del verdetto d’appello – rappresenta una deviazione dalla norma, che di solito prevede la sospensione degli effetti per garantire la presunzione d’innocenza fino al termine del processo. Come ha notato Mathieu Lefèvre, parlamentare centrista, “Marine Le Pen non è vittima di un complotto, ma forse è vittima della necessità del sistema di dare un segnale”.
Diverse figure pubbliche hanno richiamato il principio secondo cui il diritto non può essere usato per “fare pedagogia politica”. Eric Ciotti, ex presidente dei Républicains, ha parlato di “una cabala giudiziaria fuori controllo”. Anche l’ex presidente François Hollande – pur sostenendo l’indipendenza della magistratura – ha lasciato intendere che la questione “non è solo giuridica, ma tocca l’equilibrio istituzionale”.
Sul piano comparativo, colpisce il fatto che altri scandali politici ben più gravi – con tangenti e corruzione attiva – abbiano avuto pene più blande o sospese. Lo scarto tra questi casi e la rigidità della condanna a Le Pen rafforza la tesi secondo cui la sua posizione politica ha influito sull’applicazione della legge.
La giustizia, per essere giusta, deve essere equilibrata, e in questo caso, agli occhi di molti cittadini e osservatori – anche non simpatizzanti della Le Pen – questa giustizia pare essere sbilanciata. La sproporzione tra reato e pena, unita alla tempistica e alla sua esecutività, contribuisce a una sensazione diffusa: più che di legalità, si è trattato di eliminazione politica mascherata da giurisprudenza.
Nina Celli, 10 aprile 2025
L’interdizione di Marine Le Pen non è un’eccezione, ma una regola democratica
Nello scontro politico scatenato dalla condanna di Marine Le Pen per appropriazione indebita di fondi pubblici, un principio fondamentale del diritto è stato spesso relegato in secondo piano: l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, anche – e soprattutto – quando si tratta di figure pubbliche di grande rilievo. L’idea che l’interdizione dai pubblici uffici rappresenti una misura eccezionale o politicamente motivata, come sostenuto da molti sostenitori di Le Pen, non trova riscontro nella legislazione francese. Al contrario, l’articolo 131-26 del Code pénal prevede espressamente l’interdizione dai diritti civili, civici e familiari per una serie di reati, tra cui la malversazione e l’abuso di fondi pubblici. Ed è precisamente su questa base che il Tribunale di Parigi ha motivato la pena accessoria che ha escluso Le Pen dalla corsa presidenziale 2027.
La giurisprudenza francese ha più volte applicato questo principio a esponenti politici di ogni schieramento, spesso con pene ben più gravi. Basta ricordare il caso François Fillon, candidato alle presidenziali 2017, condannato per impieghi fittizi e in seguito dichiarato ineleggibile. O ancora, Patrick Balkany, sindaco gaullista di Levallois-Perret, condannato nel 2019 per frode fiscale, scontò 13 mesi di carcere e fu interdetto dai pubblici uffici. In entrambi i casi, non vi furono campagne per denunciare una "giustizia politicizzata" – perché i principi erano chiari: “Chi sbaglia paga”.
La stessa Marine Le Pen, in passato, ha sostenuto tesi simili. Nel 2012 e ancora nel 2017, aveva chiesto che i politici condannati per corruzione e reati finanziari fossero interdetti a vita dai pubblici incarichi, sostenendo che “i cittadini devono potersi fidare di chi li rappresenta” (“NPR”). Oggi, quando il principio si applica anche a lei, viene denunciato come un’aggressione alla democrazia. Questo doppio standard ha portato diversi osservatori a sottolineare l’importanza di mantenere la coerenza istituzionale, anche quando il condannato è un candidato favorito alle elezioni. Come ha dichiarato Marine Tondelier, leader dei Verdi francesi: “La democrazia non si misura sulla popolarità di un imputato, ma sulla capacità delle istituzioni di trattare tutti allo stesso modo. Marine Le Pen deve rispondere delle sue azioni come ogni altro cittadino”. Anche Olivier Faure, segretario del Partito Socialista, ha ribadito: “L’indipendenza della magistratura è un pilastro dello stato di diritto. Le Pen non è stata zittita. Continuerà a parlare, continuerà a sedere in Parlamento, ma non può più essere candidata finché la legge lo prevede” (“Reuters”). Questa distinzione è cruciale: Marine Le Pen non è stata privata della parola, né del suo ruolo parlamentare, ma le è stato tolto temporaneamente il diritto di candidarsi a cariche pubbliche in conseguenza di una sentenza definitiva, come avviene per qualunque altro cittadino riconosciuto colpevole di un reato simile. Nessuno, per quanto popolare, è “intoccabile” in democrazia.
In effetti, chi sostiene l’equità della sentenza osserva che la democrazia non si indebolisce quando punisce chi ha violato la legge, ma quando inizia a fare eccezioni in nome della popolarità o dell’opportunità politica. In altre parole, il vero attacco alla democrazia sarebbe stato non punire Le Pen, nonostante la solidità dell’impianto accusatorio e il danno economico inflitto all’Unione Europea. La credibilità della giustizia si misura anche nella sua capacità di agire in modo imparziale, anche quando l’imputato è potente. Come ha affermato François Hollande, ex presidente della Repubblica: “La legge deve essere uguale per tutti. Se iniziamo a esentare i più influenti, non siamo più in uno Stato di diritto”.
In ultima analisi, l’interdizione di Marine Le Pen non può essere vista come una misura punitiva fuori scala, ma come la coerente applicazione di un principio universale: la legalità non può essere negoziata, neanche per i favoriti nei sondaggi. In uno Stato di diritto, la forza della legge deve prevalere sulla legge del più forte.
Nina Celli, 10 aprile 2025
Nessun indizio di strumentalizzazione politica del processo
Tra le accuse più frequenti mosse alla sentenza che ha escluso Marine Le Pen dalle presidenziali francesi del 2027, spicca quella secondo cui il procedimento giudiziario sarebbe stato irregolare, politicizzato o comunque “pilotato” per ottenere un risultato politico. Ma i fatti smentiscono questa narrazione. Quella che si è svolta a Parigi è stata una procedura giudiziaria pubblica, garantita, lunga e fondata su prove dettagliate, non su opinioni ideologiche.
Il processo a Marine Le Pen è iniziato nel gennaio 2025 e si è protratto per nove settimane consecutive. L’intera vicenda affonda le sue radici in un’indagine avviata dall’OLAF (Ufficio Europeo Antifrode) nel 2016, dopo che il Parlamento Europeo aveva sollevato dubbi sulla legittimità di decine di contratti di assistenti parlamentari legati al Rassemblement National. A quel punto, la palla è passata alla magistratura francese, che ha aperto un’indagine formale coinvolgendo 25 imputati, tra cui Le Pen, 9 ex eurodeputati e numerosi collaboratori. Durante il processo, secondo quanto riportato da “The Guardian”, i giudici hanno esaminato oltre 150 pagine di prove documentali, tra cui email, bonifici bancari, contratti di lavoro, testimonianze di ex collaboratori e verifiche incrociate con i registri contabili del Parlamento Europeo. Il risultato è stato un impianto accusatorio solido, che ha dimostrato come oltre 4,5 milioni di euro fossero stati impiegati per retribuire personale del partito RN sotto falsa copertura di collaboratori istituzionali. La stessa Marine Le Pen ha partecipato attivamente al processo, accompagnata dal suo team legale, esercitando pienamente il diritto alla difesa e il contraddittorio. Secondo il resoconto di “Reuters”, la leader del RN è stata interrogata in aula per più di sette ore complessive, ha potuto replicare a ogni accusa e ha avuto modo di contestare ogni singolo documento presentato dall’accusa.
È stato inoltre chiarito, in sede processuale, che la condanna non ha riguardato le opinioni politiche o l’attivismo pubblico di Le Pen, ma una violazione specifica del diritto amministrativo e penale: l’uso improprio di fondi pubblici. E anche se i giudici hanno riconosciuto che Le Pen non ha tratto un vantaggio personale diretto, hanno ritenuto che la sua posizione di responsabilità nel partito – in quanto leader e supervisore dei fondi – configurasse una responsabilità penale e gestionale.
Dal punto di vista procedurale, non sono emersi elementi di pressione politica o interferenze governative. Al contrario, l’esecutivo francese si è tenuto lontano dal processo. Il presidente Macron, sollecitato dai media, ha rilasciato solo una breve dichiarazione formale di rispetto per l’indipendenza della magistratura. Anche i ministri hanno evitato di commentare, lasciando spazio esclusivamente agli organi competenti. In questo senso, la trasparenza istituzionale è stata pienamente rispettata.
È significativo anche il fatto che il verdetto non sia definitivo, ma impugnabile in appello, e che tutte le pene accessorie – tranne l’interdizione, come previsto dalla norma specifica – siano sospese fino a decisione finale. Marine Le Pen mantiene infatti il suo seggio parlamentare a Pas-de-Calais e la possibilità di ricorrere sia in secondo grado che in Cassazione.
Il rispetto delle garanzie è stato sottolineato anche da osservatori indipendenti. Secondo “Le Monde”, “la Corte ha operato secondo i principi costituzionali, rendendo accessibile al pubblico ogni fase processuale e motivando con precisione ogni punto della sentenza”. E ancora: “L’ipotesi di una sentenza pilotata non trova sostegno nei documenti, nei tempi o nella condotta dei magistrati”.
Il fatto che la Le Pen continui a sostenere la sua innocenza non deve trarre in inganno: il diritto al ricorso non sospende la responsabilità per i reati accertati, soprattutto quando la legge – come nel caso dell’art. 131-26 – prevede l’esecutività immediata dell’interdizione per reati contro la pubblica amministrazione.
Il processo a Marine Le Pen, quindi, non è stato né eccezionale né anomalo, ma conforme ai canoni dello stato di diritto francese. La trasparenza, la durata, il diritto alla difesa e la possibilità di appello rendono difficile sostenere che si sia trattato di un processo "politico". Anzi, proprio la sua correttezza formale rappresenta un baluardo della democrazia costituzionale, che non si piega né alla popolarità dei suoi imputati né alla pressione dell’opinione pubblica.
Nina Celli, 10 aprile 2025
Il caso Le Pen crea un precedente pericoloso di giustizia come arma politica
Nel teatro della politica contemporanea, la linea che separa la giustizia dalla strumentalizzazione giudiziaria è sempre più sottile. Il caso Marine Le Pen ne è una prova eclatante. La sua esclusione immediata dalla corsa presidenziale del 2027, in seguito a una condanna per appropriazione indebita di fondi UE, ha fatto emergere una domanda: chi decide chi può candidarsi in democrazia – il popolo o i tribunali?
Marine Le Pen non è la prima leader populista o sovranista a finire nel mirino della magistratura, ma la sua interdizione ha qualcosa di unico. Non solo è stata privata del diritto di candidarsi per cinque anni, ma la misura è scattata immediatamente, senza attendere l’esito dell’appello. Questa scelta ha colpito profondamente l’immaginario collettivo e ha attivato un allarme tra leader internazionali, che hanno letto nella sentenza un potenziale strumento di esclusione legale per avversari politici.
La reazione più netta è arrivata dagli Stati Uniti, con Donald Trump che ha paragonato il caso Le Pen alle sue stesse vicende giudiziarie: “È una cosa grossa. Sembra proprio quello che succede qui, quando vogliono eliminarti con la legge” (“The Guardian”). Sulla stessa linea Elon Musk, che ha dichiarato su “X”: “Le azioni contro Le Pen finiranno per ritorcersi contro, proprio come i processi contro Trump. È lawfare – la guerra legale contro chi non si può battere alle urne” (“Reuters”).
Il termine “lawfare” – la trasformazione del diritto in un’arma politica – è diventato centrale nel discorso internazionale. Non è solo un’iperbole retorica: il caso Le Pen è stato analizzato da think tank e media come un “precedente europeo pericoloso”, che potrebbe legittimare futuri attacchi a esponenti politici scomodi sotto la copertura dell’azione penale.
Ciò che rende davvero pericoloso questo precedente è il carattere discrezionale e immediato della pena. Nella prassi giuridica francese, le interdizioni dai pubblici uffici sono normalmente sospese fino all’ultimo grado di giudizio, per garantire il principio della presunzione d’innocenza. In questo caso, la Corte ha optato per una deroga, ritenendo la situazione “grave e urgente”. Ma chi stabilisce cosa sia “grave”? Qual è il criterio per definire un’urgenza democratica? Colpisce inoltre la asimmetria tra l’impatto della sanzione e la sostanza del reato contestato. Sebbene Le Pen sia stata ritenuta responsabile – e ciò non è in discussione – i giudici hanno chiarito che non ha beneficiato personalmente dei fondi. Il danno erariale c’è stato, ma nessun arricchimento privato. Eppure, la pena ha avuto un effetto immediato: ha eliminato la principale sfidante presidenziale. Questa discrepanza tra reato e conseguenza politica ha rafforzato il sospetto che la giustizia sia stata “usata” per un fine politico.
La situazione ha generato preoccupazioni trasversali, anche in ambienti non vicini al Rassemblement National. Secondo “Le Monde”, diversi analisti hanno evidenziato come “la decisione della Corte, pur giuridicamente fondata, introduce una pericolosa elasticità nella gestione della rappresentanza politica” (“Le Monde”).
L’allarme si estende anche al contesto europeo. Geert Wilders, leader del PVV olandese, ha parlato di “precedente totalitario”, mentre Matteo Salvini, vicepremier italiano, ha commentato: “Se togli il diritto di candidarsi a chi ha milioni di elettori, non è democrazia. È censura”.
In Francia, la legittimità della sentenza è diventata un tema di confronto ideologico. Marine Le Pen ha dichiarato a “TF1”: “Non mi arrendo. Questo non è un verdetto di giustizia, è un tentativo di estromettermi dal campo politico”. Il rischio è che l’interdizione crei un effetto domino: se la giustizia può stabilire – in prima istanza – chi è legittimato a candidarsi, allora il principio della rappresentanza popolare viene subordinato a valutazioni giudiziarie, che potrebbero essere influenzate da pressioni politiche, mediatiche o ideologiche.
Questo scenario, per molti, minaccia direttamente la natura della democrazia rappresentativa, che si fonda sulla libera competizione elettorale e sulla parità di condizioni tra candidati. La questione non è più “Le Pen sì o no”, ma: “Cosa impedisce che domani accada a un altro?”.
Al di là delle colpe accertate, il caso Le Pen resta emblematico. Non solo per ciò che ha fatto, ma per come lo Stato ha deciso di reagire, ponendo le basi per una giurisprudenza che potrebbe alterare profondamente il futuro del pluralismo politico in Francia e in Europa.
Nina Celli, 10 aprile 2025