Gli enti locali sono più vicini ai cittadini: dargli più autonomia potenzierebbe l’efficienza, l’offerta di servizi pubblici e la sana concorrenza tra di essi

Tremonti: tassazione “dal centro alla periferia”

A metà degli anni Novanta si occupava di federalismo fiscale anche il futuro ministro dell’Economia Giulio Tremonti che, con il collega Giuseppe Vitaletti, scrisse un libro dal titolo Il federalismo fiscale (Laterza, 1994) dove, preso atto del fallimento del sistema fiscale italiano, lo si ripensava in maniera tale da valorizzare le autonomie locali. Per Tremonti e Vitaletti “il federalismo o è fiscale o non è”: Il baricentro della tassazione dovrebbe essere spostato dal centro alla periferia, cioè ai Comuni e alle Regioni, più vicini ai cittadini, secondo il presupposto per cui la ricchezza appartiene alla comunità che l'ha prodotta.

 

Il teorema del decentramento

Wallance E. Oates, nel suo teorema, noto come “teorema del decentramento” (Wallace E. Oates, Fiscal Federalism, Harcourt Brace Jovanovich, 1972), stabilisce che, in presenza di preferenze differenziate territorialmente, è sempre preferibile una soluzione che consenta diverse articolazioni dell’offerta dei beni pubblici locali rispetto a una soluzione uniforme. Una soluzione uniforme, infatti, com’è quella centralizzata, non permetterebbe di soddisfare tutti gli individui; anzi, comporterebbe perdite di benessere per gli individui lasciati insoddisfatti rispetto a una situazione di offerta differenziata territorialmente. In altre parole, viene dimostrato come la soluzione centralizzata nell’offerta dei beni pubblici locali non sia Pareto-efficiente, al contrario di una soluzione decentralizzata, in grado di migliorare il benessere di alcuni individui senza diminuire quello degli altri (quella che in gergo economico viene chiamata “superiorità paretiana” della soluzione decentralizzata rispetto a quella centralizzata).
Quello che Oates e gli esperti economisti suggeriscono, in estrema sintesi, è che una struttura federalista ha il vantaggio di sintonizzare maggiormente le scelte pubbliche alle preferenze (variabili sul territorio) dei cittadini/elettori e di responsabilizzare gli amministratori locali nelle loro scelte gestionali. Tale responsabilizzazione (detta accountability) renderebbe confrontabili le scelte dei governi locali, permettendo ai cittadini di esprimere giudizi sul loro operato.

 

Guadagni di efficienza e sperimentazioni

Nel saggio “Il Federalismo fiscale in Italia, fatti e problemi” (interventi tenuti nell’ambito del seminario Nuove prospettive per l’intermediazione finanziaria nel contesto economico, svoltosi a Perugia nel marzo del 2007, a cura di Massimo Bordignon, Flavia Ambrosiano e altri, Associazione per gli Sviluppi degli Studi di Banca e Borsa, Quaderno 234, 2007), Flavia Ambrosanio e Massimo Bordignon rilevano quanto le argomentazioni economiche a sostegno dei processi di decentramento fiscale siano essenzialmente riconducibili a ragioni di efficienza. “Il decentramento produce guadagni di efficienza (efficienza allocativa), perché i governi locali – essendo più vicini ai cittadini – sono in grado di rispettare meglio le loro preferenze per i beni e servizi pubblici locali, rispetto ad una soluzione centralizzata. I governi locali hanno infatti maggiori informazioni (o maggiori incentivi ad acquisirle) sulle preferenze dei loro cittadini ed anche sui costi dei beni e servizi pubblici locali. Il decentramento porterebbe verso la Pareto-efficienza, nel senso che consentirebbe di aumentare il livello di benessere di alcuni individui senza ridurre quello degli altri”. La maggiore vicinanza dei governi locali ai cittadini renderebbe, di conseguenza, gli amministratori pubblici meglio identificati e controllati, con conseguente aumento del loro “senso di responsabilità” (accountability), soprattutto se il costo dei servizi pubblici è sopportato a livello locale; il decentramento dunque rafforzerebbe la democrazia, aumentando il potere di controllo dei cittadini nei confronti dei loro amministratori.

Come Ambrosanio e Bordignon fanno inoltre notare: “Differenze nelle politiche di bilancio locali (diverse combinazioni di servizi pubblici e imposte) possono introdurre qualche forma di concorrenza tra i governi locali, se gli individui hanno una certa mobilità, e contribuire ad aumentare l’efficienza. Il decentramento avrebbe anche il vantaggio di ridurre l’asimmetria informativa tra politici e cittadini, consentendo a questi ultimi di valutare le scelte dei diversi governi locali e discriminare tra governi buoni e governi cattivi (si tratta della cosiddetta ‘yardstick competition’. Questo consentirebbe anche ai governi locali di confrontare il loro operato con quello degli altri e identificare le best practices”.
In questa catena di miglioramenti generata dal decentramento, rientra anche la possibile sperimentazione di politiche pubbliche a livello locale (laboratory federalism), in grado di accrescere ulteriormente l’efficienza del settore pubblico e di introdurvi qualche elemento di progresso tecnico. Progetti sperimentali da parte di un governo locale, se coronati dal successo, potrebbero essere attuati anche da parte di altri governi locali o dello stesso governo centrale.

 

Sussidiarietà e accountability

Sempre a proposito del miglioramento delle efficienze pubbliche, si veda il progetto Incontro al federalismo fiscale. Sviluppo della capacità di monitorare l’andamento dei costi di servizi e funzioni pubbliche nella prospettiva del federalismo fiscale [lanciato dal Dipartimento Affari Regionali (DAR), dal Dipartimento delle Finanze (DF) e da Studiare Sviluppo S.r.l. nel 2007].
Il progetto parte dal concetto di federalismo fiscale di “seconda generazione”, che riconsidera il teorema del decentramento fiscale in un contesto politico-istituzionale: i benefici del decentramento sono legati al principio di sussidiarietà e alla vicinanza tra elettori ed eletti che riduce i rischi di corruzione a seguito di un maggior controllo da parte dei cittadini. Concetto cruciale è sempre quello dell’accountability (responsabilizzazione) dei politici locali. Un governo locale è accountable se gli elettori sono in grado di discernere se questo agisce nel loro interesse e sanzionarlo adeguatamente in caso contrario. Il decentramento fiscale, creando competizione tra i governi (di diversi o di uno stesso livello), renderebbe il sistema più accountable, eserciterebbe un’azione di disciplina, eroderebbe le rendite politiche e quindi potrebbe spingere a un aumento dell’efficienza.
Sul concetto di competizione, vantaggi si avrebbero sia dal punto di vista di una competizione orizzontale, ovvero fra diversi enti di uno stesso livello, che verticale, cioè fra diversi livelli di governo. Gli elettori potrebbero confrontare le politiche fiscali adottate nella propria giurisdizione con quelle adottate nelle giurisdizioni vicine e, in questo modo, conoscere il livello di abilità dei propri amministratori, stimolando la responsabilità elettorale dei politici locali.

 

Tiebout e le comunità a “preferenza simile”

Sulla possibilità che il federalismo fiscale offrirebbe nel differenziare e mettere in concorrenza tra loro giurisdizioni, aggregati politici locali, va ricordato quanto affermato da Charles Tiebout nel suo studio The Pure Theory of Local Expeditures (“The Journal of Political Economy”, Vol. 64, n.5, ottobre 1956, The University of Chicago Press, pp.416-424), dove, riferendosi ai beni pubblici forniti a livello locale, l’economista statunitense fa notare come non sia sempre necessario operare con compromessi tra i membri di una comunità divisa tra chi desidera maggiori beni pubblici (quindi un maggior coinvolgimento del governo locale) e chi ritiene che tale erogazione non debba avvenire e che il livello di prelievo fiscale debba essere di conseguenza più limitato. Tali compromessi, che non accontentano nessuno, potrebbero essere evitati se agli individui venisse data la possibilità di formare comunità con membri aventi preferenze simili.
Chi desidera grandi quantità di beni pubblici potrebbe unirsi in comunità nelle quali accettare volontariamente i forti prelievi fiscali necessari a finanziare le spese ritenute importanti. Stessa cosa vale per coloro i quali sono contrari a forti prelievi fiscali e scelgono un’offerta di beni e servizi più limitata. La conseguente emigrazione dei cittadini provocherebbe una virtuosa concorrenza tra enti locali. Ogni ente locale sarebbe scelto sulla base delle preferenze dei cittadini in riferimento al binomio: beni pubblici/prelievo fiscale. Binomio che dovrebbe tendere a ottimizzare l’offerta anche da un punto di vista dell’efficienza, evitando inutili sprechi che renderebbero l’ente territoriale poco appetibile a prescindere della scelta del livello di quanti beni pubblici fornire in cambio del prelievo fiscale. In caso di inefficienze, il prelievo fiscale crescerebbe ingiustificatamente (“pago di più ma non ottengo nulla di più”) e renderebbe quindi poco appetibile quella comunità a favore di altre con scelte simili ma maggiormente efficienti.

 

Il caso elvetico

Per quanto riguarda gli effetti positivi riscontrati all’estero, Sergio Morisoli, deputato al Parlamento del Canton Ticino, già membro del Comitato Scientifico Intercantonale per la nuova Perequazione Finanziaria Federale, nel suo articolo La fiscalità nei paesi a federalismo compiuto: il caso della Svizzera ( “Confronti”, marzo 2011) analizza il caso elvetico, con alcuni riferimenti ai Cantoni e alle altre forme di federalismo estero. “Gli elementi-chiave di un federalismo particolarmente compiuto come quello svizzero – osservo innanzitutto – sono da un lato il principio di responsabilità di ogni cittadino, sancito nella nostra Costituzione all’art. 6: ‘Ognuno assume le proprie responsabilità e contribuisce secondo le proprie forze alla realizzazione dei compiti dello Stato e della Società’, e dall’altro la convinzione diffusa, divenuta un tratto tipico della nostra cultura nazionale, che la competitività e la solidarietà siano qualcosa non di alternativo bensì di positivamente complementare: è infatti grazie al loro interagire che esse restano entrambe nelle debite proporzioni. Abbiamo una competitività interna molto forte. Sono 26 Cantoni che sono 26 repubbliche, 26 costituzioni, 26 sistemi fiscali: c’è parecchia competitività pubblica all’interno del paese. A norma della Costituzione federale, le cui ultime riforme risalgono al 1999 e al 2004, i Cantoni sono sovrani per quanto la loro sovranità non sia limitata dalla Costituzione federale, ed esercitano tutti i diritti non delegati alla Confederazione. Dunque non è la Confederazione che delega i Cantoni, ma è esattamente l’opposto ed è scritto nella Costituzione. Si tratta insomma di una piena applicazione del principio di sussidiarietà iniziata secoli prima che di sussidiarietà si cominciasse a parlare. La sussidiarietà l’abbiamo sempre fatta e applicata senza nemmeno definirla in una legge e senza nemmeno nominarla. Poi però negli ultimi vent’anni ci si è resi conto che era forse opportuno inserire tale principio in modo esplicito nella Costituzione federale. […] La cosiddetta sussidiarietà verticale trova insomma nel nostro paese la massima applicazione”.

Più avanti, Morisoli introduce il principio adottato in Svizzera secondo cui “chi comanda paga e chi paga comanda”, affermando: “Il federalismo svizzero si caratterizza per la sua grande libertà politica, che è in particolare incentrata sulla democrazia diretta. È un sistema da noi definito ‘di milizia’. Che cosa significa? Nessuna assemblea legislativa in Svizzera è formata da professionisti della politica: sia alle Camere federali che a quelle cantonali i parlamentari sono tutti di milizia. Il Parlamento Federale si riunisce di regola quattro volte all’anno per due, tre settimane ogni volta (a seconda dei lavori). Di qui l’aspetto di milizia, con il senso profondo che prima viene il lavoro e poi la politica. Ognuno è impegnato altrove e poi riporta in sede politica l’esperienza di quello che fa. Quanto alla democrazia, si va molto spesso a votare perché si può votare quasi su tutto. L’uso del referendum popolare a ogni livello (federale, cantonale, comunale) è molto esteso, e anzi in molti Cantoni è la regola. I referendum sono sia abrogativi che istitutivi che fiscali e non hanno quorum, ma valgono qualunque sia il numero dei votanti […]”.

Sul piano della fiscalità, Morisoli fa poi notare come, a differenza degli Stati di matrice francese (l’Italia è fra questi): “in Svizzera la distinzione fra chi governa le entrate, chi programma la spesa e chi spende non è la regola bensì l’eccezione (e un’eccezione limitata il più possibile da ogni punto di vista). È il caso di soffermarsi su questo principio poiché è soprattutto grazie a esso che nel nostro paese la pressione fiscale è molto bassa e la spesa pubblica è molto efficiente. Tanto per fare un esempio importante, trattandosi del più grande paese dell’Europa, la Germania è una repubblica federale, però l’88% dell’intero prelievo fiscale avviene a norma e a cura del governo federale. Larga parte di tale prelievo viene poi trasferito ai Länder, ma resta il fatto che nella misura dell’88% le scelte riguardo a imposte e tasse sono centralizzate. In Austria, che in questo senso non si può nemmeno definire un paese federale, è addirittura il 90%. In Svizzera le percentuali sono di 30% alla Confederazione e 70% a Cantoni e Comuni. Ecco dunque una grossa differenza quando si parla di grado di libertà finanziaria nei paesi federali. Il Canada è quello che ci sta più vicino con 48% e 52%, come gli Stati Uniti con il 60% e 40%. Questo elemento è molto importante: oltre a non essere adeguatamente flessibile e veloce, la raccolta centralizzata e la successiva ridistribuzione delle entrate fiscali è un potente motore di burocratizzazione (e quindi di inutile spesa) nel migliore dei casi, e di clientelismo e di corruzione nel caso peggiore”.

Ancora, sul sistema fiscale elvetico, Morisoli fa notare come esso sia caratterizzato dalla totale o parziale riserva ai vari livelli di governo (federale, cantonale e comunale) di rispettivi distinti campi di imposizione fiscale: se non fosse così diventerebbe impossibile la concorrenza fiscale fra i territori, che invece è un elemento fondamentale. ‘L’imposta sul reddito e la sostanza’ (il patrimonio), in certa misura simile all’imposta italiana sul reddito delle persone fisiche, Irpef, è per lo più riservata al Cantone e ai Comuni: la Confederazione ne incassa soltanto il 15%. Si tratta – e questo è un fattore molto importante – di una percentuale su un’imposta le cui aliquote sono fissate dal Cantone, e che quindi possono variare, come infatti variano, da un Cantone all’altro. Per quanto concerne poi l’imposta sugli utili e sul capitale delle società, c’è un riparto più o meno equo del 30% sui tre livelli. Sul consumo la tassazione è totalmente della Confederazione; sul possesso e il dispendio è invece totalmente dei Cantoni e dei Comuni. Poi ci sono altre imposte (bollo, imposta preventiva, tasse stradali, dazi, eccetera) che sono prevalentemente della Confederazione. L’evasione in Svizzera è minima perché, essendo la raccolta delle imposte, anche di quelle federali, affidata ai Cantoni, il controllo è locale e quindi particolarmente efficace. Più il controllo è vicino, meno c’è evasione ed elusione. E soprattutto perché dalla sovranità fiscale – in forza della quale Cantoni e Comuni sono liberi in concorrenza tra loro di ridurre la pressione fiscale sul proprio territorio – deriva che ognuno è direttamente interessato a che gli altri contribuenti suoi concittadini non evadano. […] Al potere di riscossione delle imposte segue automaticamente quello di decisione riguardo alla spesa, o viceversa. Nel già citato esempio della Germania, dove le decisioni riguardo alla spesa sono centralizzate nella misura del 47%, è vero che poi sul 52% decidono i Länder, ma trattandosi dell’impiego di risorse trasferite dal centro la loro spesa incontra vari vincoli dovendo comunque avvenire nel quadro di obiettivi fissati da leggi federali. Nel caso svizzero invece responsabilità del prelievo e responsabilità della spesa coincidono esattamente: 32% di decisione centrale e 67%-68% locale con totale sovranità. E il risultato è confortante: anche se purtroppo negli ultimi anni essa è cresciuta andando dal 26-27% verso il 30%, la percentuale della nostra pressione fiscale sulla produzione nazionale lorda è largamente inferiore a quella dell’Italia, della Francia e in genere di tutti gli altri paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) gestiti in modo centralizzato. Il debito pubblico grosso modo è per il 60% della Confederazione e per il 40% dei Cantoni. Questo è importante per fare capire al volo cosa significa la decentralizzazione delle competenze e dei compiti con rispettivo finanziamento e carico dei costi. Vige anche qui il principio ‘chi paga comanda e chi comanda paga’”.

In ultimo aspetto, viene analizzata la complementarietà tra competizione e solidarietà nel sistema federale elvetico. Qui Morisoli afferma come, ai fini di perequazione, siano molte, circa 15 miliardi di franchi, le risorse federali che poi tornano ai Cantoni. Dunque quel 30% di entrate fiscali che compete alla Confederazione si ridurrebbe al 20%. Tutto questo, nel quadro di un sistema di costante comparazione della spesa. Ogni mese i Cantoni si confrontano: la competitività è la regola non solo sul lato del prelievo fiscale, ma anche su quello della spesa. Il sistema contabile e statistico non centralizzato, ma totalmente armonizzato, permette il continuo monitoraggio e confronto delle spese tra Cantoni, con riguardo a ogni prestazione e macrofunzione: raffronti che poi servono ai fini del sistema perequativo. Con un margine di errore di pochi franchi, si arriva così a sapere quanto costa ogni prestazione, evidenziando quali sono i Cantoni più spendaccioni, quali quelli più parsimoniosi e quali quelli nella media nello svolgere la stessa funzione. “Per l’insieme dei Cantoni abbiamo un’uscita pro capite media di 13.600 franchi svizzeri, tutte le prestazioni pubbliche comprese. Il Canton Ticino è sotto la media, ma ci sono dei Cantoni sopra e dei Cantoni ancora più parsimoniosi di noi nello svolgere i diversi compiti paragonabili: per ogni settore c’è la sua statistica che viene aggiornata di mese in mese e di anno in anno. In base a un nuovo sistema in vigore nel 2008 i meccanismi di perequazione sono stati riformati. Ci sembrava infatti che la Confederazione cominciasse ad assumersi un po’ troppe responsabilità. Perciò si è rivisto il modello verso il basso, ridelegando ai Cantoni delle competenze che avevano perso, che si erano fatti sfilare per opportunismo o per inerzia. La quota di ritorno di sussidi può variare molto: vi sono Cantoni che hanno il 50% delle loro entrate come ritorno da Berna e Cantoni che non arrivano neanche al 10% (perché vuol dire che il 90% delle proprie attività sono indipendenti e le autofinanziano). Quindi questa competitività fiscale e di spesa continua a giocare all’interno del sistema svizzero. Faccio un esempio, quello del Canton Ticino. Avendo la libertà fiscale, noi abbiamo deciso circa 10 anni fa di abbassare il carico fiscale. C’è stata una discesa del carico fiscale di quasi il 30%, un po’ sulle aliquote e un po’ sulle deduzioni ad hoc – per esempio una deduzione di 10.500 franchi per figlio e 12.800 franchi per figlio che studia fino al venticinquesimo anno di età. Essendo stata accompagnata da politiche d’incentivazione, di insediamento di imprese e quant’altro, a tale diminuzione del carico fiscale ha corrisposto una crescita del gettito complessivo. Nel caso delle persone fisiche c’è stato anche un processo di immigrazione interna. Negli anni in cui avevamo abolito l’imposta di successione, c’era stata l’immigrazione interna da altri Cantoni per venire in Ticino perché qui non si pagava la tassa di successione sui patrimoni e gli eredi. Poi gli altri Cantoni ci hanno imitato e in un paio di anni tutti l’avevano. È una sfida continua a inventare. Il Cantone Obvaldo giunse addirittura a introdurre un sistema di imposte decrescente per gli alti redditi cui poi venne costretto a rinunciare da una sentenza della Corte Federale. […] altro elemento-chiave del nostro sistema politico: per noi le imposte sono essenzialmente e prima di tutto il prezzo dei servizi offerti dalle pubbliche istituzioni, e non uno strumento di ridistribuzione della ricchezza nazionale. […] Da noi è perciò molto importante un indice sconosciuto in altri paesi: quello dell’attrattività fiscale. Nel 1995 il Ticino era al tredicesimo posto in Svizzera. Poi con la nuova politica fiscale siamo scesi praticamente al terzo posto e oggi siamo di nuovo retrocessi a metà classifica. Poi saremo superati o supereremo evidentemente qualcuno l’anno prossimo e quindi riprenderà la corsa. Questo è il sistema fiscale svizzero che, alla lunga (tutti gli esperti mondiali ci hanno già osservato) ha una caratteristica molto importante: permette di tenere bassa la pressione fiscale in un modo abbastanza automatico senza dettami di Maastricht o parametri stretti. […] Per quanto riguarda la perequazione finanziaria in senso stretto – abbandonando fattori come il reddito che nel tempo sono diventati manipolabili e producono situazioni perverse – nel 2008 si è semplificato il sistema puntando sulla ‘potenzialità fiscale’ dei vari Cantoni. La si calcola, fermo restando che poi la misura in cui ciascuno la sfrutta è di sua competenza. A livello federale si misurano le necessità, il fabbisogno competitivo, giacché ogni Cantone è monitorato, la contabilità è trasparente. Fissata quindi una quota massima, pari all’85%, si procede alla perequazione in base al potenziale fiscale tra Cantoni ricchi e poveri, tra Cantoni industriali e agricoli, Cantoni di montagna e Cantoni urbani. Il potenziale fiscale è calcolato in modo molto semplice, nonostante la complessità della formula, tenendo conto del gettito fiscale dell’imposta federale diretta (uguale in tutta la Svizzera) sulle persone fisiche e giuridiche. Ci sono Cantoni che alimentano questo fondo di compensazione e ci sono quelli che prelevano, ma non in una linea infinita. Analogamente stiamo procedendo a livello comunale, tra Cantone e Comuni con gli stessi principi per adattare la linea del federalismo fiscale e sussidiarietà per avere le stesse sincronie. Un altro elemento importante della riforma del 2008 è stato la riduzione al minimo dei settori ove Confederazione e Cantoni hanno competenze concorrenti. Questo perché l’esperienza ha dimostrato che quanto più le competenze sono distinte tanto minore è il rischio di inefficienza e di burocratizzazione”

Svantaggi nelle efficienze degli enti locali

La scelta del decentramento metterebbe a rischio l’efficienza delle funzioni degli enti pubblici.
Come è stato riassunto da Maurizio Caserta e Simona Monteleone nel documento Ambiti territoriali e servizi alle imprese, nell'ambito della XXXIV Conferenza Scientifica annuale AISRe, (Associazione Italiana di Scienze Regionali), tenutasi a Palermo il 2 e il 3 settembre 2013 (Crescita economica e reti regionali: nuove industrie e sostenibilità), gli esperti riassumono i potenziali svantaggi nelle efficienze degli enti locali in quattro punti fondamentali:

1. I guadagni di efficienza si riducono o si annullano nei casi in cui la dimensione troppo piccola del governo locale faccia emergere diseconomie di scala o ancora nei casi in cui i benefici e i costi della spesa pubblica vadano oltre i confini territoriali dell’ente che li produce (spillover effect).
2. Non sempre i cittadini hanno sufficiente informazione e potere politico per indurre i governi locali a un uso efficiente delle risorse.
3. Non sempre i governi locali hanno le competenze necessarie per adottare appropriate politiche di bilancio; la burocrazia locale può essere di qualità peggiore di quella nazionale.
4. La maggiore vicinanza dei cittadini ai governi locali potrebbe decidere politiche che favoriscono alcuni gruppi di interesse o individui, lasciando da parte l’interesse pubblico. Anche il fenomeno della corruzione in tale contesto potrebbe essere di maggiore entità.

A ciò va aggiunto che in nazioni con forti differenze territoriali nella distribuzione del reddito, il federalismo fiscale potrebbe indebolire l’azione redistributiva del governo centrale e, se non applicato propriamente, introdurre diseguaglianze nell’offerta di servizi pubblici fino a minare i diritti di cittadinanza. Inoltre la competizione fiscale tra Amministrazioni locali potrebbe arrivare a livelli eccessivi. Una delle tipiche situazioni di trade-off tra equità ed efficienza che caratterizzano lo studio dell’economia del settore pubblico.

 

Diseguaglianze nell’offerta pubblica

A proposito della distribuzione del reddito e delle possibili disuguaglianze nell’offerta di servizi pubblici, Federico Pica, professore ordinario di Scienze delle Finanze presso l’Università Federico II di Napoli, nel suo libro Del federalismo fiscale in Italia (Grimaldi e C. Editori, 2004) fa riferimento al rischio che comporterebbe gestire il gettito delle zone a più elevato reddito medio nelle regioni in cui esso viene prelevato. “Ciò comporta, fra l'altro, che i servizi dello Stato siano differenziati sul territorio a seconda del reddito medio che nelle diverse zone di esso si verifica. Ciascun cittadino è tenuto a pagare le imposte a seconda del suo reddito personale, ma fruisce di servizi a seconda della ricchezza, o della povertà media di coloro che vivono nella sua stessa zona (o regione)”.

 

Il problema delle esternalità territoriali

Sulla potenziale influenza negativa del federalismo fiscale sulle efficienze, interviene Alberto Zanardi, professore ordinario di Scienza delle Finanze presso la Facoltà di Economia dell'Università di Bologna, durante gli incontri per il progetto Incontro al Federalismo Fiscale. Sviluppo della capacità di monitorare l’andamento dei costi di servizi e funzioni pubbliche nella prospettiva del federalismo fiscale, lanciato dal Dipartimento Affari Regionali (DAR), dal Dipartimento delle Finanze (DF) e da Studiare Sviluppo S.r.l. nel 2007: “Una motivazione molto grossa per frenare un eccessivo decentramento è il problema, sempre in termini economici, delle esternalità territoriali: quelli che vengono generalmente chiamati ‘effetti traboccamento’ o ‘effetti di spillover’. Il concetto è che il decisore pubblico locale, il sindaco, spesso decide su cose che poi, in realtà, hanno effetti economici che travalicano quelli che sono i confini della sua amministrazione. Questo mismatching che può emergere fra la circoscrizione amministrativa, dove sta chi vota, dove stanno coloro che pagano le imposte, e l’area, la giurisdizione di ricaduta degli effetti economici, può portare situazioni di inefficienza, altri costi, costi ovviamente di duplicazione, costi di coordinamento”.

 

Un esempio di spillover

Francesco Porcelli, ricercatore SOSE (Soluzioni per il Sistema Economico), nel suo studio Introduzione alla teoria del decentramento fiscale (dispensa universitaria del 2010), fa un esempio specifico sull’esportazione delle imposte per chiarire meglio l’effetto spillover: “Con l'esportazione orizzontale delle imposte, una parte del carico fiscale di una giurisdizione diventa, di fatto, un onere per i residenti di altre giurisdizioni, determinando per la prima un livello eccessivo di entrate (e di spese) a seguito di un disallineamento tra costi e benefici. Ad esempio: le imposte sugli acquisti eseguiti dai non residenti, imposte di soggiorno, imposte sui profitti che gravano sugli investitori non residenti, imposte sulla proprietà dei non residenti”.

 

L’esportazione delle imposte

Il concetto è che i governi locali potrebbero esportare una parte della pressione fiscale sul reddito da capitale verso i non residenti. Jack M. Mintz, cattedra in Politiche Pubbliche presso l'Università di Calgary, sostiene che un comportamento usuale per tassare il reddito da capitale potrebbe essere quello di tassare le rendite economiche guadagnate dai non residenti (Jack M. Mintz, The Corporation Tax: A Survey, Fiscal Studies, 1995), mentre Harry P. Huizinga, professore di Economia Internazionale presso l'Università di Tilburg, e Søren Bo Nielsen, professore di Economia presso la Copenhagen Business School, sono dell’idea che un aumento della globalizzazione implicherebbe la tendenza a crescere, nel corso del tempo, del possesso di imprese domestiche da parte dei non residenti e dunque del potenziale di esportazione delle imposte (TdR), (Harry P. Huizinga e Søren B. Nielsen, The Political Economy of Capital Income and Profit Taxation in a Small Open Economy, Discussion Paper, Tilburg University, Center for Economic Research, 1996). Questo potenziale di esportazione delle imposte creerebbe una tendenza verso una sovra fornitura di beni pubblici (condizione di squilibrio che si verifica quando, in condizioni di ricchezza economica, viene intensificata al massimo la produzione per l’ottenimento del massimo profitto: in questo modo, l’offerta complessiva dei servizi risulterà superiore alla domanda) poiché i consumatori percepirebbero una riduzione del prezzo dei servizi stessi. L’evidenza empirica di questi fattori, tuttavia, non sarebbe univoca. Peter Birch Sørensen, professore di Economia presso l’Università di Copenhagen, afferma che il possesso di imprese domestiche da parte dei non residenti dovrebbe essere eccessivamente grande per far tendere alla sovra fornitura di servizi pubblici dovuti al potenziale di esportazione delle imposte e controbilanciare la pressione verso il basso sul livello dei servizi, innescata dalla competizione fiscale (TdR), (Peter Birch Sørensen, Company Tax Reform in the European Union, “International Tax and Public Finance”, 2004). Nonostante ciò, un ulteriore potenziale ruolo di stimolatore dell’efficienza della competizione fiscale sarebbe quello di limitare la tendenza alla sovra produzione di servizi pubblici dovuti al potenziale di esportazione delle imposte, un effetto che non sarebbe possibile nel caso di coordinamento fiscale.

 

Una concorrenza fiscale eccessiva

Sui possibili effetti negativi della concorrenza fiscale, processo attraverso cui gli enti sceglierebbero in modo strategico e non cooperativo le variabili fiscali allo scopo di procurarsi vantaggi rispetto agli altri, si sofferma lo stesso Porcelli in Introduzione alla teoria del decentramento fiscale (cit.): “Esistono allo stato attuale molti studi che mostrano come l’eccesso di concorrenza fiscale tra diverse giurisdizioni, associato al principio della fonte, possa produrre molti effetti distorsivi che possono minare il buon funzionamento dell’economia di mercato, così come i propositi redistributivi delle politiche fiscali. In questi casi, le singole regioni si ritrovano spesso ad affrontare il cosiddetto ‘dilemma del prigioniero’, poiché ogni governo locale teme che il capitale o altre basi imponibili mobili fuoriescano dal proprio territorio in presenza di un livello di tassazione troppo elevato rispetto a quello praticato dalle giurisdizioni vicine. Di conseguenza, tutte le giurisdizioni sono indotte a scegliere aliquote basse con conseguente riduzione delle risorse fiscali ed eventuale fornitura sub-ottimale di servizi. […] Quando la tassazione dei fattori produttivi è legata al principio della fonte, il mancato coordinamento delle decisioni tributarie degli enti locali non causa solo il problema della fornitura sub-ottimale dei beni pubblici. L’assenza di coordinamento può infatti portare anche ad un’allocazione inefficiente degli investimenti, nota in letteratura come ‘assenza di neutralità dal lato dell’esportazione dei capitali’. Le Regioni potrebbero cercare di manipolare il tasso d’interesse interregionale scegliendo strategicamente le proprie aliquote fiscali, al fine di incrementare gli afflussi di capitale dall’esterno” (Francesco Porcelli, Introduzione alla teoria del decentramento fiscale, cit., p. 91).

L’esempio che Porcelli fa, su quest’ultimo concetto, riguarda il comportamento strategico che avrebbero le imprese nella scelta delle aliquote. Viene analizzato il caso ipotetico di un’impresa residente in Lombardia che deve scegliere se localizzare un proprio investimento nella propria regione, in Puglia, nel Lazio o in Calabria. L’impresa formula un ordinamento in termini di volume di profitti generati dall’investimento, di valore attuale netto dell’investimento (VAN), senza considerare l’effetto delle imposte. Posto il caso che l’ordinamento sia il seguente: VANcal > VANpug > VANlom > VANlaz, prescindendo dal trattamento fiscale, l’impresa investirebbe in Calabria. L’impresa calcola poi i VAN al netto delle imposte, tenendo conto di tutti gli aspetti rilevanti: tassazione nella regione di localizzazione dell’investimento (fonte), tassazione in Lombardia (residenza), forme di interazione tra i due sistemi ecc. Considerando il fattore fiscale, viene supposto il seguente ordinamento: VANpug > VANlaz > VANlom > VANcal. Il trattamento fiscale indurrebbe dunque l’impresa a indirizzare la sua scelta sulla Puglia anziché sulla Calabria. Dall’esempio risulta evidente che il fattore fiscale introduce una distorsione sulle scelte d'investimento.

Suggerisce Porcelli: “Questo tipo di distorsione può essere eliminato se i rendimenti da capitale venissero tassati attraverso imposte basate sul criterio di residenza. In questo caso però, la distorsione si sposterebbe sulle scelte di risparmio, in quanto il rendimento del risparmio sarebbe influenzato dal livello d’imposizione della regione di residenza e non solo dalla produttività dell’investimento. Per evitare le distorsioni sia dal lato delle scelte d'investimento, sia dal lato delle scelte di risparmio, la tassazione del capitale deve essere armonizzata a livello nazionale” (Ibidem, p.94).

 

Rischi di favoritismi e criminalità organizzata

Giovanni Pitruzzella, presidente dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust), evidenzia, fra gli altri, quelli che potrebbero essere i rischi di aumento di favoritismi e criminalità organizzata. “In territori in cui è purtroppo ancora forte la presenza della criminalità organizzata ed in cui è presente in forti dosi quel ‘familismo amorale’ che spinge a domandare alla politica benefici particolaristici per sé e per il proprio clan, è grande la possibilità che alcune Regioni e, soprattutto, alcuni Enti locali, diventino strumenti proprio di questi orribili mostri che sono presenti nel Mezzogiorno” (I rischi del federalismo fiscale “Il giornale di Sicilia”, 8 ottobre 2010)

 

Il “rischio ambientale”

Di possibili danni del federalismo sulle efficienze nel settore ambientale parla, invece, lo studio Rapporto Osservasalute Ambiente del 2008, di cui si riportano alcuni passaggi nell’articolo di Antonio Ciaciullo, Federalismo e rischi ambientali (“cianciullo.blogautore.repubblica.it”, 28 luglio 2009, ) realizzato dall’Osservatorio nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane (Università Cattolica di Roma). Il rischio evidenziato sarebbe doppio: in alcune regioni, l’aggravarsi del rischio ambientale; nelle altre, una sensazione di sicurezza in buona parte falsa perché “gli inquinanti non si fermano ai confini regionali e amministrativi”. I dati si riferiscono ad alcuni dei settori critici emersi: “Acqua: in ambito nazionale l’82,3 per cento della popolazione dispone di acqua in quantità sufficiente, nelle isole la percentuale viene quasi dimezzata (42,7 per cento). Aumentano le perdite degli acquedotti. Rumore: più di due terzi dei Comuni non hanno ancora approvato la classificazione acustica del territorio bloccando di fatto l’applicazione della legge contro l’eccesso di rumore. Randon: un gas cancerogeno e una prima individuazione delle aree doveva essere effettuata entro il 31 agosto 2005: la mancata istituzione di una commissione per le linee guida ha ritardato tutto. Rifiuti: la raccolta differenziata è passata dal 13,8 per cento del 1999 al 25,8 per cento dei rifiuti urbani nel 2006: meglio, ma sempre molto sotto dell’obiettivo 35 per cento (oggi è il 40 per cento). Tra le Regioni più virtuose Trentino Alto Adige (30 per cento), Piemonte (25,8 per cento), Veneto (24,8), Valle d’Aosta (19), la Sardegna (18)”.

Antonio Azara, dell’Istituto di Igiene e Medicina Preventiva dell’Università degli Studi di Sassari, e Umberto Moscato, dell’Istituto di Igiene dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, entrambi firmatari dello studio (Rapporto Osservasalute Ambiente del 2008), concludono dicendo che occorrerebbe “evitare una frammentazione e parcellizzazione delle risorse, dei metodi e delle modalità di intervento adottate; inoltre, anche in relazione all’evidente ‘universalità’ dell’inquinamento delle matrici ambientali è necessario adottare una strategia condivisa, univoca e comunicata, basata su linee di intervento semplici e soprattutto integrate”.

 

Gli “ostacoli” in Brasile

Per quanto riguarda i problemi conseguenti al decentramento riscontrati nella casistica estera, prendiamo in esame alcuni aspetti della situazione del Brasile, che dagli anni Ottanta sta vivendo un lento mutamento da una forma di federalismo centralizzato a un modello cooperativo decentralizzato. Su tale questione, Ricardo Mauricio Freire Soares, professore nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bahia, nel suo articolo Riflessioni sul federalismo brasiliano (che trae origine dalla conferenza tenuta dall’autore presso l’ISSiRFA il 14 maggio 2007; traduzione a cura di Valentina Tamburrini) afferma: ”Il passaggio da un tipo di federalismo ad un altro implica, per conseguenza, non solo una definizione delle forme e meccanismi della cooperazione, ma anche una decentralizzazione di competenze e attribuzioni delle sfere federali, statali e municipali. Il processo di transizione verso il federalismo cooperativo sta incontrando due tipi di ostacoli. Il primo emerge dallo scontro di due logiche operanti negli ultimi decenni: la logica della situazione di emergenza economica e quella della decentralizzazione propriamente detta. La prima subordinava le iniziative governative all’esigenza di gestione dell’inflazione e alle necessità di austerità fiscale. La conseguenza è stata una enorme instabilità nel valore e nel flusso delle risorse effettivamente disponibili per i diversi ambiti sociali. Il secondo ostacolo alla transizione al federalismo cooperativo consiste nella difficoltà dello stesso Governo federale a definire con chiarezza meccanismi di cooperazione che forniscano incentivi efficaci alla decentralizzazione. Dove il Governo centrale è stato capace di costruire quei meccanismi, la decentralizzazione procede e la cooperazione tra i livelli di governo si va costruendo nella pratica. Dove il centro non è in grado di produrre una politica efficace, il modello cooperativo non si è sviluppato e la ridefinizione effettiva delle funzioni dipende dalle iniziative dei Governi statali e, in certe aree, dei Governi locali”.