L’IA sarà il prossimo digital divide e creerà una spaccatura insanabile tra chi ha e chi non ha accesso a tali risorse

IA: un nuovo discrimine sociale

I giganti dell’IT stanno investendo risorse ed energie nel processo di adeguamento all’incalzante sviluppo dell’intelligenza artificiale. Formare i propri dipendenti, afferma Enrique Dans nell’articolo del 22 novembre 2016 AI is The New Digital Divide [L’IA è il nuovo digital divide, TdR] scritto per “Medium”, attraverso l’introduzione di talenti e di prodotti basati sul machine learning, è sintomatico del processo di cambiamento che stiamo vivendo.

Nel giro di poco tempo, prosegue il professor Dans, siamo passati da una situazione di “inverno dell’IA”, a trovarci quotidianamente immersi in tecnologie che fino a pochi anni fa ci sarebbero sembrate da fantascienza. Ciò, sostiene Dans, può portarci a vedere nell’IA il prossimo digital dividde tra le aziende che saranno in possesso di tali tecnologie, e quelle che invece non lo saranno. Dal punto di vista di una business school, quale quella per cui lavora Dans, il processo è abbastanza evidente. C’è sempre più richiesta di esecutivi in grado di comprendere la situazione (in termini tecnologici), e l’offerta formativa relativa agli ambiti dell’IT e dell’IA è in costante crescita, sia a livello di comprensione base, quasi ogni università ha integrato corsi almeno introduttivi, sia in termini di profonda conoscenza ed expertising della materia.

Le “big” aprono la strada dell’innovazione

Grossomodo si può dire che il trend seguito dalle aziende coinvolte in prima linea (quindi Amazon, Facebook, Google, IBM, Microsoft e altre) sia quello di sviluppare piattaforme per l’utilizzo del machine learning per poi offrire il servizio ad aziende più piccole (l’acronimo è MLaaS, che sta per Machine Learning as a Service), le quali dalla loro hanno il vantaggio di recepire e assimilare più velocemente tali innovazioni per poi tradurle in prodotti per il mercato. La sfida principale, prosegue Dans, è dunque quella di creare piattaforme adattabili alle diverse esigenze delle compagnie che ne fanno uso, senza che queste ultime debbano a loro volta ricorrere a squadre di tecnici specializzati.

Darwinismo tecnologico?

Ma più che alle esigenze, si potrebbe dire che tali tecnologie debbano essere adeguate al livello di conoscenza medio di chi ne fa uso, perché da questo fattore dipende anche la visualizzazione delle potenzialità insite nelle innovazioni tecnologiche. Ciò implica per le compagnie utenti la ricerca di un equilibrio tra la necessità di sapere almeno a livello pragmatico con cosa si ha a che fare, e l’impossibilità di conoscere approfonditamente e in maniera diretta tutta la complessa impalcatura matematica su cui tali tecnologie si sorreggono.

“In breve, – conclude Dans – molto presto, le compagnie si divideranno tra quelle che sono in grado di trarre vantaggio dall’intelligenza artificiale e dal machine learning per le loro operazioni quotidiane, e coloro le quali continueranno a operare come hanno sempre fatto, diventando molto meno produttive e molto più imprevedibili. Stiamo parlando della comparsa di un nuovo digital divide, potenzialmente un evento darwiniano in termini di competitività” (TdR).

Una simile idea è espressa anche da Ben Tarnoff, nell’articolo Robots Won’t Just Take Our Jobs – They’ll Make the Rich Even Richer [Non solo i robot ci ruberanno i lavori – essi renderanno i ricchi ancora più ricchi, TdR], scritto per “The Guardian” il 2 marzo 2017. Qui egli sostiene che già un corposo numero di personaggi pubblici, tra i quali anche Bill Gates, abbia avanzato la proposta di tassare i robot. Inoltre egli afferma, stando ai dati economici, che il processo non sta ancora avvenendo su larga scala, come invece si legge sui titoli di molte pubblicazioni.

I ricchi sempre più ricchi

Quando il passaggio alla forza lavoro robotica sarà compiuto, sottolinea Tarnoff, il livello di disparità economica sarà altissimo. Questo, e non l’idea di una rivoluzione di “robot killer” dovrebbe destare l’attenzione degli addetti ai lavori.

Di scenari del genere ne abbiamo visti fin dall’epoca preindustriale, continua Tarnoff, e nella maggior parte dei casi la disoccupazione generata dalle innovazioni veniva compensata dai nuovi lavori che nascevano proprio grazie a esse. La differenza tra la situazione attuale e quelle passate consisterebbe nel fatto che la tecnologia potrebbe in effetti rendere il lavoro umano obsoleto tout court.

La fine del potere contrattuale

Il problema non è il fatto di sostituire il lavoro umano con quello robotico, ma dipende da chi è il destinatario della ricchezza prodotta. Perché in un sistema fondamentalmente capitalistico il lavoro di molti produce ricchezza per pochi, e l’automazione in un simile contesto non significherebbe solo la fine del lavoro per come lo conosciamo, ma anche la fine dei salari.

Se ancora al giorno d’oggi i lavoratori possono contare sugli scioperi come forma di protesta, in un simile futuro essi sarebbero privati di qualsiasi efficacia. Al contrario, immagina Tarnoff, se non ci saranno cambi di rotta in direzione di una più equa ridistribuzione, il rischio è quello di andare incontro a una vera lotta di classe che vedrà i ricchi schierarsi militarmente contro le masse in protesta per eliminare letteralmente il problema alla radice.

Guglielmo Papagni, 05 giugno 2017

L'IA per appianare le differenze

È possibile che, anziché favorire un’ulteriore scissione tra paesi che hanno o meno accesso alle tecnologie digitali, l’introduzione dell’intelligenza artificiale contribuirà a levigare le differenze tra nazioni e magari anche a combattere attivamente la povertà? Una risposta auspicabilmente positiva a tale domanda potrebbe essere rappresentata da una nuova tecnica di indagine che fa uso dell’intelligenza artificiale per monitorare le aree a maggior concentrazione di povertà. Ne parla Umberto Bacchi nell’articolo Artificial  Intelligence Could Now Help Us Ending Poverty [L’intelligenza artificiale ora può aiutarci a porre fine alla povertà, TdR], scritto per “Huffington Post” il 19 agosto 2016.

Il sistema, precisa Bacchi, funziona grazie all’utilizzo di immagini satellitari che vengono raccolte al fine di fornire un quadro quanto più preciso delle aree che necessitano di interventi mirati a ridurne il tasso di povertà. Certo, prosegue Bacchi, ciò che manca sono informazioni precise e dettagliate di quanta gente viva in condizioni di estrema povertà e dove. Considerando però che uno degli obiettivi delle Nazioni Unite consiste nella volontà di sconfiggere la povertà estrema (la soglia è considerata un guadagno di 1,25 dollari al giorno) entro il 2030, un simile strumento potrebbe rivelarsi fondamentale nelle mani di organizzazioni umanitarie e governi.

Mappare la povertà

Marshall Burke, assistente professore presso il dipartimento di scienze della terra della Stanford University, afferma che un team di informatici e di esperti dei satelliti hanno creato una mappa globale delle condizioni di povertà in grado di aggiornarsi autonomamente. Attraverso il processo di machine learning il team, nel corso di due anni di ricerca, è riuscito a identificare e utilizzare una serie di segnali che testimoniano le condizioni di una data area (il progetto ha coinvolto cinque nazioni africane). Le fotografie notturne si sono rivelate un ausilio fondamentale per delineare le porzioni geografiche maggiormente colpite. Il motivo della loro importanza sta nel fatto che le fotografie notturne possono mettere in risalto la presenza di luce artificiale, la quale viene considerata un marker delle condizioni di sviluppo, il che la rende, unitamente alle immagini diurne, un pratico ed efficiente riferimento per stabilire il livello di povertà. Più in generale, afferma Burke, “il computer impara a trovare un sacco di cose che noi consideriamo correlate alla povertà quali strade, aree urbane, colture e sistemi idrici” (TdR). Lo scopo è quello di creare una mappa globale delle condizioni di povertà che sia pubblicamente consultabile, nella speranza che i governi ne facciano un utilizzo effettivo e che di conseguenza adeguino i loro programmi d’intervento.

L’IA come l’atomica

Per scongiurare i rischi di un possibile futuro “AI divide”, sostiene David Gossett nell’articolo Artificial Intelligence (AI) and Global Politics [L’intelligenza artificiale e la politica globale, TdR] scritto per “Huffington Post” (consultato l’ultima volta in data 13 maggio 2017), sarebbe necessario istituire un’agenzia per l’intelligenza artificiale sul modello della IAEA (International Atomic Energy Agency, agenzia internazionale dell’energia atomica in italiano). In linea con il principio cardine del periodo di stallo nucleare che è seguita al secondo conflitto globale, ossia quello del cosiddetto “Atoms for Peace” (atomi per la pace), sostiene Gossett, “oggi la nostra azione deve essere guidata dallo spirito della ‘IA per la specie umana’” (TdR). Il senso concettuale e sociale di un tale progetto sarebbe dunque quello di canalizzare le potenzialità insite nell’IA (che siano positive o negative dipende proprio dalle intenzioni di chi ne fa uso), per aumentare la portata del controllo sulle situazioni di disagio sparse in giro per il mondo.

Pragmaticamente invece, prosegue l’autore, tale ipotetica agenzia dovrebbe perseguire quattro obiettivi principali: in primo luogo creare le condizioni necessarie a una presa di coscienza generale per far proliferare il dibattito sugli aspetti etici legati allo sviluppo dell’IA. Successivamente dovrebbe intraprendere qualsiasi provvedimento necessario a evitare l’estendersi del processo di “AI divide”. Il terzo obiettivo è rappresentato dalla trasparenza a livello governativo e di imprese private in merito agli sviluppi dell’IA. Solo così, afferma l’autore, è possibile evitare l’estremizzazione dei rischi impliciti nel condurre esperimenti segreti fuori dalla portata del giudizio etico pubblico. Come quarto e ultimo obiettivo, conclude Gossett, sarebbe necessario incentivare la condivisione dei risultati e la cooperazione internazionale prendendo a modello iniziative positive come quella promossa da Elon Musk con il nome di OpenAI.