Il PIL non è un indicatore completo, preciso ed affidabile

La completezza

Uno dei punti di forza del PIL è la sua completezza, ossia la capacità di comunicare sinteticamente attraverso un numero la somma dei consumi, degli investimenti, della spesa pubblica e del saldo di bilancia commerciale (esportazioni - importazioni): in sostanza, lo stato di salute di una economia.
Come evidenziato da Stephanie H. McCulla e Shelly Smith (Measuring the Economy: A Primer on GDP and the National Income and Product Accounts,  Bureau of Economic Analysis - US Department of Commerce, 2007, p. 1), il PIL è “una delle statistiche economiche più complete e strettamente osservate: è utilizzato dalla Casa Bianca e dal Congresso per preparare il bilancio federale, dalla Federal Reserve per formulare la politica monetaria, da Wall Street come un indicatore dell'attività economica, e dalla comunità imprenditoriale per preparare previsioni di risultati economici che forniscono la base per la produzione, gli investimenti, l'occupazione e la pianificazione”.

Il potere informativo del PIL

Il politologo Geoffrey Edwards, in un capitolo della Encyclopedia of Life Support Systems intitolato Political Aritmetick: problems with GDP as an Indicator of Economic Progress afferma che il PIL è un’adeguata misura di progresso economico. Ovviamente, sostiene Edwards, la sua adeguatezza dipende da ciò che si intende esattamente con “progresso economico”: se si adotta una visione tradizionale di progresso, inteso come la crescita della produzione di beni e servizi in un determinato lasso di tempo, ne consegue che il PIL ne è una fedele misura aritmetica. Dal punto di vista aritmetico infatti un indice dovrebbe essere preciso, accurato e affidabile, ossia dovrebbe permettere una quantificazione completa, corretta e verificabile delle grandezze utilizzate. Nel caso del PIL, non è discutibile, in generale, l’affidabilità dei dati elaborati dai sistemi statistici nazionali. Come rilevato dal CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) ne La misurazione del benessere equo e sostenibile, “il successo del PIL deriva dal fatto di aver colmato, sul piano statistico, un‘esigenza conoscitiva divenuta particolarmente sentita negli anni ’30 del XX secolo, la medesima esigenza che sul piano della teoria economica fu colmata dalla teoria keynesiana. Come osserva il Bureau of Economic Analisys: ‘Prima del diffondersi dei Conti Nazionali, i politici per guidare l’economia avevano a disposizione informazioni limitate e frammentarie sullo stato dell’economia stessa. La Grande Depressione sottolineò i problemi dell’incompletezza dei dati e portò allo sviluppo dei conti nazionali […] Può risultare sbalorditivo che i presidenti Hoover ed in seguito Roosevelt per combattere la Grande Depressione degli anni ’30 mettessero a punto le loro politiche basandosi su dati così imprecisi come quelli dell’indice dei prezzi all’ingrosso, del trasporto di merci, e di indici incompleti sulla produzione industriale. Ciò è dovuto al fatto che non esistevano, allora, metodi adeguati per misurare il reddito e la produzione delle nazioni. La Grande Depressione, e con essa il crescente ruolo del governo nell’economia, misero in luce la necessità di tali misure e portarono allo sviluppo di un esauriente sistema di conti del reddito nazionale’”.

 

L’incompletezza

Secondo l’economista Ignazio F. Lara, dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica di Milano, autore di “Quale dibattito sul PIL” (“Impresa&Stato”, n. 89, 2010, p. 53), “una delle critiche che giustamente si rivolge al PIL riguarda l’arbitrarietà con cui si è deciso di includere determinate attività ed escluderne altre, sulla scorta di parametri, anch’essi arbitrari, di definizione di attività produttiva o non produttiva. L’esempio maggiormente utilizzato riguarda il lavoro domestico: cucinare, pulire, stirare, badare ai propri figli non vengono considerate parti della produzione nazionale quando a svolgere tali attività è un membro della famiglia, ma diventano porzioni del PIL qualora si assuma una persona per svolgere tali mansioni, retribuendola con un salario”. Anche alcuni servizi come le attività di volontariato, “nonostante siano erogati gratuitamente hanno un peso sull’attività economica complessiva sia in termini produttivi sia in termini di capitale umano” (Quale dibattito…, cit. p. 54) sfuggono alla misurazione delle attività “produttive” del PIL.
Ne “la mia battaglia per gli indicatori della qualità della vita e della sostenibilità” (“Impresa&Stato”, 2010, n. 89, pp. 59-71), l’economista inglese Hazel Henderson afferma: “A partire dagli anni sessanta ho partecipato in prima persona alla battaglia per superare il ‘feticismo del PIL’ e adottare misure più ampie della ricchezza e del progresso delle nazioni. Scrivo battaglia perché si è trattato di mettere in discussione convenzioni, valori e gruppi di interesse che hanno messo radici nella società e nell’accademia nei trecento anni di ascesa dell’industrialismo”. “Le mie tesi sono ormai note […]: tra queste, l’enfasi monetaria del PIL […] che trascura il capitale umano, sociale e ambientale, nonché la produzione di beni e servizi dell’economia sommersa; la mancata rilevazione dell’inquinamento e dei costi ambientali e sociali e l’assenza di una contabilità patrimoniale che tenga conto adeguatamente degli investimenti del settore pubblico (strade, aeroporti, ospedali, infrastrutture) in contropartita del debito pubblico”. .
Lo stesso Simon Kuznets, nel discorso di presentazione del PIL al Congresso degli Stati Uniti d’America (National Income 1929–1932. A report to the U.S. Senate, 73^rd Congress, 2^nd Session, US Government Printing Office, 1934, p. 3), aveva notato: “I confini di 'nazione' nel 'national income' devono essere ancora definiti e diversi servizi, ulteriori rispetto a quelli elencati [misurati nel PIL, n.d.R], devono essere considerati come una parte corretta [nel calcolo], del prodotto finito di una economia nazionale” (TdR). D’altronde come ricordato da Robert Costanza ed altri (Beyond GDP: The Need for New Measures of Progress, “The Pardee Papers”, 2009, pp. 7-8), lo stesso “padre del PIL” aveva elencato una serie di attività che contribuiscono al benessere economico di una nazione (il lavoro delle casalinghe e di altri membri della famiglia, il volontariato, i guadagni da lavoretti, i proventi da attività illegali) ma che non rientrano nel novero del PIL per problemi di misurazione e monetizzazione.
Inoltre, per Kuznets (National Income…, 1929–1932, cit., pp. 5-6): “la preziosa capacità della mente umana di semplificare una situazione complessa in una descrizione semplificata diventa pericolosa quando non controllata in termini di criteri stabilmente definiti. Soprattutto con le misure di carattere quantitativo, la definitività del risultato suggerisce, spesso erroneamente, precisione e semplicità nel definire i confini dell’oggetto misurato. [La misurazione del PIL] è soggetta a questo tipo di illusione e di abuso dei risultati, tanto più perché è connessa al centro di un conflitto tra opposti gruppi sociali in cui l’efficacia di un argomento è spesso subordinata all’eccessiva semplificazione”(TdR).
Come sostenuto dal Center for the Advancement of the Steady State Economy nell’articolo, “il problema del PIL è che non separa i costi dai benefici ma semplicemente li somma sotto l’etichetta di attività economica. […] Il PIL inoltre non dice nulla su come il reddito e la ricchezza sono distribuiti tra le persone ” (TdR).

I divari sociali

Fabrizio Panebianco, dell’Ecole d'économie de Paris, nel suo contributo Economia e felicità: quali metodi per un nuovo PIL (“Aggiornamenti Sociali”, n. 9-10, 2012), ripercorre la storia del PIL, puntualizzandone i limiti: misurando esclusivamente il prodotto dell’economia di un Paese e non la sua distribuzione, non permette di cogliere l’evoluzione dei divari sociali; non tiene conto dei servizi e delle merci che non hanno un prezzo ed un mercato; non fornisce indicazioni sullo stock di ricchezza accumulata da un Paese; non considera affatto le esternalità negative ossia l’impatto ambientale e sociale della produzione di beni e servizi.

La dimensione ambientale e qualitativa

Per Aldo Eduardo Carra, autore di Oltre il PIL, un’altra economia. Nuovi indicatori per una società del ben-essere (Ediesse, 2000, p.8), “il limite più grande nell’attuale calcolo del PIL sta nel mancato computo del prezzo che la collettività paga per produrlo in termini di danni ambientali. L’uomo in un anno consuma più di quanto la terra può riprodurre”.
Lew Daly e Stephen Posner, nel loro Beyond the GDP. New Measures for a new economy ( “demos.org”, p. 5, consultato il 10 giugno 2015), individuano altre due criticità: “Il PIL misura la quantità dei beni e dei servizi ma non la qualità. Il denaro speso in bevande alcoliche e gioco d’azzardo è tanto ’produttivo’ quanto quello speso in libri […]. Ciò che è buono per il PIL è spesso pericoloso secondo altri punti di vista come la salute ed il benessere sociale. […] Il PIL non distingue tra spese che aumentano il benessere umano e 'defensive expenditures' che proteggono dai problemi derivanti dal benessere tradizionalmente inteso come il risanamento ambientale dai disastri industriali, il trattamento delle patologie sociali (dipendenza da fumo, obesità, etc.) e la spesa militare per proteggere gli interessi nazionali da minacce percepite o reali (TdR).