Il professore Franco Battaglia su “Il Giornale” (I rischi delle scorie nucleari? Tutte bufale, “Il Giornale”, 23 dicembre 2009), afferma che: “La radiotossicità, ossia la pericolosità delle scorie, prodotto delle reazioni di fissione nucleare è minima ed è destinata a ridursi nel tempo”.
Inoltre sul sito “zonanucleare.com” il 19 dicembre 2003 emerge che “sono al vaglio diverse soluzioni tecniche per il corretto stoccaggio e lo smaltimento delle stesse nonché per meglio sfruttare il combustibile disponibile” (Tecnologie sperimentali e progetti alternativi per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi: nel passato, nel presente, nel futuro, “zonanucleare.com”, 19 dicembre 2003). Esempi di tali soluzioni tecniche sono il riprocessamento, l’invio delle scorie sul sole, lo smaltimento nei fondali sottomarini, la digestione batterica e il riciclo per usi civili e militari.
La classificazione delle “scorie nucleari” e degli altri rifiuti radioattivi
Premessa: il terremoto e lo “tsunami” di Fukushima
Dopo questi due eventi, le televisioni di tutto il mondo hanno mostrato per molti giorni i loro effetti catastrofici dovuti ad un sisma di magnitudo 9 della Scala Richter (30.000 volte più potente di quello che ha raso al suolo l’Aquila !) e della conseguente e più distruttiva onda di maremoto (tsunami), che hanno colpito il distretto giapponese di Fukushima: interi centri urbani portati via dalla furia delle acque, porti cancellati, dighe e ponti crollati, grandi imbarcazioni distrutte, strade ed altri servizi spariti e decine di migliaia di morti e dispersi, di cui non sapremo mai il numero esatto. Il mondo ha mostrato sconcerto e partecipazione. Ma, abituato da secoli alla visione di altre inevitabili tragedie analoghe, ha ritrovato in tempi piuttosto brevi il controllo delle proprie emozioni, dedicando la propria attenzione ad altri drammatici eventi più vicini ai propri interessi. Ma i mass media, con prontezza e “sicura professionalità”, hanno spostato tutta l’attenzione del pubblico sui danni causati alla grande centrale nucleare che porta lo stesso nome del distretto, causati dagli stessi singolari eventi naturali esterni. Un dramma collaterale però, provocato dallo “tsunami”, certamente grave, anche se ha fatto una sola vittima accertata, un operatore schiacciato da una gru e, sembra, un altro morto per infarto cardiaco. All’interno della Centrale! Purtroppo, l’incidente riguarda “il nucleare”, sul quale è più facile tenere desta e più a lungo l’attenzione del grande pubblico e creare uno stato di trepidante attesa del peggio, quasi desiderato da molti, per dimostrare la inaccettabilità di una tecnologia di non facile conoscenza, ma inconsapevolmente o volutamente considerata come una sorta di “Dracula tecnologico”. E’ questa “ la paura dell’invisibile”, secondo una lucida definizione di un noto fisico italiano.
I numerosi e complessi eventi successivi hanno generato una quantità di situazioni evolutive, non facilmente gestibili e difficilmente riassumibili, e la inevitabile diffusione di notizie o di semplici ipotesi, spesso contraddittorie e di difficile comprensione da parte di ignari cittadini. E che si protrarrà probabilmente per anni, ma dimenticando che l’incidente in questione, i cui effetti non potevano essere tutti accertati ed analizzati immediatamente dopo l’onda dello “tsunami”, non è stato provocato da malfunzionamenti dei sistemi di sicurezza di quegli impianti, da inadeguatezze tecnologiche (malgrado l’età dei reattori) o errori umani. Pertanto, la comparazione con l’incidente di Chernobyl è priva di senso, sia per le cause che per gli effetti, come è stato precisato, ad un mese dall’incidente, dalla AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), con particolare riferimento a ipotetiche nubi radioattive in movimento verso il Nord-America e l’Europa.
Sottratto alle facili speculazioni politiche e/o ad altri interessi, questo triste evento giapponese deve sollecitare un maggiore sforzo di razionale informazione, accessibile e sempre più ampia e completa, su tutti gli aspetti della tecnologia nucleare civile, perché i cittadini del nostro paese abbiano elementi di conoscenza sufficienti per assumere la responsabilità di fare una scelta non più ambigua o dilatoria per il loro futuro energetico, con la consapevolezza che tutti gli altri grandi paesi industrializzati o in via di sviluppo hanno fatto la loro già da decenni e che non la modificheranno per l’evento in questione.
Oltre alla sicurezza degli impianti nucleari, sono le “scorie radioattive” l’argomento più evocato dal pubblico italiano, che non ha avuto modo di “vivere” da vicino la ricerca nucleare e lo sviluppo della sua tecnologia, come è avvenuto in altri paesi. Esse provocano un senso di incertezza, di diffidenza e di paura, che in molti si trasforma (anche con l’aiuto di intenzionali ed interessate sollecitazioni) in una avversione irrazionale per l’energia nucleare.
Ed è un argomento da considerare con molta attenzione, per trasferire al pubblico una conoscenza sufficiente e corretta della reale dimensione del problema e fornire risposte esaurienti a tutti gli interrogativi che il pubblico potrà porre.
L’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) definisce “rifiuto radioattivo: ogni materia per la quale nessuna utilizzazione è prevista e che contiene dei radionuclidi in concentrazione superiore ai valori che le Autorità competenti considerano come ammissibili nei materiali che possono essere utilizzati senza controllo”.
Una definizione più semplice e più largamente utilizzata è la seguente: “ogni materia la cui radioattività non permette un rigetto diretto nell’ambiente e di cui non si prevede una utilizzazione ulteriore”.
La produzione dei "rifiuti radioattivi"
Sono numerose le attività umane che producono “rifiuti radioattivi”:
- l’industria elettronucleare che utilizza e genera materiale radioattivo in tutte le fasi del “ciclo del combustibile nucleare”, dalla miniera fino all’eventuale ritrattamento del combustibile usato e allo stoccaggio definitivo del materiale non più utilizzabile;
- i centri di ricerca (fisica, chimica, biomedicale) e le applicazioni in medicina (diagnostica, terapeutica, analisi,ecc.) ;
- le numerose attività industriali per la fabbricazione di sorgenti irradianti o di controllo;
- le industrie che trattano materiali “naturalmente radioattivi”.
La quota più importante dei rifiuti radioattivi proviene dal settore elettronucleare (60% ca.), nei paesi in cui è stato sviluppato, mentre alla ricerca (nei paesi più avanzati) si attribuisce una quota del 24 % ca.
Ma, di solito in Italia, si definiscono “scorie” quelle “altamente radioattive e a vita lunga”, generate nel processo di fissione del “combustibile” nucleare all’interno del reattore. Sono quelle che, più di tutti gli altri rifiuti nucleari radioattivi, suscitano uno stato di allarme o di timoroso sospetto nel pubblico.
Ad esse bisogna aggiungere i “rifiuti radioattivi di struttura”, cioè le parti metalliche attivate, costituenti appunto la struttura delle barre di combustibile: i lunghi tubi in zircaloy cilindrici (4m ca. di lunghezza) a tenuta stagna contenenti le pastiglie di combustibile e gli altri componenti strutturali che li riuniscono rigidamente in fasci, racchiusi in una guaina che costituisce la barra di combustibile propriamente detta, dotata dei mezzi di manipolazione.
Dopo la sua permanenza nel reattore, i due componenti radioattivi residui più noti del “combustibile nucleare” sono l’uranio e il plutonio. Nei reattori che utilizzano come combustibile iniziale solo l’ “uranio naturale arricchito”, la quantità totale di uranio residuo è molto vicina a quella iniziale. Perché di essa è stata “bruciata” una parte dell’Uranio 235 fissile che, in origine, era costituita da una quota di circa lo 0,7% già presente nell’uranio naturale non ancora arricchito e da una quota che è stata aggiunta a quella naturale, con trattamenti tecnologici di concentrazione, e che si definisce, appunto, di “arricchimento”. In definitiva, l’uranio naturale (così “arricchito”) è composto da Uranio238 non fissile (ma “fertile”- V. seguito) per un valore del 97% - 95% e di Uranio 235 fissile per un valore del 3% - 5% (comprensivo della quota già presente nell’uranio naturale e della quota di “arricchimento”, cioè di concentrazione nel’uranio di origine naturale).
All’uranio residuo si aggiunge una modesta ma importante quantità di plutonio che, generato in reattore per cattura di un neutrone da parte dei nuclei di una certa quantità di atomi di Uranio 238 (è questa la “fertilizzazione” dell’Uranio 238), non è stato completamente “bruciato”, pur partecipando esso stesso al processo di fissione.
Per maggiore chiarezza, si consideri un reattore nucleare ad acqua pressurizzato (PWR) di una potenza di circa 900 MWe, il cui nocciolo sia costituito da 157 barre di combustibile (ossido di uranio arricchito al 3,8% di Uranio235, p.es.), ciascuno dei quali contenga circa 500 kg di materia iniziale (U235 e U238).
Dopo una permanenza utile di più di 3 anni nel reattore, nel combustibile irraggiato (usato) di uno di questi elementi (barre) si troveranno i seguenti componenti, con una indicazione delle loro percentuali (dipendenti dal livello di arricchimento e dal tasso di combustione):
- Uranio 238 residuo, che non ha subito cioè né fissione né cattura neutronica: 94% ca. a partire dal 96,2 % iniziale ;
- Uranio235 residuo, cioè “non bruciato”: meno dell’1 %;
- Plutonio generato da Uranio238, ma non del tutto “bruciato”: 1 % ca.;
- Altri elementi transuranici, detti “attinidi minori” (Nettunio, Americio, Curio): 500 grammi ca.;
- “Prodotti di fissione” ( generati dalla fissione dei nuclei di Uranio235 e Plutonio o dalla disintegrazione dei frammenti di fissione: cesio, stronzio, iodio, tecnezio, ecc.): 3% - 4 % ca.
Il peso degli ultimi due è, dunque, di circa 20 kg.
L’Uranio e il Plutonio residui possono essere separati dagli altri componenti, quindi riciclati e riutilizzati insieme per farne nuovo combustibile, avendo entrambi un potenziale energetico molto elevato. Questo procedimento li esclude, quindi, dalle “scorie”, perché sono “materie valorizzabili”, in conformità alle definizioni sopra riportate.
E’ una soluzione praticata intensivamente già da decenni dai paesi che ne hanno messo a punto la tecnologia (Francia e Giappone in particolare), sia per i propri bisogni sia per quelli di altri che ne hanno adottato la strategia, ma non hanno ancora i mezzi per farlo. Altri paesi ( Stati Uniti e Svezia per esempio) per molto tempo non hanno considerato tale processo urgente né, soprattutto, conveniente economicamente, tenendo conto che il costo attuale del combustibile di partenza (uranio naturale arricchito) è ancora basso. Essi hanno preferito, finora, lasciare intatti gli elementi ( barre) di combustibile usati, “condizionarli” opportunamente e conservarli così come sono, ma in condizione di massima sicurezza. Seguendo, generalmente, una logica di attesa per la scelta di una strategia di lungo termine. Ma, a partire dal 2007, gli Stati Uniti (che erano stati gli iniziatori di questa tecnologia) e la Cina hanno ripreso gli studi per mettere a punto una propria tecnologia di riciclaggio ed è prevedibile che questa pratica si estenderà, in tempi relativamente brevi, a tutti i grandi paesi industrializzati .
Queste precisazioni rendono più facilmente comprensibile la classificazione delle “scorie” del combustibile usato, quando ad esso si sottraggono le parti “valorizzabili”.
A queste “scorie” bisogna aggiungere, per avere una classificazione completa, tutti gli altri rifiuti radioattivi di qualsiasi natura, provenienti da tutte le altre attività nucleari, fino ai materiali di minima attività e di breve durata che si riscontrano durante lo smantellamento delle centrali o di altri impianti nucleari.
Per la classificazione di tutti questi “rifiuti radioattivi” si ricorre a due parametri fondamentali:
a) il “livello di radioattività”, cioè la quantità di radiazione emessa dagli elementi radioattivi e
b) il “periodo radioattivo” (o “vita media”), che corrisponde al tempo necessario perché il loro livello di radioattività si riduca della metà. A titolo di esempio: lo Iodio131 ha una vita media di 8 giorni, il Cesio137 di 30 anni, ecc. Alla fine di ciascuno dei rispettivi periodi, la radioattività di questi elementi diventa la metà di quella precedente.
Si ottiene, così, una classificazione in cinque grandi categorie, largamente condivisa:
1) “Rifiuti di alta attività a vita lunga” : provenienti, generalmente, da attività elettronucleari, con l’esclusione delle “materie valorizzabili” (uranio e plutonio, già riciclati in gran parte in parecchi grandi paesi). Il loro volume è molto modesto, ma con alta concentrazione di radioattività.
2) “Rifiuti di media attività a vita lunga”: provenienti, generalmente, dalle parti della struttura metallica delle barre di combustibile (guaine cilindriche di contenimento delle pastiglie di combustibile e altre parti strutturali), ma anche dal funzionamento di altri impianti nucleari (trattamento di effluenti, particolari attrezzature). In un volume egualmente ridotto si concentra meno di un decimo della radioattività della categoria di cui al punto 1).
3) “Rifiuti di debole attività a vita lunga”: generalmente provenienti da procedimenti industriali che utilizzano materie prime “naturalmente radioattive” (per esempio le vernici luminescenti).
4) “Rifiuti di debole o media attività a vita breve”: comprendono generalmente materiali di lavoro (utensili, tute da lavoro o altro vestiario di protezione,ecc.) provenienti da istallazioni nucleari, laboratori di ricerca, ospedali, laboratori di analisi, industria agroalimentare, metallurgia, materiali di uso corrente per il trattamento di effluenti liquidi o gassosi.
5) “Rifiuti di debolissima attività”: provenienti, generalmente, dallo smantellamento di centrali nucleari o altre istallazioni nucleari o da altre attività industriali che trattano egualmente materie “naturalmente radioattive”.
Solo per precisione, bisogna aggiungere che dalle centrali o da istallazioni nucleari (ed anche da altre attività industriali) sono emessi volontariamente, ma con l’autorizzazione delle Autorità Pubbliche, degli effluenti liquidi o gassosi definiti ancora “radioattivi”, malgrado la loro attività sia tanto bassa da non aggiungere praticamente niente alla radioattività naturale del luogo, meno di un millesimo. Radioattività naturale che cambia notevolmente da una regione all’altra, in funzione della natura del suolo!
Ogni rifiuto nucleare trova, quindi, la sua collocazione precisa in una di queste categorie in funzione della sua potenziale nocività iniziale e della sua durata.
A partire da una tale classificazione sarà più facile trasferire al pubblico una corretta informazione sulle soluzioni attualmente adottate per trattare, condizionare e stoccare, per il tempo necessario al loro decadimento, tutti i rifiuti nucleari e, soprattutto, sul modo di isolare dall’uomo e dall’ambiente, in assoluta sicurezza, i “rifiuti ultimi” a vita lunga. Ma sarà anche opportuno informare sulle soluzioni prevedibili, tecnicamente già provate in laboratorio e che potranno essere industrializzate economicamente in un futuro non lontano, per ridurre ancora di più e alla fonte la quantità dei rifiuti prodotti e la loro potenziale nocività.
La ricerca continua ed è molto intensa nei paesi nuclearizzati avanzati, sempre più numerosi.