Il modello americano ha vinto la sfida con la storia, garantendo sviluppo economico e libertà individuale

Donald Trump e la fine del secolo americano

 “Il ‘secolo americano’ è finito con Donald Trump. Sono trascorsi, in una coincidenza potentemente simbolica, cento anni dal 6 aprile del 1917, il giorno in cui gli Stati Uniti d'America furono trascinati, molto recalcitranti, in quella ‘inutile strage’ che fu la Prima guerra mondiale. Dai conflitti europei e poi mondiali, gli Usa non sarebbero più usciti, arrivando, prima attraverso guerre roventi e poi guerre fredde, a plasmare un ordine mondiale che fino all'annuncio del ritiro dall'accordo di Parigi sul clima, li aveva visti, vittoriosi o sconfitti, nella ragione o nel torto, sempre nel ruolo di perno” (Vittorio Zucconi, La fine del secolo americano, “La Repubblica”, 2 giugno 2017).
Sotto la presidenza Trump, secondo il giornalista Vittorio Zucconi, gli Stati Uniti sono diventati un “attore in cerca di ruolo” e non più i “registi” degli avvenimenti mondiali, avvitati in una spirale di isolazionismo e vittimismo. Questo porta a decisioni irresponsabili quali l’abbandono dell’accordo nucleare con l’Iran, la retromarcia sulle politiche ambientali e sulla partecipazione al trattato di Parigi, la fine della fase di disgelo con Cuba, precedentemente favorita da Obama, e i rapporti altalenanti con la Russia e con la Corea del Nord. Ne deriva un peggioramento generale della percezione degli Stati Uniti da parte degli altri paesi del mondo: secondo un sondaggio del Pew Research Centre, su un campione di 40.000 persone in 37 Stati differenti, “solo il 22 per cento degli intervistati si fida delle scelte di politica internazionale di Trump. Poco più di un terzo di quel 64 per cento che, invece, appoggiava il suo predecessore Barack Obama. Lo scetticismo nei confronti delle idee di politica estera della nuova amministrazione è ancora più marcato in Canada e Messico, ma anche in Europa e in Asia, mentre sia in Russia che in Israele Trump piace decisamente più di Obama” (Claudia Astarita, Perché con Donald Trump il soft power americano non funziona più, “Panorama”, 17 novembre 2017).
Questo si riflette anche in un calo di presenze sia dei turisti sia degli studenti stranieri. Nell’estate del 2017, il numero dei turisti è sceso del 3,5% rispetto all’anno precedente, mentre tra gli ingressi di studenti stranieri si registra un dato ancora più negativo: -7%. Il calo è dovuto non solo all’emissione in ritardo o al rifiuto dei visti dei candidati, ma anche a una “nuova atmosfera negativa che si respira negli Stati Uniti” (ibidem). Gli Stati Uniti, per alcune nazionalità di studenti, è diventato un paese ostile e quindi viene privilegiata l’iscrizione a Università europee o asiatiche (Ibidem).
Di fatto, usando l’espressione dell’ex primo ministro australiano Kevin Rudd, “l’America di Donald Trump è diventata lo zimbello (the laughingstock in inglese) del mondo intero” (Pierre Haski, In un anno Donald Trump ha accelerato il declino degli Stati Uniti, “L’Internazionale”, 7 novembre 2017). 

“La cosa più grave in questa crudele definizione è che a essere evocata è ‘l’America di Donald Trump’, non la figura del presidente. Perché se il miliardario divenuto comandante in capo della prima potenza mondiale suscita regolarmente risate e sorrisi, talvolta a denti stretti, quel che sta succedendo per gli Stati Uniti è di natura diversa”. Se l’isolazionismo di Trump portasse a un minore coinvolgimento nei conflitti, potrebbe anche essere positivo. Invece, senza una strategia chiara, Donald Trump “ha comunque deciso di rilanciare l’impegno militare statunitense in Afghanistan, ha bombardato la Siria perché sua figlia aveva visto delle immagini impressionanti su Fox News, e ha rischiato di provocare uno scontro tra il Qatar e i suoi vicini del Golfo autorizzando un’offensiva congiunta di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti contro il loro rivale di Doha” (Ibidem).

Il declino americano parte da lontano

La presidenza Trump rappresenta l’estremo stadio di una forte crisi della potenza statunitense nel mondo. Dopo la caduta del muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, infatti, vi fu la tendenza quasi unanime a considerare il modello americano come l’unico, vero vincitore della storia. Il trionfo della democrazia liberale sul comunismo, verso un mondo unipolare dominato dagli Stati Uniti, venne teorizzata dal politologo Francis Fukuyama nel libro La fine della Storia e l’ultimo uomo, una prospettiva largamente condivisa in quel periodo storico: “Le potenze emergenti erano considerate, almeno per tutti gli anni Novanta potenze ‘immature’, incomplete e in qualche modo junior. L’obiettivo primario era la loro progressiva integrazione nella rete delle regole internazionali - esse stesse di marca occidentale - a cominciare da quelle commerciali. Si spiega così, in particolare, la procedura (relativamente) rapida adottata per l’ingresso della Cina nel WTO (con la conclusione dei negoziati nel 1999 e la formalizzazione nel 2001). La logica era quella di puntare su una forma di interdipendenza ‘virtuosa’ che avrebbe legato i destini delle potenze in ascesa a quelle dei paesi più favorevoli allo status quo per evitare pericolosi revanscismi o contestazioni dirette” (Roberto Menotti, Dopo il Muro: dal bipolarismo al multipolarismo asimmetrico, “Aspen Institute”, 7 novembre 2014). 

La presunzione della superiorità occidentale si è scontrata con la realtà di un mondo sempre più multipolare: “In sede di Consiglio di Sicurezza dell’ONU, in particolare, la malcelata speranza era che sostanzialmente Russia e Cina sarebbero diventati attori acquiescenti, come in qualche modo sembrò accadere nel caso della risposta all’invasione irachena del Kuwait nel 1991. Quell’episodio si è rivelato l’eccezione invece della regola, visti i duri contrasti che hanno accompagnato gli interventi della NATO nella ex-Jugoslavia dalla metà del decennio, fino a quello in Kosovo nel 1999” (Ibidem).
I presidenti prima di Trump hanno cercato di fronteggiare i problemi interni (“il declino manifatturiero, la stagnazione della produttività e la crescita delle disuguaglianze”) imbastendo “un quadro di regole internazionali ispirate dagli Stati Uniti (il tristemente celebre Washington Consensus)”(Fabrizio Tonello, Inutili le cannoniere di Trump: il declino Usa è troppo strutturale, “Il Manifesto”, 21 marzo 2017). Trump invece “pensa di affrontarli con un ritorno alla politica delle cannoniere. Quasi dicendo al mondo: ‘Noi siamo più grossi e più cattivi, quindi si fa come diciamo noi’ […] Da questo nasce l’ostilità agli accordi sul clima, il disinteresse per le organizzazioni multilaterali, i tentativi di far prevalere gli interessi americani in trattative bilaterali” (Ibidem). 

D’altronde, “Nessun sistema imperiale è eterno, e gli assetti internazionali che in un'epoca in cui il mondo emergeva dalle rovine della guerra apparivano assolutamente sensati, oggi non sono più adeguati. E rischiano, anzi, di ostacolarne di nuovi. La Germania non ha più bisogno di essere tenuta a bada, mentre c'è chi si domanda se la Russia dovesse essere tenuta fuori. Inoltre, su un punto Trump ha ragione — benché lo esprima rozzamente: l'Europa, così come il Giappone, ha sviluppato una dipendenza eccessiva dal potere militare americano” (Ian Buruma, La fine della pax americana, “La Repubblica”, 15 giugno 2017).

Perché gli Stati Uniti restano una potenza mondiale

“Dagli anni Sessanta del Novecento, il dibattito sul declino americano è una costante del panorama politico, mediatico e accademico. A seguito della crisi economica del 2008, tuttavia, ha trovato un rinnovato vigore” (Stati Uniti d’America, Enciclopedia Treccani, “Atlante geopolitico”, 2016). Esistono due diversi piani di analisi: il piano della percezione della potenza americana, e “quello della valutazione delle sue basi materiali” (Ibidem).
Il primo livello di analisi è influenzato anche dal “tipo di leadership che le diverse presidenze americane hanno deciso di perseguire, muovendosi secondo alcune linee guida ricorrenti nella politica estera americana: interventismo o isolazionismo, multilateralismo o unilateralismo, pragmatismo o idealismo, soltanto per citarne alcune tra le più salienti” (Ibidem).
Joshua Muravchik, ricercatore presso la Johns Hopkins University’s School of Advanced International Studies, ritiene che l’isolazionismo non sia praticabile per una potenza mondiale come gli Stati Uniti: “Quasi ogni guerra che gli Stati Uniti hanno combattuto dall’inizio del ventesimo secolo è stata una guerra che avevano deciso di evitare” (Joshua Muravchik, America’s Purpose and Role in a Changed World, “World Affairs Journal”, maggio/giugno 2014).
Muravchik riporta vari esempi a supporto della propria tesi: l’ingresso nella prima guerra mondiale causato dalla guerra sottomarina contro le spedizioni transatlantiche americane, la neutralità degli USA nel secondo conflitto mondiale abbandonata dopo la tragedia di Pearl Harbor, l’inizio della guerra nel Vietnam dovuto alle pressioni francesi, che tentarono di riconquistare le proprie colonie in Indocina. Più recentemente, nel 1990 fu il dittatore iracheno Saddam che iniziò l’invasione del Kuwait, mentre riguardo il conflitto nei Balcani, sia i Repubblicani sia i democratici furono restii a intervenire (Ibidem). Tutte queste situazioni sono collegate da un unico filo conduttore: l’impossibilità per gli Stati Uniti di rimanere neutrali, a differenza, ad esempio, della Svizzera. Muravchik scrive: “Quando i conflitti internazionali si tramutano in gravi violenze, spesso bussano alle porte dell'America a prescindere dai nostri desideri perché il nostro è un grande, influente, potente paese con interessi lontani. Il nostro è anche probabilmente il paese di maggior successo della storia”, di conseguenza “la scelta [di intervenire, NdR.] non dipende da noi”. Da un lato, l’azione americana ha impedito lo scoppio di una terza guerra mondiale e un esito favorevole della guerra fredda; dall’altro lato, Muravchik ammette l’eccessiva frettolosità degli Stati Uniti nel dichiarare guerra all’Iraq.
Gli Stati Uniti possono essere più o meno interventisti a seconda del periodo storico, ma restano fondamentali per preservare, per quanto possibile, la stabilità del mondo, poiché sono “al tempo stesso molto potenti e privi di ambizioni imperiali” (Ibidem). L’attivismo degli Stati Uniti “deve essere guidato da una valutazione delle potenziali minacce”, tra cui l’islam politicizzato.

Il secondo livello di analisi riguarda le risorse economiche e militari degli USA: “Il divario tra Washington e il resto del mondo appare più marcato, non solo per quanto concerne la spesa militare, le dotazioni della difesa, la qualità e la quantità dei sistemi d’arma a disposizione, ma anche in ragione del fatto che gli Stati Uniti sono ancora l’unico paese in grado di proiettare la propria potenza a livello globale grazie al predominio complessivo nei tre cosiddetti spazi comuni: il cielo, lo spazio e il mare” (Stati Uniti d’America, Enciclopedia Treccani, “Atlante geopolitico”, 2016). Oltre a questi fattori, la supremazia monetaria del dollaro e la forte “capacità di assorbimento delle merci altrui”, che ne causa l’elevato deficit commerciale (Dario Fabbri, Donald Trump è un incapace: ma nonostante lui gli Stati Uniti restano i padroni del mondo, “L’espresso”, 18 dicembre 2017), sono altri indicatori che dimostrano come gli Stati Uniti continuino ad essere una superpotenza mondiale, nonostante il ruolo ambiguo del presidente Trump, tendenzialmente volto all’isolazionismo: “La volontà dei leader non è in grado di estinguere l’impero. Specie negli Stati Uniti, dove alla solidità strutturale della nazione si unisce la sofisticatezza degli apparati, deputati a gestire la politica estera. […] Lo Stato profondo è perfettamente in grado di respingere i propositi anti-imperiali della Casa Bianca”. Non basta quindi un politico a “modificare la traiettoria di un impero” (ibidem).

Il modello americano e l’assenza di reali alternative

“Finché gli Stati Uniti saranno visti come un paese in cui persone di diversa estrazione hanno un'opportunità ineguagliabile per iniziare e prosperare, la sua posizione globale poggerà su solide basi” (Tom Gjelten, America’s Purpose and Role in a Changed World, “World Affairs Journal”, maggio/giugno 2014).
“Dal 2007, le indagini di Gallup in più di centocinquanta paesi hanno dimostrato che gli Stati Uniti sono di gran lunga la destinazione preferita numero uno. L'indagine più recente ha previsto che centotrentotto milioni di persone in tutto il mondo vorrebbero trasferirsi stabilmente negli Stati Uniti, più di tre volte il numero di persone che sceglierebbe il Regno Unito, la seconda destinazione preferita” (Ibidem). Questi dati potrebbero essere rivisti al ribasso con l’avvento della presidenza Trump, in ogni caso è innegabile la predominanza della cultura americana nel mondo. Non esiste una vera alternativa al modello americano, composto da democrazia, libertà individuali, capitalismo e potenza militare: “Tra gli attori internazionali considerati, il più temibile risulta essere il Dragone; tuttavia, dati concreti alla mano, anche laddove la Cina dovesse superare economicamente gli USA, il potere bellico e di moral suasion di Washington rimarrebbero saldi ancora per qualche decennio. L’Europa è tutt’ora priva di identificabile ed unitaria personalità politica e sociale con una conduzione della politica estera povera di real vision e ricca di demagogia, mentre il Giappone, pur godendo di un’economia forte e di una leadership volitiva, deve fare i conti con un problema demografico di rara gravità; la Russia, sospinta da nazionalismo ed antiliberalismo, risente di una struttura istituzionale e di un apparato giuridico deboli, corrotti e con un PIL non in grado di competere con quello americano, mentre l’India combatte contro i suoi paradossi: un arsenale militare di rara potenza a fronte di consistenti sacche di povertà diffusa; il Brasile, infine, sempre più un gigante dai piedi d’argilla, potenzialmente ricchissimo ma preda di corruzione e di gravi carenze infrastrutturali. Solo la Cina vanta un PIL in crescita, […] ma con diseguaglianze sociali ed economiche marcate, frequenti fenomeni di corruzione ed un persistente e connaturato illiberalismo” (Gino Lanzara, L’era del primato americano è terminata?, “Difesa online”, 20 novembre 2017).

Gloria Gattoni, 2 luglio 2018