Non tutte le risorse che abbandonano il Paese devono essere considerate “cervelli in fuga”

Un problema avvertito anche a livello europeo

I dati della “fuga dei cervelli” sono evidenti ed allarmanti, non solo per le istituzioni italiane, che però stentano a trovare soluzioni, ma anche per l’Unione Europea, che evidenzia la differenza tra le opportunità offerte dall’Italia e quelle offerte dalle più importanti potenze europee.
Marco Buti, direttore generale per gli Affari Economici e Finanziari della Commissione Europea, afferma a riguardo: “La fuga di cervelli crea anche un danno produttivo che va a ripercuotersi ulteriormente sulle spalle di chi rimane, essendosi questi ragazzi formati grazie ad investimenti pubblici attraverso la fiscalità generale” (Marcello Celeghini, Crisi economica e cervelli in fuga, di chi la colpa? “estense.com”, I ottobre 2017).
Non è dunque solo un danno per chi se ne va, danno prevalentemente affettivo, ma è un danno anche per chi resta in un Paese indebolito.

Tra sottodimensionamento e fuga

Per i giovani italiani ad alta specializzazione, esistono solo due possibilità: rimanere in Italia accettando un sottodimensionamento importante o cercare la propria strada all’estero, attraverso un pieno riconoscimento di titoli e talento. Non deve dunque stupire se i ragazzi propendono sempre di più per la seconda ipotesi, scegliendo una qualità della vita decisamente migliore.
Così Carolina Brandi, ricercatrice Irpps-Cnr: “Entrambe le possibilità rappresentano un danno per la società che spende per la formazione di questo personale altamente qualificato, senza poi utilizzarla per uno sviluppo economico basato sulla conoscenza” (Salvo Intravaia, "Cervelli in fuga? Il dramma è che l'Italia non saprebbe come usarli", “repubblica.it”, 25 febbraio 2016).

Serena Girotti, impiegata presso la Direzione Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati della Corte dei Conti, sottolinea poi un aspetto importante relativo ai conti italiani: “Oltre a perdere l’investimento già fatto, lo Stato disperde tutti i benefici che provengono da possibili guadagni, non certi, ma molto probabili. Che i guadagni siano altamente probabili dipende anche dal fatto che i cervelli italiani raggiungono spesso posizioni apicali nei centri di ricerca e, quindi, a livello internazionale siamo già riconosciuti come la crème della crème… ma questi cervelli per l’Italia, evidentemente, non sono abbastanza” (Serena Girotti, Cittadini Attivi, il costo economico della ‘fuga di cervelli’, “key4biz.it”, 8 novembre 2017).
Si perdono dunque possibili contribuenti ad alto reddito e si disperde un patrimonio immenso sotto tutti i punti di vista.

Claudio Alessandro Colombrita, 23 maggio 2018

Pensare a quelli che restano

Si parla troppo spesso dei ragazzi che abbandonano il nostro Paese ma non si dedica la dovuta attenzione a chi rimane in Italia.
Bisogna pensare a politiche dedicate ai giovani e a creare le occasioni affinché essi possano esprimersi al meglio.
Giuliano Poletti, ex ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali nella XVII legislatura, non ha risparmiato critiche in tal senso: "Intanto bisogna correggere un'opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei 'pistola'. Permettetemi di contestare questa tesi. Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi" (Sergio Rame, Poletti contro i cervelli in fuga: "È meglio non averli tra i piedi", “ilgiornale.it”, 19 dicembre 2016).
Al di là della durezza delle parole e delle espressioni poco felici dell’ex ministro, un concetto chiaro e perentorio: pensiamo anche a chi rimasto, invece di soffermarci su chi se ne è andato.

Distinguere tra risorse

Non tutte le risorse possono essere considerate “cervelli” e non tutti i “cervelli” possono rimanere in Italia. In realtà, non bisognerebbe più fare un ragionamento di Paese ma bisognerebbe allargare l’orizzonte guardando all’Europa e alla libertà di movimento, conquista importante anche per il diritto del lavoro. Antonio Sanguinetti, dottore di ricerca in Sociologia e Scienze Sociali applicate all'Università “La Sapienza” di Roma afferma: “Siamo di fronte ad un avvenimento epocale per cui è necessario superare l’etnocentrismo italiano che assegna ai ‘nostri’ il ruolo di cervello e relega gli ‘altri’ a manovalanza scadente. La tendenza è verso un mercato del lavoro europeo o, meglio, si sta affermando una nuova figura: il lavoratore europeo” (Né generazione Erasmus, né fuga dei cervelli: cosa ci dicono le migrazioni interne in Europa?, “dinamopress.it”, 17 gennaio 2018).
Inoltre, un talento italiano potrebbe essere non considerato tale in un’altra nazione, con un suo relativo sottodimensionamento. Entrano, infatti, in gioco meccanismi di stratificazione “razziale”. Un laureato di un determinato Paese, magari diverso dalle grandi nazioni europee (Germania e Francia su tutte) può avere più difficoltà dei talenti del luogo ad emergere in determinate mansioni.