La ripresa economica è già in atto, a prescindere dall’esito elettorale

Le origini del declino italiano: il divario nord – sud

Si può parlare di declino economico dell’Italia già a partire dagli anni Settanta: questa è la tesi del saggio “Italy’s Growth and Decline, 1861-2011” degli studiosi Emanuele Felice e Giovanni Vecchi, citato da “Linkiesta.it” (Vincenzo Atella, Ma quale euro! Il declino italiano nasce negli anni '70, “Linkiesta.it”, 14 dicembre 2013). Confrontando la crescita del PIL italiano con quella degli altri paesi OCSE, emerge un continuo andamento decrescente dagli anni Settanta in poi fino a toccare il punto più basso nell’ultima decade. Una delle ragioni fondamentali è rappresentata dallo storico ritardo del Mezzogiorno rispetto alle altre regioni italiane. Il gap tra Nord e Sud Italia si ridusse proprio nel periodo di maggiore crescita del secolo scorso, tra il 1951 e il 1971, attraverso l’operato della Cassa del Mezzogiorno. La Cassa finanziò la costruzione di infrastrutture e di industrie, sia private che pubbliche, soprattutto nei settori chimico, meccanico e siderurgico. Ma la crisi petrolifera degli anni Settanta provocò una battuta di arresto nello sviluppo dell’industria pesante e le fabbriche dell’Italia meridionale, dipendenti da sussidi e aiuti statali, furono incapaci di adattarsi al mercato. Dagli anni Settanta in poi, il Sud nuovamente peggiora il proprio andamento economico, molto di più rispetto ad altre regioni periferiche dell’Europa, trascinando con sé l’intero paese in un lento ma costante declino (Emanuele Felice, Giovanni Vecchi, Italy’s Growth and Decline, 1861-2011, CEIS Tor Vergata, Research Paper Series, Vol. 11, Issue 13, No. 293 – October 2013).

Tangentopoli

A parere di diversi commentatori, Tangentopoli rappresentò la fine della Prima Repubblica, aprendo le porte a uno scenario politico del tutto nuovo. Così Paolo Mieli, giornalista e saggista esperto di Storia e politica italiana, in una intervista rilasciata all’“Osservatore Romano”: “La Prima Repubblica è finita nel 1993, con gli effetti di Tangentopoli, i referendum di Segni. Quanto alla Seconda Repubblica, la questione si fa più complessa. Non essendoci stato alcun cambiamento istituzionale, a parte la legge elettorale, di fatto è accaduto che il centrosinistra si è portato sulle spalle quello che restava della Prima Repubblica, alcuni uomini politici sopravvissuti e in generale l’eredità dell’establishment” (Marco Bellizi, L’Italia è a una svolta storica, ma il dialogo politico è lontano, “L’Osservatore Romano”, I maggio 2008).

Una rilettura di questa interpretazione arriva proprio dal principale protagonista della stagione di Tangentopoli. Alla luce degli scandali che hanno travolto il mondo politico italiano nel 2014, Antonio Di Pietro ha inquadrato così quel passaggio centrale nella storia repubblicana: "Nulla di nuovo sotto il sole. Ormai la storia è chiara: la prima repubblica non è mai finita e la seconda non esiste. Anzi, le attività parlamentari e di governo hanno solo aggravato il sistema della corruzione" (Di Pietro: un Daspo della politica per cacciare chi prende tangenti, “LiberoQuotidiano.it”, 9 maggio 2014). Secondo Di Pietro, fondatore ed ex presidente del partito Italia dei Valori, la soluzione definitiva per arrestare il declino e la corruzione politica può essere una sola: “Un daspo [NT: acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni sportive] della politica con cui allontanare per sempre chi si macchia dei reati di corruzione. Via i recidivi della mazzetta, anche per il sistema delle imprese, che devono avere dei vantaggi a essere oneste” (ibidem).

Lo stesso ex magistrato già qualche anno prima aveva denunciato l’inarrestabile declino del mondo politico italiano, nonostante Tangentopoli. Nel volume Intervista su Tangentopoli, uscito nel 2001, Di Pietro descrive così quanto accadde subito dopo la tempesta di “Mani pulite”: “Berlusconi – come Craxi – ha deciso di rilanciare, sostenendo la tesi che quella della magistratura era un’azione politica contro di lui e non l’esercizio obbligatorio dell’azione penale da parte di magistrati decisi a fare il proprio dovere. La sua è stata una vera campagna mediatica, condotta con grande dispendio di mezzi e di uomini che, forti delle televisioni e dei giornali di cui è proprietario, sono riusciti ad inculcare nell’opinione pubblica il tarlo del dubbio, trasformando nell’immaginario collettivo gli imputati in vittime e i giudici nei loro carnefici. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: s’è persa la memoria di ciò che è avvenuto negli anni della Prima Repubblica e addirittura c’è già chi dice che ‘si stava meglio quando si stava peggio’. Bella educazione per le future generazioni! E questo sarebbe lo statista che ci dovrebbe guidare alla Seconda Repubblica? Ma mi faccia il piacere!” (Antonio Di Pietro, Intervista su Tangentopoli, Laterza, 2001, p. 105).

Craxi e le promesse tradite

Archiviata la stagione di “Mani pulite”, il nuovo ciclo della politica italiana fu incarnato dai personaggi e dai partiti sorti dalle ceneri della vecchia classe dirigente.
Tra i protagonisti della nascente Seconda Repubblica spiccano lo stesso Silvio Berlusconi e Forza Italia, un partito che, nelle intenzioni del fondatore, doveva rappresentare “una forza politica fatta di uomini totalmente nuovi. Ciò che vogliamo offrire alla nazione è un programma di governo fatto solo di impegni concreti e comprensibili. Noi vogliamo rinnovare la società italiana, noi vogliamo dare sostegno e fiducia a chi crea occupazione e benessere, noi vogliamo accettare e vincere le grandi sfide produttive e tecnologiche dell’Europa e del mondo moderno. Noi vogliamo offrire spazio a chiunque ha voglia di fare e di costruire il proprio futuro, al Nord come al Sud vogliamo un governo e una maggioranza parlamentare che sappiano dare adeguata dignità al nucleo originario di ogni società, alla famiglia, che sappiano rispettare ogni fede e che suscitino ragionevoli speranze per chi è più debole, per chi cerca lavoro, per chi ha bisogno di cure, per chi, dopo una vita operosa, ha diritto di vivere in serenità” (Silvio Berlusconi, Discorso della “discesa in campo” (26 gennaio 1994), in Riccardo Gualdo, Maria Vittoria Dell’Anna, La faconda Repubblica: la lingua della politica in Italia (1992-2004), Manni, 2004, p. 76).

Dalle parole di Berlusconi traspare la volontà di riformare il sistema, nel segno di un rinnovamento che prende slancio proprio dalla discontinuità rispetto al precedente contesto politico: “La vecchia classe politica italiana è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal peso del debito pubblico e dal sistema di finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio a una nuova Repubblica. Mai come in questo momento l’Italia, che giustamente diffida di profeti e salvatori, ha bisogno di persone con la testa sulle spalle e di esperienza consolidata, creative ed innovative, capaci di darle una mano, di far funzionare lo Stato”.

Similmente, anche la Lega Nord si inserisce nel quadro della auspicata “discontinuità” tracciata rispetto alla partitocrazia tradizionale. Così Umberto Bossi all’indomani della vittoria alle elezioni del marzo 1994: "Mi pare che la Lega dopo aver travolto la prima repubblica, fin da ieri, abbia rivendicato il diritto di poter condurre la trattativa e di poter guidare l’avvento alla seconda repubblica" (Guido Passalacqua, Bossi tratta col Cavaliere, “La Repubblica”, 30 marzo 1994).

In quegli stessi giorni, e precisamente il 27 marzo del 1994, alla vigilia della consultazione elettorale che avrebbe totalmente stravolto il panorama politico italiano, il quotidiano “La Repubblica” titolava così in prima pagina: La Seconda Repubblica. Oggi e domani si vota. Nasce la nuova Italia.

Le vicende successive, che caratterizzeranno la storia politica del paese per circa un ventennio, per quanto segnate da una maggiore stabilità rispetto al biennio 1992-1994, hanno portato molti osservatori a mettere in dubbio l’effettivo “rinnovamento politico” italiano auspicato da Bossi e Berlusconi. Al contrario, molti tra i più autorevoli analisti e studiosi del settore hanno sottolineato la continuità della “nuova” stagione politica rispetto alla precedente, soffermandosi sul perdurare del declino dell’intero sistema.

Molto importante è in questo senso il lavoro di Andrea Spiri, lo storico che ha curato la raccolta degli scritti di Bettino Craxi nel libro Io parlo, e continuerò a parlare. Note e appunti sull’Italia vista da Hammamet (Mondadori, 2014). Nel volume, l’ex segretario del Partito Socialista Italiano, presidente del Consiglio dei Ministri dal 1983 al 1987, redige una cronaca molto dettagliata delle vicende di Tangentopoli, toccando questioni fondamentali del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica come la corruzione e il sistema di finanziamento dei partiti. Da qui, l’ex leader socialista dipinge un ritratto impietoso dei nuovi protagonisti dello scenario politico nazionale, dedicando ampio spazio a Bossi, Berlusconi, D’Alema, Prodi, Fini e Di Pietro.

Come spiega il professor Spiri in un’intervista concessa a “Panorama”: “Non ho trovato rancore in queste note. Era addolorato, sì, ma nei suoi scritti c’è solo una grande speranza. C’è più che altro sollecitazione verso la politica. Non si rallegra di essere stato un facile pronosticatore di disgrazie per l’Italia, ma se ne rattrista. Percepisce l’Italia in preda a disorientamento e sfiducia; richiede comunque che emerga la verità e che la si smetta di criminalizzare la Prima Repubblica" (Simona Santoni, Gli scritti di Bettino Craxi e l’Araba fenice della Seconda Repubblica, “Panorama”, 17 settembre 2014).

Nella raccolta di Spiri un passaggio centrale è costituito dal secondo capitolo, in cui Craxi si concentra sulla nascita della Seconda Repubblica. Essendo nata a suo parere dalla violenza e dalle menzogne di “Mani pulite”, secondo Craxi questa “nuova fase” avrebbe portato solo disgrazie per il futuro del paese: “La Seconda Repubblica in nome della quale parlano, alzando talvolta la voce, esponenti della classe politica che sono in gran parte figli e figliastri della Prima, in realtà non esiste. Non la si vede nelle istituzioni, nella forma dello Stato, nei metodi, che in alcuni casi si può dire si sono già mostrati ben peggiori dei precedenti. Il motto della Seconda Repubblica, allo stato delle cose almeno, corrisponde a nient’altro che ad una bandiera senza colori, agitata a fini di propaganda, con l’avallo di una informazione non obiettiva e non completa, in parte della quale è tornata a signoreggiare in lungo e in largo l’arma della censura” (Bettino Craxi, Io parlo, e continuerò a parlare. Note e appunti sull’Italia vista da Hammamet, Mondadori, 2014, p. 33).

Da questa analisi, viene fuori un quadro ben diverso rispetto a quanto auspicato già nel 1992 dal politologo Giovanni Sartori. Nel volume intitolato Seconda Repubblica? Sì, ma bene, Sartori prefigurava il superamento dei meccanismi perversi della partitocrazia, definita “piovra”, della burocrazia “parassitaria” e di istituzioni lente e inconcludenti. Sebbene Sartori rimarcasse l’opportunità di un passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, esso doveva essere effettuato in direzione di un sistema politico radicalmente nuovo. Altrimenti, come spiegava lo studioso, “Non faremo nulla di buono se non avremo idee chiare sul presidenzialismo, sui sistemi misti (in parte presidenziali e in parte parlamentari), sul cancellierato, e sui vari sistemi elettorali: sbarramento, premio di maggioranza, uninominale, doppio turno” (Giovanni Sartori, Seconda Repubblica? Sì, ma bene, Rizzoli, 1992, p. 3).

E se, come visto, le elezioni politiche del marzo 1994 segnano idealmente la nascita della Seconda Repubblica, dopo 20 anni esatti da più parti si è evidenziata la mancata realizzazione di quanto prefigurato da Sartori. Proprio nella primavera del 2014, infatti, in occasione della ricorrenza del ventennale, sono diversi gli studiosi che hanno tracciato un bilancio, rilevando nella maggior parte dei casi una sorta di continuità rispetto alla prima fase.

Tra i primi a proporre un bilancio sui 20 anni della Seconda Repubblica è stato Giovanni Iacomini, blogger e collaboratore de “Il Fatto Quotidiano”, esperto di politica e docente di Diritto ed Economia nel carcere di Rebibbia. Scrive infatti nel suo articolo Dalla "Prima" alla "Seconda" Repubblica: la continuità nel ventennio (“Il Fatto Quotidiano”, 14 marzo 2014): “È il momento della ricorrenza. [...] ancora oggi, dopo che i partiti di tutti gli orientamenti hanno cambiato decine di sigle e simboli, le categorie di democristiano, socialista, comunista, sopravvivono nella definizione di molti dei protagonisti della politica attuale: abbiamo un Presidente della Repubblica ex Pci, un Presidente del Consiglio ex Dc, un vice Ministro dell’Economia ex migliorista, craxiani ovunque. È una sorta di ibernazione che non ha pari al mondo: è come se la Francia fosse ancora presieduta da Mitterrand, nei paesi anglosassoni avessero ancora voce in capitolo Reagan e la Thatcher, in Germania Kohl. Tutti, vivi o morti, più o meno della stessa generazione di Napolitano. La storia di questi vent’anni è di un centrodestra e un centrosinistra che si sono alternati al governo, confrontandosi in una campagna elettorale continua scandita dai tempi stretti di scioglimenti anticipati delle Camere e frequenti elezioni intermedie”.

Forza Italia avrebbe catalizzato, secondo il parere di molti, l’interesse e il consenso da parte di coloro che confidavano in una inversione di tendenza rispetto al declino politico del paese. E anche in questo caso non mancano pareri autorevoli che evidenziano il fallimento del partito di Silvio Berlusconi. Secondo il sociologo Franco Cassano, professore ordinario di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi all’Università degli Studi di Bari, eletto deputato nel 2013 nelle file del Partito Democratico, Forza Italia “ama rappresentarsi come l’espressione più conseguente di una ‘svolta liberale’, del passaggio, sulla scia del crollo del comunismo e della fine della Prima Repubblica, dal primato della disciplina di partito al primato della libertà”, ma, al contrario, “La verità è che, con Berlusconi, dietro il marchio nobile di rivoluzione liberale, si è venuta affermando la pratica della dissoluzione molecolare dell’idea stessa di bene comune, disinvoltamente identificato con una forma di dispotismo giacobino. Quella di Berlusconi è quindi un’Italia estesa, che va dal piccolo imprenditore marginale, che cerca con ogni mezzo di allargare la forbice tra costi e ricavi, al professionista rampante, a quel popolo diffuso ed interclassista, che preferisce le soluzioni e le scorciatoie private, che ama una legalità ‘debole’, che spera nei condoni e premia con il proprio consenso elettorale chi li pratica e li moltiplica” (Franco Cassano, La politica dei cittadini, “MicroMega”, 2005, 2).

In tal senso, a dispetto dell’agognata “nuova politica”, secondo Cassano “È proprio questo ‘liberismo’ popolare, quest’insofferenza per le regole, che permette a Berlusconi di rappresentare il suo gigantesco conflitto d’interessi non come una questione privata e personale, ma come una battaglia di libertà contro l’invadenza dello statalismo”.
Il giudizio politico del sociologo sul berlusconismo e sulla sua capacità di traghettare il paese verso una fase nuova è impietoso: “L’Italia di Berlusconi, ha poco a che fare con il liberismo contemporaneo, perché è tutt’altro che favorevole alla libera concorrenza. È quell’Italia che a lungo aveva difeso la sua capacità competitiva attraverso la ripetuta svalutazione della lira e che oggi, quando l’euro rende impossibile il ricorso a questo strumento, non ha trovato di meglio che provare a sostituirlo, ispiratrice la Confindustria di D’Amato, con l’attacco all’articolo 18 e alle garanzie dei lavoratori. Non è un caso che solo la pressione della nuova Confindustria abbia costretto il governo a porsi, in modo tardivo, improvvisato e simulato, il problema della competitività del nostro paese, di come riavviare un sistema in declino nell’attuale congiuntura internazionale. Il governo Berlusconi combina dunque in modo perverso liberismo e protezionismo: i processi di privatizzazione da esso avviati non liberano soggetti nuovi, forti e competitivi sul piano internazionale, ma si limitano a svendere e lottizzare risorse pubbliche (scuola, sanità, ambiente), costruendo dall’alto una nuova borghesia su scala locale, per nulla esposta al mercato internazionale”.

Un giudizio sostanzialmente condiviso da Francesco Rutelli, ex vicepresidente del Consiglio dei Ministri nel governo guidato da Romano Prodi, già sindaco di Roma e ministro dei Beni Culturali. Nel volume Non è vero. Liberiamoci dagli inganni. Rimettiamo in ordine l’Italia (Rubbettino, 2011, pp. 17-18), Rutelli scrive: “Occorre guardare bene ai conflitti di interessi. In Italia questo problema era pressoché assente fino a vent’anni fa; quando la politica dettava, o era convinta di dettare, legge. La nascita della cosiddetta Seconda Repubblica ha mischiato le carte: la ricerca di leader forti ha spinto a cercare e premiare anche dei leader ricchi, uno in particolare. Di per sé, non sarebbe inaccettabile, se il nostro sistema fosse davvero liberale. Dal Novantaquattro a oggi, invece, si è stabilito un principio illiberale: siccome è il popolo che decide, e non istituzioni democratiche che fissano regole trasparenti e valide per tutti, anche l’evidenza marchiana del conflitto di interessi è sanata dalla volontà popolare. Chi ha votato Berlusconi cioè sapeva benissimo in che condizioni di conflitto di interesse si trovasse [...] ma la maggioranza di centrosinistra del 1996-2001 non ha provveduto a regolare la materia, per l’idea demenziale di alcuni, secondo cui sarebbe stato meglio avere un avversario-tycoon, indebolito dai conflitti di interesse; mentre quella di centrodestra ha obbedito alla richiesta di approvare una falsa legge per imbalsamare il problema senza risolverlo: ed ecco dove siamo finiti. Di recente, in effetti, il giudizio degli italiani è profondamente cambiato: il governo Berlusconi ha fallito. Più ancora che per la coltivazione di interessi particolari a scapito di quelli generali, per il tradimento proprio di quelle promesse, di libertà, benessere e crescita economica, che avevano fatto chiudere alla maggioranza degli italiani un occhio, anzi due, sul problema dei conflitti di interessi”.

Si tratterebbe, in sostanza, di un fallimento della Lega, di Berlusconi e dell’intero sistema politico uscito apparentemente rinnovato dopo il naufragio del 1992-1994, col proposito di far nascere la famosa “nuova Italia”. A gettare ombre ancora più dense sulla Seconda Repubblica è Nando Dalla Chiesa, scrittore, sociologo ed ex parlamentare, attualmente docente presso l’Università degli Studi di Milano. Nel volume La convergenza. Mafia e politica nella Seconda Repubblica (Maltempo, 2010), Dalla Chiesa passa in rassegna il percorso parallelo compiuto nella Seconda Repubblica da mafia e politica. Ricostruendo vent’anni di storia italiana, dal tramonto della Prima Repubblica al declino del berlusconismo, Dalla Chiesa analizza la convergenza tra mondo politico e criminalità organizzata, senza risparmiare nessuno: dalla sinistra, che avrebbe fatto leggi utili alla mafia, alla destra, colpevole di aver frantumato il senso dello Stato; dalla Lega Nord, nata per difendere l’identità “padana” e finita con il consegnare la Lombardia alla ‘ndrangheta; fino all’intera classe politica, colpevole di aver tradito le speranze di coloro che auspicavano un nuovo “risorgimento” del paese dopo il “terremoto” degli anni 1992-1994. Dal libro viene fuori l’immagine di una classe di governanti solo apparentemente rinnovata, del tutto inadeguata di fronte ai “nemici” della democrazia.

Sempre Dalla Chiesa, nell’articolo La vendetta dell’etica, (“Il Fatto Quotidiano”, 27 ottobre 2011), scriveva: “Eppure paghiamo oggi esattamente il saccheggio degli anni di Tangentopoli. I cui protagonisti, con le loro ruberie, fecero schizzare verso vette mai raggiunte (e a quanto pare irreversibili) i livelli del debito. Oggi, trent’anni dopo, quelle scelte sciagurate che ai protagonisti consentirono vite principesche ricadono su chi allora non era ancora nato. Sappiano i nostri figli chi ringraziare, con buona pace dei nostalgici della Prima Repubblica. [...] Le grandezze economiche che ci inchiodano e ci rendono inquieti sul nostro futuro sono insomma figlie legittime di un preciso sistema di regole morali. Di un modo di intendere compiti, ruoli e doveri quando si operi nelle e al servizio delle istituzioni. Di una specifica qualità della solidarietà sociale. Di un senso dello Stato infermo. E anche della distruzione del circolo virtuoso delle democrazie, quello che stringe insieme consenso, potere e responsabilità. Figlie della convivenza di un potere senza responsabilità (il capo del governo), di un potere senza consenso (i Lavitola ministri degli esteri o i Bisignani vicepresidenti del Consiglio), di un consenso senza potere (gli organi elettivi, al di là delle leggi elettorali). Abbiamo anche scoperto che l’etica privata ha un’autonomia del tutto relativa. Che i comportamenti privati di chi ha funzioni istituzionali tracimano a un certo punto, e necessariamente, nella sfera dei comportamenti degni di pubblico giudizio (altro che buco della serratura…). E concorrono a generare o distruggere fiducia. O pensiamo forse che i risolini imbarazzati di Sarkozy e della Merkel non esprimano una ‘sfiducia’ che in loro, come in tutta l’opinione pubblica internazionale, si è sedimentata anche in virtù di un giudizio (radicale) su conclamati comportamenti ‘privati’? [...] Perché l’etica si può umanamente trasgredire. Ma non la si può calpestare (Tangentopoli) e tanto meno rovesciare (Seconda Repubblica). Ci avevano detto che la legalità era bella ma impediva lo sviluppo. Ora impariamo che l’illegalità ci ha portato a un passo dall’abisso”.

“Fare per Fermare il declino”: cosa resta di quell’esperienza politica?

“La classe politica emersa dalla crisi del 1992-94, tranne poche eccezioni individuali, ha fallito: deve essere sostituita perché è parte e causa di quel declino sociale che vogliamo fermare. L’Italia può e vuole crescere nuovamente” (Fermare il declino e tornare a crescere: ecco l’appello per il partito che non c’è, “Libertiamo.it”, 28 luglio 2012): con queste parole il 28 luglio 2012 un gruppo di sette economisti e intellettuali, guidati dal giornalista Oscar Giannino, dava il via all’avventura politica del movimento “Fare per Fermare il Declino” (FiD). Formatosi intorno a un programma di riforme, il gruppo, secondo le intenzioni dei fondatori, nasceva proprio con l’obiettivo di arrestare l’irreversibile declino politico ed economico italiano, chiamando a raccolta gli elettori intorno a un progetto “che induca un rinnovamento nei contenuti, nelle persone e nel modo di fare politica” (ibidem).
La formazione politica non elesse nessun parlamentare, e si sciolse poco dopo le elezioni, anche a seguito dello scandalo dei finti titoli accademici di Giannino. Tuttavia, FiD ebbe il merito di evidenziare le problematiche di lungo periodo del sistema economico italiano e di come la politica abbia evitato di intraprendere riforme strutturali impopolari, ma necessarie per una solida ripresa economica. FiD aveva nel suo programma le privatizzazioni, la riduzione della spesa pubblica, della pressione fiscale e del debito pubblico. I fondatori del movimento – gli economisti Michele Boldrin e Sandro Brusco – concordano sul fatto che questi punti vengano ignorati nell’attuale dibattito politico: “La verità” – spiega Brusco – “è che in Italia non c’è mai stato un consenso di massa verso quelle posizioni, e le elezioni del 2013 hanno reso palese questo fatto, che forse avremmo potuto capire anche prima”. D’altronde, a prescindere dall’esperienza di Fare per Fermare il Declino, “se ci fosse una vasta area dell’opinione pubblica in favore di politiche per la riduzione della spesa pubblica e dell’aumento dell’efficienza qualcuno la occuperebbe”, e se nessun altro ha provato a proporre soluzioni genericamente definibili come liberal-democratiche, “questo qualcosa sull’elettorato lo dice” (Cesare Germogli, Fare per Fermare il Declino: cos’è rimasto di quelle idee?, “lindro.it”, 14 giugno 2017). “lo stesso si può rilevare analizzando la parabola politica di Renzi”, continua Brusco: “’si è passati dai temi della Leopolda del 2011, tra i quali la privatizzazione di massa, il taglio della pressione fiscale e della spesa pubblica, all’elargizione di mancette elettorali’. Evidentemente ci si è resi conto che certe parole d’ordine non funzionano in Italia se si vuole creare consenso di massa” (Ibidem). Le idee di FiD sono fallite, secondo Boldrin, per una fondamentale ragione: “nel dibattito politico attuale l’Italia di fatto si è assolta”, “mentre noi dicevamo che il problema prima di tutto è nostro, siamo noi” (Ibidem). All’opinione pubblica viene trasmesso il messaggio errato secondo cui l’Italia è vittima di un complotto internazionale che impedisce un aumento della spesa pubblica e un miglioramento del welfare. L’Unione Europea, secondo Boldrin, lascia larga autonomia agli Stati nell’ambito della politica economica, e l’attuale malfunzionamento del welfare dipende da uno squilibrio delle risorse pubbliche a favore dei più anziani (Ibidem). Un problema esclusivamente italiano, derivante da misure elettoralistiche del passato più o meno recente, quali le baby pensioni, bonus a pioggia, assunzioni nel settore pubblico non necessarie etc. Tutto ciò ha reso il debito pubblico italiano il terzo più alto al mondo, dopo Giappone e Grecia: “La sua presenza non sembra destare particolari preoccupazione nel Pd e neanche a dire il vero negli altri partiti. Il debito è una cosa in sé del tutto irrilevante per la politica. Peccato che su questo debito l'Italia paghi gli interessi ai suoi sottoscrittori e negli ultimi anni il nostro paese abbia goduto di un lunghissimo periodo di tassi bassi e un a generosa mano offerta dalla Banca centrale europea che ha acquistato finora oltre 264 miliardi di euro di nostri titoli di Stato. In condizioni favorevoli irripetibili l'Italia è riuscita lo stesso a far crescere il debito”. “Senza il paracadute della Bce sui titoli di Stato e con un rialzo in vista dei tassi di interesse cosa succede alla già fragile ripresa italiana?” (Mario Sechi, Terzo debito pubblico al mondo, “Italia Oggi”, 12 luglio 2017).

E’ davvero finita la Seconda Repubblica? Oppure siamo già nella Terza?

Secondo vari commentatori politici, gli avvenimenti che si sono susseguiti dal crollo del governo Berlusconi nel 2011 all’ascesa del governo Renzi nel 2014 avrebbero portato alla nascita della cosiddetta Terza Repubblica. La Terza Repubblica sarebbe stata caratterizzata dal declino del Berlusconismo e dall’affermazione di nuovi soggetti politici, come il PD rinnovato di Matteo Renzi e l’entrata in parlamento del M5S. Eugenio Scalfari, fondatore di “La Repubblica”, addirittura già nella nascita del governo Monti intravedeva l’inizio della Terza Repubblica, con la benedizione dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il governo Monti sarebbe stato, secondo Scalfari, “pronubo d'un rapporto nuovo tra i partiti e le istituzioni”, “Tante cose si dovranno ancora fare per dar corpo alla terza Repubblica: una legge elettorale che restituisca ai cittadini la sovranità effettiva che loro compete, la trasformazione del Senato in Camera di rappresentanza delle Regioni, lo sfoltimento del numero dei parlamentari, i consorzi tra piccoli Comuni, lo snellimento degli ospedali e dei tribunali e tante altre cose ancora. La normalità intesa come ordinaria amministrazione è ancora molto lontana. C'è da ricostruire uno Stato, per di più federale, improntato a criteri di efficienza, modernità e solidarietà sociale e territoriale molto più di quanto non lo sia lo Stato centralista” (Eugenio Scalfari, La Terza Repubblica nel segno di Napolitano, “La Repubblica”, 4 dicembre 2011). La caduta del governo Berlusconi e la crisi della Lega Nord, a seguito degli scandali sui finanziamenti illeciti, hanno fatto pensare ad una fine del centrodestra, così come l’abbiamo conosciuto durante la seconda Repubblica. Nel 2012 il sociologo Ilvo Diamanti scrisse su “La Repubblica” che, benché la Terza Repubblica a suo avviso non fosse ancora cominciata, sicuramente la Seconda era stata superata da tempo. In quel periodo erano entrati in crisi i principali attori politici della Seconda Repubblica, ovvero il PDL (ora divenuto Forza Italia) e la Lega Nord, insieme ai “temi che l’hanno generata”. Si indebolirono le “fratture che l’hanno generata. Per prima, quella territoriale. Che oppone la periferia al centro, il Nord produttivo alla Capitale dell’Italia assistita e sprecona. Milano e il Nordest a Roma. Oggi quella Repubblica è cambiata profondamente. La questione settentrionale è scivolata in penombra. Insieme al federalismo e all’allargamento dei poteri locali. Mentre è ri-emersa, prepotente, la frattura vecchio/nuovo. Che incrocia quella fra politica (partiti)/società (civile). All’origine della Seconda Repubblica. Oggi quella frattura ritorna” (Ilvo Diamanti, Addio Seconda Repubblica, ma la Terza ancora non c’è, “La Repubblica”, 22 ottobre 2012).
A distanza di vari anni da quest’analisi, si osserva come le carte si siano nuovamente rimescolate e le fratture tradizionali, che hanno generato la seconda Repubblica, siano prepotentemente riemerse nel dibattito pubblico. Dopo il fallimento del cosiddetto patto del Nazareno e il totale distacco dall’azione governativa di Renzi, Berlusconi ha riacquisito la piena leadership di Forza Italia, mentre la Lega è tornata tra i protagonisti della scena politica. La rottura del leader della Lega Matteo Salvini rispetto alle tematiche tradizionali del partito non ha impedito un ottimo risultato del Referendum per l’Autonomia della Lombardia e del Veneto, svoltosi il 22 ottobre 2017. Salvini, infatti, intende allargare il proprio bacino elettorale al Centro e al Sud Italia, abbandonando la retorica “nordista” e avvicinandosi sempre più a idee nazionaliste ed euroscettiche, simili a quelle promosse da Marine Le Pen in Francia o da Geert Wilders in Olanda, arrivando al punto di rimuovere la parola “Nord” dal nome del partito. Questo nuovo orientamento politico ha suscitato non pochi malumori nei vertici del partito: dal fondatore Umberto Bossi all’ex sindaco di Verona Flavio Tosi (poi uscito dalla Lega) a Roberto Maroni. Molti accusano Salvini di estremismo e autoritarismo. Tuttavia, proprio sotto la sua leadership la Lega ha recuperato consensi e in tutti i sondaggi viene stimata tra il 10 e il 15%. Un record assoluto rispetto alla Lega di Bossi, che ottenne come massimo risultato l’8% nelle elezioni politiche del 2008. Finché Salvini sarà in grado di far convivere in uno stesso partito la “vecchia” e la “nuova” Lega, potrà continuare a essere un politico di primo piano. A Forza Italia e alla Lega, si aggiunge la terza forza politica del centrodestra: Fratelli d’Italia (FdI). Dopo lo scioglimento di Alleanza Nazionale (AN) dentro il PDL di Silvio Berlusconi, e la successiva uscita di scena dello storico leader Gianfranco Fini, la componente identitaria e nazionale della destra italiana si è ricompattata attorno alla guida di Giorgia Meloni. Forza Italia, Lega e FDI rappresentano la riedizione della coalizione di centrodestra che governò durante la Seconda Repubblica, con il nome di Berlusconi ancora ben presente sulla scena politica.
Nello schieramento opposto, il PD sta archiviando sempre più la fase di “rottamazione” di Matteo Renzi, che avrebbe dovuto delineare una Terza Repubblica, costituita dalla fine del berlusconismo e da nuove riforme istituzionali ed elettorali. La bocciatura del Referendum costituzionale, la nascita del governo di un veterano della politica come Gentiloni, la scissione di una parte del PD che ha condotto alla formazione di Liberi e Uguali: tutti indizi che sembrano indicare un ritorno alla Seconda Repubblica, con elementi di instabilità politica simile alla Prima Repubblica. Anche il costituzionalista Michele Ainis si è chiesto in che “Repubblica” ci troviamo esattamente: “È il secondo tempo della Seconda Repubblica, quella battezzata all'alba degli anni Novanta? È il profilo incerto della Terza? O è forse l'eterno ritorno della Prima, come parrebbero attestare le faglie che dividono in partiti e partitini il Parlamento”?. “Noi abbiamo escogitato un sistema più tortuoso, più intricato: ci sbarazziamo delle nostre vecchie repubbliche senza troni né assemblee costituenti, mettendo in fila le diverse Costituzioni ‘materiali’ che s'avvicendano a dettare le regole del gioco. Siccome però la Costituzione materiale è un fantasma che non si può toccare, leggere, emendare, ciascuno conta a modo suo, e in ultimo finiamo un po' tutti a dare i numeri, senza strumenti per comprendere la realtà politica e civile” (Michele Ainis, Terza Repubblica cercasi, “La Repubblica”, 24 luglio 2017). Ainis, infine, trova un elemento fondamentale che caratterizza la “Terza Repubblica” in corso, che non era mai emerso prima: la sfiducia generalizzata verso la politica. In questo si distingue dalla Prima Repubblica, caratterizzata dal ruolo preponderante dei partiti, e della Seconda, costituita dalla fiducia verso il leader e dunque da un presidenzialismo di fatto. Ora invece “abbiamo i partiti in gran dispetto, ma non ci innamoriamo più di nessun leader, o se succede dura lo spazio d'una notte, com'è accaduto con Virginia Raggi a Roma. Perché questo è il tempo del disincanto, del ritiro della delega. Ne è prova la volubilità del corpo elettorale, ne è prova l'astensionismo che monta come un fiume in piena. Però dietro questo sentimento negativo c'è un'energia che reclama istituzioni in grado di raccoglierla, d'incanalarla. C'è una domanda di democrazia diretta, un desiderio di decidere senza filtri, senza investiture. È in crisi la delega, non la politica. Ma nella Terza Repubblica quest'ultima spetta ai cittadini” (Ibidem).
Un altro fattore determinante che definisce l’esistenza della Terza Repubblica è l’ascesa del Movimento 5 Stelle. Il deputato del Movimento 5 Stelle, Riccardo Fraccaro, ritiene che l’inizio della Terza Repubblica coincida proprio con l’ingresso del Movimento nel Parlamento italiano nel 2013, poiché per la prima volta gli schieramenti politici tradizionali non rappresentano più la maggioranza degli elettori (Riccardo Fraccaro, Ecco come è nata la terza Repubblica, “Il Tempo”, 2 giugno 2016). La mobilitazione dal basso, la democrazia diretta attraverso le votazioni online, il superamento dell’asse destra-sinistra: il Movimento 5 Stelle, capace di incanalare il vento dell’antipolitica e la disaffezione degli elettori, è stato la vera novità di questa stagione politica che può definirsi “Terza Repubblica”, nonostante vari elementi appaiano simili alla Seconda. Una cosa è certa: la Terza Repubblica non coincide con la risoluzione dei problemi atavici del nostro paese, anzi, questi ultimi rischiano di aggravarsi ancor di più nei prossimi anni.

L’Italia sarà ancora più in crisi, ecco perché

Secondo l’OCSE, nel 2018 l’Italia crescerà solo dello 0,8%, meno di tutti i maggiori paesi. Le regole UE imporranno all’Italia una correzione dei conti pubblici. L'assunto è che la correzione implica un mix di aumento delle tasse sui consumi e di tagli alla spesa: “Per l'Ocse, l'Italia dovrebbe dare priorità ‘agli investimenti pubblici in infrastrutture, a programmi di ricerca e alla lotta alla povertà e al proseguimento delle riforme strutturali’ che accelererebbero la ripresa e alzerebbero l'output potenziale, oltre a rendere la crescita più inclusiva e a ridurre il rapporto Debito/Pil, che intanto si è ‘stabilizzato’, ma resta il primo dei problemi” (Il 2018 sarà peggiore del 2017. Per l'Ocse Italia maglia nera, la manovra frenerà la crescita, “Huffington Post”, 7 giugno 2017).
L’incertezza dell’esito elettorale, i crediti deteriorati delle banche, l’alta evasione fiscale, la discrepanza tra competenze acquisite e mercato del lavoro sono solo alcuni dei fattori interni che potrebbero bloccare la crescita dell’Italia nel 2018. A questi si aggiungono i fattori esterni, come la globalizzazione, della quale l’Italia non è riuscita a beneficiare: “L'Italia ha una bassa integrazione delle ‘global value chain’, cioè nell'economia globale, in parte perché molte aziende sono piccole e hanno una bassa produttività” (Ibidem).
“Quasi tutti, nel ventennio seguito alla caduta del muro di Berlino, erano convinti del carattere benefico della globalizzazione; oggi quella convinzione ha lasciato il posto a scetticismo, paura, disillusione”, afferma il sociologo Luca Ricolfi, intervistato da “Quotidiano.net” (Giorgio Caccamo, Un errore la globalizzazione sfrenata. Ricolfi: "L’Italia in declino da anni", “Quotidiano.net”, 29 aprile 2017). Questo è avvenuto ancor più in Italia che in altri paesi: “siamo all’ultimo posto in Europa in termini di crescita del Pil, la produttività del lavoro è ferma da vent’anni, il tasso di occupazione è fra i più bassi d’Europa (solo Grecia e Turchia stanno peggio di noi)” (ibidem).

“L’Italia risorgerà”

Corruzione, debito pubblico alle stelle, instabilità politica e disaffezione dei cittadini verso le istituzioni: è questa l’eredità lasciata dal sistema politico che per oltre quarant’anni ha retto le sorti del paese. Un de profundis della “Prima Repubblica” che trova nelle parole pronunciate il 31 dicembre 1992 dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro una attestazione che è anche, al tempo stesso, un momento di rinascita: “L’Italia libera e democratica deve vivere nella pienezza dei valori umani, deve risorgere con l’apporto di tutti e di ciascuno. [...] E noi, popolo italiano, questa possibilità, questa capacità di risurrezione l’abbiamo con assoluta certezza” (Messaggio di fine anno agli Italiani del presidente della Repubblica, 31 dicembre 1992, “Quirinale.it”, consultato in data 28 aprile 2015).

 Scalfaro individuava proprio nella politica la base da cui ripartire per riaffermare i valori della libertà e della democrazia: “È mai pensabile che tutti coloro che per questa libertà, per questa democrazia hanno lottato, hanno pagato, hanno sofferto, che chi ne ha raccolto l’eredità, chi comunque sente amore per questa Patria libera, anche nelle diverse responsabilità, nelle diverse posizioni politiche, non trovino, non sappiano trovare il comune denominatore di unione, per difendere ed aiutare a nuova vita quelle radici (articolo 2 della Costituzione) degli ‘inviolabili diritti dell’uomo’?” (ibidem).

Secondo l’ex presidente della Repubblica, “Per risorgere occorre anzitutto avere il coraggio della verità”, nella piena consapevolezza che “I mali ci sono, e come, e quanti! Il male della immoralità politica, amministrativa, tocca i responsabili, ma non tocca, non può toccare le istituzioni. Le istituzioni sono vittima di questi atteggiamenti, non sono coloro che hanno compiuto questi fatti; le istituzioni hanno la forza della Costituzione e della volontà popolare. E il giudizio politico è ben distinto, in un paese, in uno Stato di diritto, dal giudizio penale” (ibidem).
Da qui, l’appello a superare divisioni, con parole che incarnano lo spirito di un paese sospeso tra declino e voglia di rinascere: “Per chi crede, di qualunque credo, per chi crede anche soltanto in questo affascinante denominatore comune umano, la speranza non si deve spegnere mai!” (ibidem)

La politica “chiama” il cambiamento

Le parole di Oscar Luigi Scalfaro aprono le porte ad anni caratterizzati da straordinarie trasformazioni, che trovarono proprio nella politica lo specchio fedele della volontà di cambiamento e rinascita. Dall’ascesa di Silvio Berlusconi agli stravolgimenti in corso nei partiti di centro-sinistra, per circa un ventennio il sistema politico italiano sarà contrassegnato da divisioni e fratture apparentemente insanabili.

Ma in tutti questi anni è proprio la politica a farsi interprete della volontà e della necessità di un cambiamento, utile a invertire la rotta rispetto a quel declino inarrestabile paventato da Oscar Luigi Scalfaro. Si tratta di una prospettiva aperta al cambiamento ma con frequenti richiami alle radici, che trova un significativo interprete in Luca Tentoni, analista ed editorialista politico per l’Agenzia Giornali Associati. In L’Italia di Weimar. Dall’anno di Monti alla “grande riforma” (Youcanprint, 2014, pp. 157-158), in occasione di un intervento per commemorare lo statista Alcide De Gasperi, il 18 agosto 2012 l’autore scriveva: “Ci sono due modi di commemorare Alcide De Gasperi. Il primo è di appropriarsene per scopi politici. Il secondo è riscoprire, alla luce della gravissima crisi di credibilità, di idee, di personalità e di consenso che sta vivendo la classe politica italiana, la lezione di uno dei pochissimi statisti della nostra storia. Insieme a Einaudi e ad altri padri della Repubblica risollevò l’Italia dalla devastazione della guerra e pose le basi perché il Paese non avesse soltanto un futuro di crescita economica e progresso civile, ma recuperasse anche un ruolo nel mondo, con le grandi scelte di politica europea e occidentale. [...] Ecco perché resta, a 58 anni dalla morte, un punto di riferimento. [...] Intanto, il problema per il Paese è avere il coraggio e la forza di ‘seminare il degasperismo’, facendo convergere i politici delle più diverse aree sulla linea tracciata dallo statista trentino: la politica deve guardare al futuro, non solo alle urgenze e alle convenienze del momento”.

Una prospettiva ben sintetizzata nella Prefazione allo stesso volume da Stefano Folli, giornalista ed ex direttore del “Corriere della Sera” e de “Il Sole 24 Ore”: “L’Italia di oggi sembra sospesa tra un destino alla Weimar (la Repubblica tedesca crollata all’inizio degli anni Trenta, schiacciata dall’avvento di Hitler) e la prospettiva di un reale rinnovamento delle istituzioni che sarebbe il cemento di un nuovo ‘patto sociale’. [...] E allora ben vengano le notizie positive e i segnali di progresso [...]” (L’Italia di Weimar, cit., p. 4).

La Terza Repubblica può aspettare

Negli anni che segnano il tramonto del berlusconismo e l’avvento dei governi tecnici e di coalizione, a partire dal 2011 si è fatta sempre più strada nell’immaginario collettivo l’idea di nuovo assetto politico, incarnato dalla cosiddetta “Terza Repubblica”, capace di assestare le fondamenta del paese, nell’ottica della conciliazione e del superamento delle fratture. In particolare, con la caduta del governo guidato da Silvio Berlusconi, nel novembre del 2011, e l’ascesa del nuovo esecutivo che vedeva al timone l’economista Mario Monti, sono in molti ad aver individuato proprio in questo avvicendamento l’avvento della Terza Repubblica, auspicando l’apertura di una nuova fase per il paese. Dopo la fine dell’esecutivo tecnico, la rapida ascesa al potere di Matteo Renzi alla guida del paese, dopo una breve parentesi di governo di Enrico Letta, aveva fatto sperare nella nascita della “Terza Repubblica". Nel febbraio del 2013 Marcello Sorgi, ex direttore del “Tg1” e del quotidiano “La Stampa”, nell’editoriale Verso la Terza Repubblica (“La Stampa”, 12 febbraio 2014), descriveva l’imminente passaggio di consegne tra l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta e Matteo Renzi, individuando proprio nell’ex sindaco di Firenze l’interprete decisivo del “salto” verso la Terza Repubblica. La cosiddetta “rottamazione” di una parte della vecchia classe dirigente del PD, la fine dell’antiberlusconismo muscolare e l’incontro di Renzi con Berlusconi al largo del Nazareno per stilare nuove riforme bipartisan sembravano preludere una nuova fase politica di rinnovamento. Ma la rottura del cosiddetto “Patto del Nazareno”, che comprendeva l’accordo sia sulla legge elettorale sia sulla riforma della Costituzione, avvenne in seguito all’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Da quel momento, Forza Italia si schierò saldamente all’opposizione del governo Renzi. L’iter parlamentare delle riforme procedette ugualmente, ma la legge costituzionale ottenne una maggioranza inferiore ai due terzi dei parlamentari di ciascuna Camera e, come sancito dall’articolo 138 della Costituzione, si dovette ricorrere al Referendum costituzionale. Gli scrutini si svolsero domenica 4 dicembre 2016 ed ebbero come esito la bocciatura della riforma con il 59,12% di voti contrari. In seguito, Renzi rassegnò le proprie dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica Mattarella, che nominò come suo successore Paolo Gentiloni, in precedenza ministro degli Esteri. Nato come governo di basso profilo, Gentiloni ha agito in continuità con le politiche del precedente esecutivo ma sapendo interpretare il nuovo “Zeitgeist”, come sostiene il direttore de “Il Foglio”, Claudio Cerasa: “Dopo la disputa del referendum costituzionale l’Italia si è svegliata in parte molto divisa e in parte molto rassegnata, e si è ritrovata di fronte a un messaggio che era impossibile non recepire: nella nostra democrazia il vero valore non negoziabile non è la governabilità ma è la rappresentatività; e partendo da questo presupposto l’Italia di oggi non poteva che essere guidata da un campione della mediazione e non della rottamazione. Da questo punto di vista, Gentiloni è semplicemente perfetto. Non divide. Non attacca. Non spaventa. Non minaccia. Non rompe. Piuttosto, media. Piuttosto, ricompone. Piuttosto, rassicura. Piuttosto, arretra […] Lo zeitgeist di oggi è la mediazione, non la rottamazione, vale per il governo, vale per la presidenza della Repubblica, vale per la direzione di alcuni giornali, vale per la direzione della Rai, e se questo è lo spirito del tempo Gentiloni lo rappresenta alla grande” (Claudio Cerasa, Il parto Gentiloni. Che creatura politica è nata in Italia dopo il 4 dicembre, “Il Foglio”, 31 luglio 2017).
Le elezioni politiche del 2018 difficilmente potranno sancire l’inizio di una Terza Repubblica, come si è ipotizzato negli anni precedenti. In primo luogo, dopo la caduta del governo Renzi, sono ritornati in prima linea sia Berlusconi, riacquisendo una piena leadership del centrodestra, sia vari esponenti politici del centrosinistra precedentemente “rottamati” da Renzi stesso, quali Pierluigi Bersani e Massimo d’Alema, confluiti nel nuovo partito LeU (Liberi e Uguali).
In secondo luogo, si prevede nuovamente, come accaduto nel 2013, l’affermazione del tripolarismo centrodestra-centrosinistra-Movimento 5 Stelle. Nessuna delle tre aree politiche plausibilmente disporrà di una maggioranza parlamentare, aprendo la strada a un governo di larghe intese oppure a un ritorno alle urne.

Crescita economica e instabilità politica: un binomio possibile

Eppure, esistono alcuni casi di paesi in paralisi politica, la cui economia ha registrato segnali positivi. La Spagna rappresenta l’esempio più calzante: i cittadini iberici, giacché nessun partito raggiunse la maggioranza assoluta, dovettero votare due volte in due anni per superare lo stallo politico, rimanendo senza un governo nel pieno delle sue funzioni dal dicembre 2015 all’ottobre 2016. In questo periodo in Spagna il PIL crebbe del 3,2%, consolidando la ripresa già avviata nel 2014 e 2015. Secondo Jean Tugores, professore di Economia presso l’Università di Barcellona, quello spagnolo non è stato un caso eccezionale. In Spagna è rimasto in carica il premier Rajoy per la gestione dell’ordinaria amministrazione. Inoltre, secondo Tugores, “spesso gli interventi pubblici aumentano le distorsioni ed il malfunzionamento dell’economia; quando la politica non incide per un determinato periodo (anche nel caso dell’assenza di un governo) l’andamento dell’economia non ne risente" (Mario Magarò, Paradosso Spagna: senza governo da dieci mesi l'economia decolla, “L’Espresso”, 18 ottobre 2016).
Il caso più recente è l’Olanda: ci sono voluti sei mesi, da marzo a ottobre 2017, per la formazione del nuovo governo. Nonostante ciò, si stima per l’economia olandese una crescita del 3,3% nel 2017 e del 2,5% nel 2018: “L’Olanda dunque archivia i timori legati alle ripercussioni commerciali di Brexit e le incertezze politiche sulla possibile avanzata populista in Europa - che ne hanno a malapena scalfito l’economia, cresciuta dell’1,5% congiunturale nel secondo trimestre - e si proietta verso la migliore performance dell’ultimo decennio: una crescita superiore a quella stimata per Germania, Spagna, Francia e Italia” (Michele Pignatelli, Nell’Olanda senza governo record di crescita dal 2007, “Il Sole 24 Ore”, 20 settembre 2017).
Tuttavia, il record mondiale per una democrazia di assenza di governo è detenuto dal Belgio: “Dopo le elezioni di giugno 2010 il Belgio è stato senza governo per ben 535 giorni […] Ma sotto il vecchio governo, in carica per gli affari correnti, il Paese ha approvato una finanziaria, nazionalizzato la principale banca, condotto con successo il semestre di presidenza della Ue, partecipato alle operazioni militari in Libia. Oltre a migliorare quasi tutti gli indicatori economici, dal debito al pil” (Il caso del Belgio, 535 giorni 'felici' senza governo, “ANSA”, 26 febbraio 2013).
Questo lascia ben sperare anche per l’Italia, in caso di impasse nella formazione di un governo. Non bisogna inoltre dimenticare che, benché l’Italia non abbia mai sperimentato un’assenza di governo così a lungo, ha visto succedersi ben 64 governi nella propria storia repubblicana fino al 2017. Nella cosiddetta prima Repubblica, i continui avvicendamenti alla presidenza del Consiglio (molto più frequenti rispetto alla seconda Repubblica) non hanno impedito il miracolo economico italiano. Sia in caso di stallo politico, sia in caso di formazione di un governo di larghe intese, l’Italia può risalire la china e consolidare la crescita economica già in atto.

“Italia allo sfascio”: una fake news

“Se ci si pensa bene alla fine la sfida è tutta qui: o la rabbia o l’orgoglio. Nei prossimi mesi, i partiti che si candidano a governare il paese si ritroveranno a confrontarsi e a scannarsi su molti temi più o meno appassionanti […] ma tra i tanti argomenti che finiranno al centro della campagna elettorale ce n’è uno che costituisce il vero spartiacque tra le due Italie invisibili che si andranno a confrontare da qui”, ovvero quella che punta sulla retorica dello sfascio (quella della rabbia) e quella che vede al futuro (quella dell’orgoglio) (Claudio Cerasa, Come evitare una campagna combattuta sulla fake news dell’Italia allo sfascio, “Il Foglio”, 15 dicembre 2017). “L’Italia della rabbia abbraccia un pezzo di paese trasversale che mette insieme l’odio grillino, la brutalità leghista e il risentimento Dalemiano e seppure queste realtà abbiano tra loro sfumature diverse […] al centro dell’Italia della rabbia c’è un metodo unitario che costituisce il vero motore di questo particolare approccio politico: l’idea che l’Italia sia in mano a una banda di ladroni, di incompetenti, di truffatori, di corruttori e forse persino di potenziali molestatori e che l’unico modo per riportare il nostro paese a un’età dell’oro sia, semplicemente, sostituire questa classe dirigente con un’altra classe dirigente […]. L’Italia dell’orgoglio […] è un’Italia che non si vede e che ancora fatica a trovare i nomi giusti e i volti giusti (dicasi classe dirigente) che le permettano di incarnare un sentimento che oggi è più che maggioritario: la fake news che descrive l’Italia come un paese povero, disperato, distrutto, da buttare via. Fake news perché […] nel 2017 l’Italia registrerà il suo migliore anno di crescita dal 2006, un miglioramento della produzione industriale, dei consumi privati, degli investimenti in costruzioni, macchinari e mezzi di trasporto e ovviamente delle esportazioni” (Ibidem). Quindi, è necessario, secondo Claudio Cerasa, “ribellarsi al mercato del malumore”. Esso è “uno dei settori più importanti dell’industria culturale italiana e chiunque lavori nel mondo dell’editoria o nel mondo della televisione o nel mondo della politica sa bene che una cattiva notizia trova spazio sulle prime pagine dei giornali con più facilità rispetto a una buona notizia” (Claudio Cerasa, Ribellarsi al mercato del malumore, “Il Foglio”, 29 marzo 2017).
La crescita del PIL, l’aumento delle immatricolazioni di auto, del mercato immobiliare, dell’export sono tutte buone notizie che dimostrano come l’economia italiana stia sulla buona strada. Anche “gli investitori stranieri (chiedere a Pimco e Goldman Sachs che potrebbero spostare presto alcune delle sedi da Londra a Milano) considerano ormai il nostro paese all’altezza dei grandi d’Europa, sia per quanto riguarda il nuovo regime fiscale per le persone fisiche che trasferiscono la residenza in Italia sia per quanto riguarda il mercato del lavoro (Italia batte Francia 6-0) sia per quanto riguarda la tassazione alle imprese” (Ibidem).
Come ha scritto su “Les Echos” “il corrispondente italiano Olivier Tosseri, “l’Italia sarà anche il malato d’Europa ma lo è rispetto a un’Europa che corre come non mai. E lo è in un contesto non da Repubblica di Weimar ma in cui, scrive Les Echos, ‘il tasso di disoccupazione si è stabilizzato, le famiglie riprendono a consumare e le finanze pubbliche sono leggermente migliorate’ – e in cui, aggiungiamo noi, nel 2016 il risparmio medio degli italiani (67 mila euro pro capite) ha raggiunto il livello più alto del mondo (del mondo) superando quota 4 mila miliardi di euro. L’Italia può funzionare meglio, ovviamente, ma per farla funzionare peggio la strada migliore è fare quello che in molti si ostinano a fare oggi: imporre un grande palinsesto del malumore, confondere le priorità del paese e portare la politica a scendere sullo stesso terreno dei professionisti dello sfascio, rinunciando così a far giocare gli sfascisti sull’unico terreno sul quale non toccherebbero palla: non il terreno dell’ottimismo, ma semplicemente quello del realismo” (Claudio Cerasa, Ribellarsi al mercato del malumore, “Il Foglio”, 29 marzo 2017).
Il commissario agli Affari Economici dell’Unione Europea, Pierre Moscovici, afferma che l’Italia, benché sia il paese che cresce meno in Europa, stia vivendo una vera ripresa, anche perché sono molti anni che non viene registrata una crescita dell’1,5% (Flavio Bini, La Ue conferma il balzo della crescita ma resta ultima in classifica, “La Repubblica”, 9 novembre 2017). “L'agenzia di rating Standard&Poor's ha detto di vedere ‘positivi segnali di ripresa’ e pure Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, parlando il 6 novembre di fronte alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, ha mostrato un deciso ottimismo: ‘l'indicatore anticipatore dell'andamento dell'economia registra una variazione marcatamente positiva’, ha detto Alleva, prospettando un altro trimestre di crescita decisa per il Pil dell’Italia” (Andrea Telara, Pil, perché in Italia la crescita accelera, “Panorama”, 28 novembre 2017). Cosa si intende con indicatore anticipatore? Il giornalista Andrea Telara lo spiega così: “un valore statistico che consente di fare previsioni sul breve termine, sulla base della fiducia dei consumatori, degli ordini e delle previsioni di spesa nell’industria e dei trend seguiti dai prezzi.
Quando l’indicatore anticipatore è in crescita ed è sopra lo zero, è molto probabile che il pil acceleri nei mesi successivi. Oggi questo parametro si trova attorno a 0,5, contro lo 0,2 di metà 2016 e il -0,1 del 2013, quando l’Italia era ancora in recessione” (Ibidem). 

Di fatto, parlare di ripresa economica non conviene a molte forze politiche: “Non alle opposizioni, dalla Lega Nord ai Cinque Stelle, che hanno costruito la loro narrazione sul declino strutturale del Paese, sull’Europa come causa di ogni male e, in particolare, sul fallimento totale delle politiche di rilancio economico del governo Renzi. E nemmeno a Renzi e al Pd, in fondo, che avevano preconizzato - per interposto Centro studi di Confindustria - un futuro lacrime e sangue in caso di sconfitta al referendum del 4 dicembre. E a cui certo non conviene raccontare troppo ad alta voce che l’Italia si stia riprendendo, nonostante la palude istituzionale in cui si è cacciata” (Francesco Cancellato, Ops, l’Italia sta crescendo davvero (e la politica è rimasta fregata), “Linkiesta”, 3 luglio 2017). Le stime sulla crescita sono riviste al rialzo, a differenza di quanto previsto dalla Commissione Europea in tutti gli anni precedenti.

Come consolidare la ripresa

In un articolo su “Il Foglio”, il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda bolla il dibattito tra “declinisti” e “trionfalisti” come inutile, volto a strumentalizzare “ogni nuovo dato su occupazione, crescita, produzione industriale, e via andando. La realtà è che ormai le medie nazionali sono poco rilevanti. Sta riemergendo una ‘questione settentrionale’, per ora solo economica e sociale, che rischia però di ritrovare in autunno una dimensione politica. Il paese ha solo parzialmente ‘cambiato verso’, e permangono molte fragilità e anomalie che frenano lo sviluppo. Ammetterlo non vuol dire sminuire il lavoro fatto, ma al contrario renderlo più credibile e porre le basi per poterlo proseguire e rafforzare, cogliendo l’obiettivo di riagganciare definitivamente l’Italia agli altri grandi paesi europei” (Carlo Calenda, L'unica nostra alternativa è crescere, “Il Foglio”, 15 luglio 2017).
“Il nostro obiettivo paese deve essere dunque quello di rimanere saldamente dentro la cabina di regia europea portando l’Italia a catturare definitivamente la domanda internazionale di beni, servizi, turismo e cultura. Aumentare il rapporto tra esportazioni e PIL di 20 punti percentuali, come fatto dalla Germania grazie soprattutto alle riforme dell’èra Schröder, implica concentrare ogni euro disponibile su imprese, lavoro e competitività del paese. Importare i tassi di crescita del mondo in un’economia matura con una demografia piatta è una missione congeniale all’Italia, come dimostrano gli ultimi dati sull’export. Dobbiamo sostenere e accelerare questa transizione verso un ‘modello tedesco’. Il ‘come’ è piuttosto intuitivo e va nella direzione di alcune delle cose fatte negli ultimi quattro anni: sostegno fiscale agli investimenti privati, all’innovazione e all’internazionalizzazione, ampliando il piano industria 4.0 e quello sul Made in Italy, un taglio deciso del cuneo fiscale e contributivo a partire dai giovani, un investimento serio sulla formazione professionale e sulle altre politiche attive, il definitivo superamento di un modello contrattuale vecchio che raramente tiene conto di produttività, welfare aziendale e formazione. Un esempio da estendere può essere quello del contratto dei metalmeccanici. Politiche settoriali dotate di adeguate risorse sono poi necessarie sull’energia, sulle life sciences e sul turismo” (Ibidem).

Calenda sostiene che questi provvedimenti complessi, in un’ottica di lungo periodo, possano essere pienamente compresi dagli Italiani per “rispondere alle sfide geopolitiche e tecnologiche” in corso. Secondo Calenda, “le politiche ‘prendi i voti e scappa’ non sortiscono più alcun effetto elettorale. La maggior parte degli italiani sa che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi. La crisi ci ha colpito più degli altri paesi europei proprio perché negli anni precedenti si è cercato di vendere ricette estemporanee, mentre leadership, leggi elettorali, e alchimie partitiche occupavano tutto il dibattito pubblico” (Ibidem).

I meriti del Partito Democratico (e degli altri)

Matteo Renzi alla conferenza programmatica nazionale di Pietrarsa del PD, rivendica con orgoglio i meriti del centrosinistra: “Se questo paese è ripartito, non è ripartito per caso. Nel 2014 c’è chi voleva portare l’Italia fuori dall’euro e chi, invece, questo Paese lo ha portato fuori dalla crisi, e ha un nome e cognome: Partito Democratico, non altri”. “Dirselo – spiega il segretario – non è arroganza: è consapevolezza di quello che abbiamo fatto e progetto per quello che dobbiamo fare. E a quelli che tutti i giorni hanno da lamentarsi di quello che ha fatto il Partito Democratico, io dico ‘sì, cambiamo ciò che va cambiato, ma partiamo dall’orgoglio di ciò che siamo’, perché se non ci rendessimo conto di come eravamo e di come stiamo oggi, non saremmo seri verso la politica” (Matteo Renzi: “Chi ha portato il Paese fuori dalla crisi, ha un nome e cognome: Partito Democratico”, “partitodemocratico.it”, 29 ottobre 2017).

Ma è “davvero merito del governo e delle politiche di Renzi e Gentiloni come va battendo la grancassa dem? La risposta degli addetti ai lavori è un 'ni': le misure dell'esecutivo hanno avuto il loro ruolo ma il risultato va diviso in quota parte con altri fattori. Primo tra tutti la Bce di Mario Draghi, che ha avuto effetti positivi su tutto il vecchio Continente. Non solo” - spiega Francesco Daveri de LaVoce.info - perché ‘ha fatto ripartire tutte le economie europee grazie al fatto che il costo del denaro è sceso e sono migliorati i bilanci delle banche’ ma anche perché ha avuto un ruolo di ‘rassicurazione’: ‘Quello che è stato importante – osserva - sono state le famose parole di Draghi del 2012 quando disse che avrebbe fatto quel che serviva per preservare la zona euro’" (Barbara Acquaviti, Una ripresa economica con molti padri. Quattro economisti rispondono all'HuffPost, “Huffington Post”, 9 agosto 2017). Secondo l’economista Daniel Gros, bisogna attribuire una parte dei meriti anche a Mario Monti: “’La base – osserva - è stata gettata negli anni precedenti con l'austerità e si sa che l'austerità ha un prezzo a breve termine ma a lungo termine aiuta perché c'è una domanda che prima diventa più debole ma poi ritorna. Naturalmente quello che è cambiato è che tutta l'Europa sta crescendo di più per cui l'Italia adesso si trova a traino di un'Europa più veloce e sta beneficiando anche di questo’. Un punto di vista su cui Daveri concorda. ‘E' chiaro – rimarca - che il governo Renzi ha potuto fare politiche fiscali più espansive ma ha anche capitalizzato sulle politiche restrittive dei governi passati. E' stato grazie al fatto che erano salite le tasse così tanto che ha potuto ridurle senza mandare il deficit di nuovo sopra al 3% quindi una quota parte va riconosciuta al governo Monti’" (Ibidem). Ma, secondo Daveri, ora “c'è il rischio che i partiti decidano di spartirsi le spoglie della crescita". "Mi riferisco – sottolinea - soprattutto alle promesse elettorali che possono fare. Sarebbe opportuno che non si mettessero a fare promesse insostenibili" (Ibidem).

L’unico vero punto debole del nuovo andamento economico è il lavoro: “La disoccupazione resta sopra l’11%. Rispetto al picco occupazionale registrato nell’aprile 2008 sono stati distrutti 1 milione e 51 mila posti di lavoro; ne sono stati creati 995 mila alle dipendenze, anche grazie agli incentivi governativi, ma si sono persi altri 157 mila lavoratori indipendenti. A mano a mano che gli sconti sui contributi sociali si riducono, diminuiscono le assunzioni a tempo indeterminato. Bisognerà vedere quanti posti di lavoro flessibili verranno generati dalla ripresa della domanda interna e a che punto si arresterà il collasso di artigiani, bottegai, professionisti, falcidiati dalla recessione. Interrogativi per ora senza risposta che non hanno, evidentemente, un significato solo economico. Le tensioni sociali e la loro ricaduta politica hanno il loro brodo di coltura proprio nella irrisolta questione del lavoro” (Stefano Cingolani, La ripresa economica dell'Italia, spiegata bene, “Panorama”, 16 agosto 2017).

La retorica della rinascita di Matteo Renzi

Un merito indubbio di Matteo Renzi è stata l’inversione di tendenza nel dibattito pubblico, dalla retorica del declino alla retorica della rinascita dell’Italia, della rottamazione, dell’orgoglio a tratti eccessivo. La delicata fase di passaggio dalla dimensione locale a quella nazionale è stata descritta nel libro Il seduttore. Matteo Renzi da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi (Barbera Editore, 2014). A ripercorrere le principali tappe dell’ascesa del leader del centrosinistra italiano ed ex presidente del Consiglio, gli autori Simona Poli e Massimo Vanni, che per anni hanno seguito Renzi per il quotidiano “La Repubblica”, prima che divenisse premier.

Nell’introduzione, firmata dal politologo Roberto D’Alimonte, si spiega che “sbaglia chi crede che ci sia un Renzi prima e dopo quell’intervista a Repubblica (in cui per la prima volta, nel 2010, lanciò il progetto di ‘rottamazione’ della vecchia partitocrazia, NdR). Uno dei meriti del ritratto che ne fanno in questo pamphlet Simona Poli e Massimo Vanni è proprio quello di mettere in luce che la carica da innovatore iconoclasta del sindaco di Firenze è il suo tratto distintivo da sempre. Fin dai suoi esordi sulla scena politica fiorentina Renzi si è posto contro il pensiero politico dominante, contro gli equilibri e i riti politici convenzionali, contro l’estabilishment del suo partito, contro i dogmi dell’ideologia di sinistra, contro il vecchio modo di comunicare” (Il seduttore..., cit., p. 6). Rispetto ai governi Monti e Letta, Renzi si è anche opposto al rapporto subalterno dell’Italia rispetto alle istituzioni europee, cercando di contrattare condizioni migliori a Bruxelles anziché accettare passivamente le riforme di austerità come è stato fatto in precedenza. Il progetto ambizioso di Renzi di rottamazione non solo della classe dirigente italiana, ma in parte anche di quella europea, è naufragata con la sconfitta al referendum costituzionale: "Renzi è stato per tre anni il centro di gravità della politica italiana. Su di lui si sono costruite speranze, alleanze, timori e ostilità, equilibri di potere e assi di opposizione. Lo schema già sperimentato con Berlusconi, ma in tempo di tripolarismo, e quindi con maggiori rischi per il più diretto interessato. Renzi lo sapeva, e non per caso il suo primo atto da segretario fu il patto del Nazareno. Una doppia maggioranza, quella di governo e l'altra più ampia per le riforme, ma anche due patti leonini, con i transfughi del Nuovo Centro Destra e con il Cavaliere ineleggibile. Fin quando questo schema a doppia geometria ha retto Renzi è stato il dominus indiscusso”, osserva il giornalista Enrico Mentana. La grande vittoria alle elezioni europee del 2014 aveva illuso Renzi di “poter fare a meno di tutti: impose Mattarella al Quirinale, scaricò Berlusconi, imbarcò Verdini per blindare una maggioranza meno presentabile ma tutta sua, accelerò sulla renzianizzazione del partito e cercò di imporsi come uomo nuovo anche sulla scena europea. Così in un colpo solo ruppe con l'elettorato di destra, fece ricompattare Berlusconi e Salvini-Meloni, diede nuovi argomenti all'artiglieria critica grillina, eccitò la minoranza interna e si chiamò a bersaglio degli eurofobici" (L'analisi di Mentana: perché Renzi ha perso, “Adnkronos”, 9 dicembre 2016).
La ripresa economica ancora debole e non percepita in maniera diffusa dalla popolazione (a dispetto di una retorica renziana esageratamente ottimista), i risultati contraddittori delle riforme del lavoro, i crac bancari, la riforma della scuola furono le questioni maggiormente problematiche che portarono alla vittoria del “no” al referendum, divenendo un voto non solo sulle riforme costituzionali, ma anche e soprattutto sulla figura di Renzi. Un anno dopo il referendum, i segnali economici positivi sotto il governo Renzi furono consolidati con il governo Gentiloni, ma la sfiducia, il rancore e la nostalgia albergano ancora in buona parte nell’elettorato italiano. La vera sfida è trasformare questi sentimenti in spinte propulsive per il sistema economico, per consolidare i risultati ottenuti finora.

 Uno sguardo al futuro

Non a caso, il discorso di fine anno del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è stato incentrato sui giovani e sul futuro, confidando in una larga partecipazione al voto dei ragazzi nati nel 1999. Facendo un parallelismo con i giovani nati un secolo prima, nel 1899, che combatterono nelle trincee durante la Prima Guerra Mondiale, Mattarella fa notare come l’Italia e l’Europa stiano godendo di un lungo periodo di pace. Secondo Mattarella: “Non possiamo vivere nella trappola di un eterno presente, quasi in una sospensione del tempo, che ignora il passato e oscura l'avvenire, così deformando il rapporto con la realtà.
La democrazia vive di impegno nel presente, ma si alimenta di memoria e di visione del futuro. Occorre preparare il domani. Interpretare, e comprendere, le cose nuove […] L'orizzonte del futuro costituisce, quindi, il vero oggetto dell'imminente confronto elettorale” (Messaggio di fine anno del presidente della Repubblica, “Quirinale.it”, 31 dicembre 2017). Mattarella afferma che l’Italia che lui conosce è un paese generoso e solidale, smentendo l’immagine di un popolo rancoroso e vittima della nostalgia e del risentimento, così come evidenziato dall’Istat.