Il Postumanesimo e il ruolo centrale della tecnologia

Il postumanesimo e la dialettica con il mondo

Nel suo libro intitolato “Post-human”, Roberto Marchesini esprime l’atteggiamento tipico dei pensatori postumanisti nei confronti della tecnologia motivando la fiducia accordata a essa, in opposizione al conservatorismo tipico di chi vede nel passato naturale una sorta di esempio mitologico a cui fare ritorno. “Atteggiamenti luddisti e incapacità di leggere correttamente i benefici apportati dalla conoscenza tecnoscientifica caratterizzano questa tradizione” (pag.86). Ma al contempo l’autore esprime anche una critica a chi, viceversa, “legge la natura come una matrigna da soggiogare, e forse uccidere, e interpreta l’uomo attraverso un modello di solipsismo, ritiene che tutto ciò che è frutto della rielaborazione umana sia preferibile e soprattutto sia più consono ai bisogni stessi dell’uomo. Questo sciovinismo tecnologico non permette di apprezzare l’importanza del referente non-umano nella realizzazione stessa dell’umano”. Ciò significa che sul discorso tecnologico ad ampia accezione la posizione postumanista prende le distanze da estremi conservatori tanto quanto dall’entusiasmo utilitarista tipico delle correnti transumaniste.

Nuove dicotomie

Per quanto invece riguarda i discorsi sull’intelligenza artificiale, l’approccio postumanista si fonda su una concezione che non può affidare le proprie sorti al dualismo umanista di matrice cartesiana che invece sostiene alcune delle più popolari proposte teoriche transumaniste e che più in generale è stato il riferimento primario della maggior parte dei discorsi in materia di intelligenza artificiale. La necessità di superare l’ancora popolare modello dicotomico ha motivato la ricerca di referenti teorici diversi. In questi termini ciò può essere riassunto riportando le parole di Marchesini quando dice che: “La rivoluzione informatica ha di fatto introdotto una nuova dicotomia fra le cosiddette intelligenze artificiali e le intelligenze biologiche, due pertinenze <<cognitive>> diverse che, secondo alcuni studiosi, si distinguono solo per il fatto di girare su sostrati differenti, mentre per altri sono due entità completamente differenti e di certo non sovrapponibili. Il mio punto di vista varia leggermente rispetto a queste due ipotesi e può essere illustrato come segue: mentre un’intelligenza biologica struttura su più livelli la propria competenza performativa, tale da risultare una sorta di frattale  in cui la dimensione inferiore sostiene e motiva quella superiore, le intelligenze artificiali che ci è dato conoscere fino a oggi – dalla macchina di Turing alle tradizionali architetture di von Neumann, dalle reti neurali agli algoritmi generici – non possiedono che pochi livelli. Vale a dire che l’intelligenza artificiale può essere usata oggi per esemplificare alcune caratteristiche dell’intelligenza biologica, ma non per riprodurne in toto le qualità. E questo non tanto per insufficiente carico di complessità tecnologica, quanto per il fatto che ci troviamo di fronte a due entità distinte” (pag. 87).

In sostanza dunque, per Marchesini la differenza fondamentale che rende l’intelligenza artificiale un’impresa estremamente ardua, nei termini di emulazione di quella umana, e allo stato attuale di disponibilità delle risorse, consiste nel fatto che la mente biologica agisce su molteplici livelli semantici diversi, stratificati attraverso un processo perpetuo di adattamento selettivo che è tipico delle entità che consideriamo vive. Oltre che rendere la creazione di un’intelligenza artificiale genuina molto più complessa di quanto ci si potrebbe aspettare, le critiche di Marchesini sono rivolte anche all’ambizione di certi pensatori transumanisti di poter un giorno copiare il “codice” della mente umana per poterlo riversare su un supporto più efficiente.

Anche il filosofo contemporaneo John Haugeland è dell’idea che la differenza tra un’intelligenza biologica e una sintetica sia di tipo qualitativo, e non quantitativo. Per spiegare la sua posizione, nel libro intitolato “Intelligenze Artificiali” Haugeland fa uso di un’efficace metafora. Egli infatti paragona il funzionamento dei due tipi di intelligenza a un mucchietto di sabbia nel caso dell’intelligenza biologica, e a una pila di fiche da gioco per quanto riguarda quella artificiale. Il contesto è quello di un ipotetico gioco di carte, dove i due riferimenti metaforici rappresentano le puntate al gioco: “un volume di sabbia non può mai essere misurato con precisione: c’è sempre un piccolo errore in ogni posta”, mentre al contrario, nel caso delle fiche da gioco, “piccole imperfezioni non hanno influenza sul valore dei gettoni” (pag. 57). Ciò vuole dire che la comunicazione e la traducibilità da un sistema formale all’altro è resa possibile dal fatto che il messaggio, discreto, si sposta da un sistema all’altro senza dover tenere conto delle variabili esterne e delle variazioni interne dalle quali invece le intelligenze biologiche sono influenzate in maniere spesso imprevedibili. Se il messaggio non cambia non è importante il sostrato su cui viene innestato perché, citando nuovamente Haugeland, “i sistemi formali sono chiusi in se stessi o autocontenuti: il mondo esterno (tutto ciò che non è contenuto nella posizione attuale) è irrilevante in senso stretto” (pag. 50).

Le teorie postumaniste sulla sostanziale differenza tra entità vive e sintetiche sono supportate da studi di tipo anti-deterministici che guardano alla vita e all’intelligenza come fenomeni emergenti i cui comportamenti non sempre possono essere ricondotti a una regola rigida e formale, o a una norma. Tra questi sicuramente uno dei più rilevanti è quello condotto dal neuroscienziato Antonio Damasio che ha portato alla stesura di volumi centrali per le teorie postumaniste come “L’Errore di Cartesio” ed “Emozione e Coscienza”.

Contro il modello istruzionista

Il punto fondamentale è che sarebbe riduttivo interpretare l’intelligenza come unicamente informata da ciò che la definisce in termini biologici, ossia il codice genetico. A dimostrazione di ciò basti pensare a cosa succederebbe a un bambino se venisse cresciuto senza contatti di tipo sociale. Solo per fare un esempio non imparerebbe mai a parlare una qualsiasi lingua strutturata, aspetto che peraltro è centrale anche nei discorsi sull’intelligenza artificiale. In quel caso i geni potrebbero fare ben poco, e il bambino non svilupperebbe mai le connessioni necessarie per comunicare verbalmente in maniera efficace con altri esseri umani. D’altro canto, continua Marchesini, “un modello esclusivamente istruzionista si caratterizza per il tentativo (o la pretesa) di interpretare la struttura e la performatività di un ente o di un processo – sia esso un fenomeno naturale o artificiale, una macchina o un organismo – nel suo sviluppo (prospettiva diacronica) come nel suo funzionamento (prospettiva sincronica), a seconda della quantità di informazione in possesso. […] nell’interpretazione istruzionista non c’è differenza tra informazione di partenza e struttura/funzione realizzata, ovvero c’è piena identità tra ente/processo e una sua eventuale traduzione in informazione. In ogni momento possiamo operare una piena conversione tra i due stati e nello stesso tempo possiamo prescindere dal substrato. L’esempio più eclatante ce lo offre Norbert Wiener quando afferma che, una volta conosciuta <<la ricetta>> ovvero il complesso di istruzioni che codificano un particolare individuo, diventa possibile teletrasportarlo lungo i fili del telegrafo” (pp. 88-89). Quindi parlare di intelligenza come di un codice identificabile, e per tanto replicabile e duplicabile, come ritenuto possibile da Wiener, o in tempi più recenti da Hans Moravec nella sua opera intitolata The Mind Children. The Future of Robots and Human Intelligence dove immagina di uploadare la coscienza di un uomo su una macchina, sarebbe secondo Marchesini una forma di riduzionismo concettuale che non ci dice molto su come la mente funzioni realmente, ma che al contrario ci può indurre a considerare ipotesi senza fondamento come buone. Se al contrario ci riferiamo all’intelligenza come al frutto del lavoro, avvenuto nel corso di centinaia di migliaia di anni, della pressione selettiva ambientale possiamo da un lato capire che l’essere umano non è il centro dell’universo ma una specie che ha una distanza genetica dalle più prossime tra le altre specie inferiore a 2%. Ma dall’altro ciò assegna agli oggetti tecnici un ruolo diverso da quello di strumento di emancipazione da una condizione biologica ritenuta svantaggiata.

Per un’ontologia condivisa

Partendo da una fondamentale critica all’antropocentrismo delle correnti di pensiero umaniste, il postumanesimo si muove nella scia di quei movimenti, come quelli femministi, post-colonialisti e anti razzisti, dai quali è partito il processo di decostruzione del soggetto umano come unico attore della storia. Tale apertura paradigmatica genera importanti implicazioni anche in merito alla considerazione degli oggetti tecnici/tecnologici. Più in generale, sostiene Francesca Ferrando in un documento pubblicato su “Academia.edu” con il titolo Posthumanism, Transhumanism, Antihumanism, Metahumanism, and New Materialism. Differences and Relations [Postumanesimo, transumanesimo, antiumanesimo, metaumanesimo, e nuovo materialismo. Differenze e relazioni, TdR], il postumanesimo è post-centralizzante, nel senso che riconosce l’esistenza di molteplici centri di interesse ai quali accostarsi in prospettiva analitica. Uno di questi è certamente identificabile come il mondo dei dispositivi tecnologici. Se, come sostiene la stessa Ferrando, postumanesimo e transumanesimo condividono un interesse comune nei confronti della tecnologia, ciò che è notevolmente discostante è l’approccio storico-ontologico da cui le due correnti di pensiero prendono le mosse. Perciò da un lato il mondo della tecnologia non viene a essere l’unico riferimento concettuale e argomento di interesse, come avviene in seno ad alcune posizioni transumaniste, dove sugli oggetti tecnologici viene calata, ad avviso dell’autrice, un’aura quasi divina, al punto da considerare tali risorse come “una fonte esterna la quale potrebbe garantire all’uomo un posto nel futuro post-biologico” (TdR). Né d’altro canto ci si può riferire alla tecnologia come fosse il reame di ciò che è totalmente altro dall’uomo, e magari pericoloso per quest’ultimo. Non dobbiamo lasciarci prendere la mano, sostiene Ferrando, da paure di stampo neo-luddiste, perché esse nasconderebbero il reale contributo che la tecnologia apporta al nostro modo di vivere.

Secondo l’autrice si può però dire che postumanesimo e transumanesimo condividano la nozione di tecno-genesi, ossia del potenziale poietico insito nelle entità non biologiche. Dal lato transumanista ci troviamo a confrontarci con la tendenza a un riduzionismo tecnologico e tecno-centrico, ossia a guardare alla tecnologia come strumento e in qualche modo fine ultimo e superiore. La prospettiva postumanista invece si propone di indagare gli aspetti ontologici all’origine dei possibili fraintendimenti. “La tecnologia è un tratto dell’equipaggiamento umano. Più di un attrezzo funzionale per ottenere (energia; tecnologia più sofisticata; o addirittura l’immortalità)”. Optare per una revisione ontologica del ruolo degli oggetti tecnici significa entrare in contrasto con la visione dominante “dove la tecnologia è stata per lo più ridotta al suo sforzo tecnico”.

Troviamo un riscontro alle tesi appena espresse anche nell’opera di un filosofo francese del tardo Novecento, Gilbert Simondon. Nel saggio scritto per la rivista filosofica “AUTAUT” con il titolo Salire Sulle Proprie Spalle? Simondon e la Trasduttività dell’Ordine Reale, Fabio Minazzi analizza il contributo che la filosofia simondoniana può apportare al dibattito sulla natura degli oggetti tecnici. Infatti, secondo il pensatore francese, la cultura dovrebbe dimostrarsi in grado di incorporare gli oggetti tecnici sia in termini di conoscenza che di valore. La contrapposizione tra cultura e tecnica, sostiene Simondon nel suo lavoro intitolato Du mode d’existence des objets techniques [Sulle modalità d’esistenza degli oggetti tecnici, TdR], “dietro un superficiale umanesimo, occulta una realtà ricca di spunti umani e di forze naturali che costituiscono il mondo degli oggetti tecnici, quali elementi di mediazione tra la natura e l’uomo”. Invece, essendo stato tradizionalmente subordinato al lavoro, “l’oggetto tecnico è stato […] pensato e giudicato come uno strumento, che aiuta, o come un prodotto del lavoro. Al contrario, per favorire l’uomo stesso, bisognerebbe invece poter operare un ribaltamento che consenta alla componente umana presente entro l’oggetto tecnico di mostrarsi direttamente, senza più passare attraverso la mediazione del lavoro. Semmai è proprio il lavoro che deve essere compreso come una fase della tecnicità” (pag. 9). Il filosofo francese identifica nella crisi della ragione di tradizione kantiana il motivo principale per cui si sarebbe persa la valenza culturale e poietica degli oggetti tecnici, lasciando campo aperto alle concezioni di tipo strumentale e utilitaristico. Secondo Simondon dunque non dovremmo fare altro che recuperare un tipo di insegnamento che nel tempo si è sbiadito lasciando spazio ad altri paradigmi. Come riporta Minazzi, dovremmo dunque tornare a quei “classici che già avevano insistito sulla natura culturale degli oggetti tecnici […], proprio perché nell’agire tecnico è sempre presente una componente di ‘intelligenza’, di ‘astuzia’ con la quale l’uomo riesce a ‘comandare’ alla natura rispettandone le leggi […]. Questa è l’emergenza specifica della tecnica – e quindi anche dello stesso homo faber, o zôon technikon – che, con il suo agire tecnologico, costruisce l’arredo del suo mondo” (pag. 115). Attraverso la sua emergenza come peculiarità della specie umana, la tecnica contribuisce a plasmare l’essere umano e il suo modo di vivere. Essa fa parte della rete fondamentale delle relazioni umane, e ciò in passato ci ha permesso di porci in maniera efficace nei confronti del mondo (fino al punto di sottometterlo alla nostra volontà) approntando una quantità enorme di soluzioni tecniche diverse ai problemi. Il fatto di aver contribuito a plasmarci come specie significa che è alla proficuità delle nostre relazioni con l’alterità tecnologica che dobbiamo il fatto di essere riusciti a sviluppare civiltà dotate di agricoltura e manifattura. Guardare al futuro da una prospettiva di questo tipo invece ci può far immaginare scenari dove la fusione tra biologico e tecnologico, anziché essere una relazione strumentale, sia fondamentalmente una questione esistenziale. Solo così potremo liberarci del retaggio umanista e farci trovare pronti per l’avvento dell’era postumana.

Guglielmo Papagni, I giugno 2017