Una società va valutata sulla base della situazione dei più svantaggiati

Opportunity

Philippe Van Parijs, filosofo, economista e giurista belga, tra i principali sostenitori della proposta di introduzione di un reddito di base, in un’intervista pubblicata su “Alfabeta2”, intitolata Sul reddito di base incondizionato (29 marzo 2014), afferma la necessità di considerare i desideri di ciascuno nel realizzare ciò che rappresenta, secondo le sue soggettive preferenze, una vita buona. È necessaria – afferma Van Parijs - una “uguale preoccupazione per gli interessi di ciascuno (la dimensione ugualitaria) e uguale rispetto per le differenti concezioni della vita buona (la dimensione liberale), senza perfezionismi antiliberali, favorevoli a una vita di lavoro”.

L'argomento di Van Parijs è ben riportato nel testo, evidentemente da egli ispirato, di Corrado Del Bò, ricercatore presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Milano, ed Emanuele Murra, Hoover Fellow presso la Chair Hoover d'éthique économique et sociale dell’Université Catholique de Louvain in Belgio, Per un reddito di cittadinanza. Perché dare soldi a Homer Simpson e ad altri fannulloni (goWare, 2014): “Nella prospettiva di Van Parijs la società che rende i propri membri massimamente liberi si delinea allora come una società nella quale: 1) esiste una salda struttura di diritti (security) che proteggono le persone dall'uso arbitrario della forza; 2) ciascuna persona è proprietaria di se stessa (self-ownership); 3) ha la più alta opportunità di fare quello che potrebbe voler fare (opportunity). Mentre in relazione a 1) e 2) le persone son in una situazione di eguaglianza (sono cioè egualmente protette dalla forza altrui ed egualmente proprietarie di se stese), per 3) vale il criterio di leximin)”. Con l’espressione “leximin” si intende la massimizzazione delle condizioni di vita per le fasce sociali più deboli, a patto di non creare loro alcun danno. Una volta attuata per gli ultimi, si attuerà anche la massimizzazione delle condizioni dei penultimi e così via. Questo concetto potrebbe essere la chiave per creare la maggiore uguaglianza possibile nella società e la migliore allocazione possibile delle risorse  “Una società va valutata sulla base della situazione dei più svantaggiati comparata con quella dei più svantaggiati di qualsiasi altra società [...] b) nel caso in cui i più svantaggiati di due differenti società stiano egualmente bene, occorre guardare alla situazione dei secondi più svantaggiati, in caso di ulteriore parità alla situazione dei terzi più svantaggiati e così via (uno svantaggio che Van Parijs misura in termini di libertà reale)”.

Non si tratta di sfruttamento

Le critiche che l'impostazione di Van Parijs ha ricevuto riguardano la possibilità che si offre a coloro che non vogliono lavorare di essere sostentati da chi, invece, lavora. Si configurerebbe così una sorta di sfruttamento a scapito di questi ultimi. Italo Nobile riassume così la difesa a quest’accusa: “Ph.Van Parijs tenta di rispondere a tale obiezione dicendo che, se si presuppone da un lato che lo Stato debba rimanere neutrale rispetto alle varie concezioni del bene adottate dai propri cittadini e, dall’altro, che tutti abbiano diritto ad una eguale quota di risorse esterne per il perseguimento della concezione del bene favorita, si deduce, partendo dalla considerazione che il lavoro è una risorsa esterna sempre più scarsa, che la sua appropriazione vada vincolata e che occorre suddividere tra tutti le rendite di posizione di cui gode chi si è impossessato di un 'posto di lavoro'. Van Parijs aggiunge che il principio cosiddetto 'dello sforzo forte', per cui ognuno ha diritto ad un reddito strettamente proporzionale al proprio sforzo produttivo, ammette le ineguaglianze frutto della sorte bruta ed è perciò moralmente arbitrario (ad es. uno potrebbe avere una terra più fertile dell'altro o più capacità innate di un altro). Per questo, egli ritiene più attraente un principio 'dello sforzo debole' che stabilisca un legame positivo (ma non una corrispondenza diretta) tra reddito e sforzo produttivo e consenta perciò l’istituzione di un reddito di base che comunque sia inferiore al reddito da lavoro” Italo Nobile, Oltre il lavoro salariato: il reddito di cittadinanza tra utopia e realtà, “Crisi e conflitti”, 2006, pp.21-22).

Oltre a riportare le argometazioni di Van Parijs e la rielaborazione di De Bò, Nobile esprime, nelle stesso testo, le sue opinioni a riguardo: “Non è un caso che l’allungamento di fatto dell’orario di lavoro ad ogni latitudine sia uno dei fattori che perpetuano gli alti tassi di disoccupazione degli ultimi decenni […]. Poche sono le alternative a questo punto: o i disoccupati premeranno sul mercato del lavoro, accettando la logica della precarizzazione, assolvendo la loro funzione strumentale di esercito industriale di riserva ed alla fine indebolendo la forza contrattuale degli occupati, oppure essi cominceranno a rivendicare la centralità sociale dei bisogni, favorendo indirettamente anche gli occupati che presto o tardi dovranno anch’essi confrontarsi con l’allentamento delle rigidità in uscita dal mercato del lavoro” .

Sul concetto di sfruttamento Nobile continua: “un concetto che si può contrapporre a quello ordinario di sfruttamento è quello per cui dei bisogni primari debbano essere soddisfatti da ciascun individuo quale che sia il suo contributo riconosciuto alla società, per cui si può dire che sin quando non si esce dalla soddisfazione di tali bisogni primari, quello che soggettivamente viene chiamato sfruttamento è una redistribuzione strategicamente ed eticamente prioritaria rispetto ad una presunta appropriazione dei frutti del proprio lavoro, frutti che non sono assolutamente quantificabili in maniera oggettiva nei singoli casi individuali, ma che si possono solo valutare alla luce del lavoro sociale complessivo. Infatti (e questo viene teorizzato più compiutamente, come vedremo, dai teorici dell’antagonismo) una cosa è la proprietà di sé, un'altra la proprietà sui cosiddetti 'frutti del proprio lavoro', che nella moderna società sono sempre più difficilmente definibili (una cosa è piantare fagioli nel proprio giardino, un’altra essere operaio o impiegato di una grossa azienda, ed in quest'ultimo caso le relazioni di causa ed effetto sono più complesse)”

Nobile ribatte anche al principio di reciprocità, secondo il quale ogni individuo che vive in società, per ricevere vantaggi da essa, deve contrbuirne: “il principio di reciprocità riformulato da White sarebbe plausibile se e solo se l'organizzazione del lavoro e la composizione organica di capitale fosse decisa coscientemente dalla collettività sociale e terminasse la fase in cui la domanda di lavoro fosse gestita da centri decisionali individuabili attraverso la proprietà privata dei mezzi di produzione. Inoltre il tempo di lavoro dovrebbe essere modulabile temporalmente in maniera libera e duttile quanto si vuole (orari, modalità etc.) ; qualsiasi rigidità dell'offerta dei posti di lavoro sarebbe infatti in contrasto col diritto dell'individuo di offrire la quantità di lavoro che vuole in cambio della corrispondente quota di beni sociali e la reciprocità sarebbe così impossibile”, Inoltre, “la partecipazione sociale se non è assicurata dal reddito minimo non è neanche data dal lavoro salariato. Non è detto che il lavoro salariato e adeguato sia una forma di partecipazione alla vita della comunità, se non in forma alienata e patologica. Parlare del lavoro come legame universale e astratto, nasconde l'esistenza del carattere alienato del lavoro, carattere alienato che non lo può rendere legame universale di cittadinanza.[…]. Impedire a tutti i costi l'espulsione dal mercato del lavoro presuppone che l'unica forma di lavoro possibile è quella storicamente determinata del lavoro salariato. Il fatto che è il lavoro il mezzo per l'inclusione sociale è un dato, ma i critici del reddito di cittadinanza non ci fanno capire se questa sia una situazione condivisibile o meno. In realtà il fatto che il lavoro alienato venga riconosciuto come requisito della cittadinanza è l'effetto ultimo di quell'alienazione sociale che va combattuta anche attraverso il reddito di base”. (I. Nobile, Oltre il lavoro salariato...cit., pp. 25-26).

Il reddito di cittadinanza come ricompensa per il non utilizzo delle risorse naturali

Corrado Del Bò si sofferma, in altre occasioni, sulla giustificazione etico-politica del reddito di cittadinanza espressa da Van Parijs su basi filosofiche. Nell’articolo Il reddito di base e l’obiezione dello sfruttamento. Due vie liberali, pubblicato sul sito della sezione italiana della Basic Income Network (Rete per il reddito di base) “bin-italia.org” (consultato il 16 Giugno 2015), l'autore esprime l’argomento secondo cui dal concetto di appropriazione segue una necessità di giustizia che si esprime nella distribuzione del reddito. La tesi si richiama al libertarismo egualitario di John Locke: “Come può divenire proprietà privata quello che in origine era in comune a tutti? La soluzione di Locke è nota: io lavoro su una risorsa (raccolgo prugne, bacche ecc., oppure lavoro la terra), mischio il mio lavoro con queste risorse e dunque queste risorse diventano parte di me; e se rispetto l'ulteriore condizione che il mio atto di appropriazione ha lasciato risorse a sufficienza e di altrettanto buone per gli altri, ecco che ho giustificato la proprietà privata (non fatevi ingannare da questa ulteriore condizione; in realtà in Locke finiva per avere un impatto assai limitato). E tuttavia, partendo dalla medesima situazione di Locke, cioè da una situazione in cui non esistono istituzioni né società politica (all'epoca di Locke questa situazione veniva chiamata 'stato di natura'), possiamo giungere a esiti diversi rispetto a quelli di Locke; non è cioè detto che il passaggio dalla proprietà comune alla proprietà privata sia così semplice. Poniamoci il problema che si poneva Locke di quali sono le condizioni che possono giustificare un'appropriazione privata di risorse in origine in comune a tutti.

Questo problema che sembra naturalmente molto lontano dal 'qui ed ora' è in realtà un presupposto logico dell'attuale distribuzione della proprietà, nel senso che, ad esempio, la casa in cui vivo - mi è stata venduta da qualcuno che l'ha acquistata da qualcun altro, che a sua volta l'ha costruita, ma per averla costruita ha dovuto appropriarsi di quel pezzo di terra su cui la casa sorge e ha dovuto appropriarsi di tutte le risorse naturali grezze necessarie per la costruzione. Quindi noi, anche partendo da una situazione molto concreta della nostra vita quotidiana, vediamo che è possibile risalire al problema che i filosofi della politica chiamano appropriazione o acquisizione originaria; ed è questo il punto su cui si pone il problema di giustificare la proprietà. Se c'è una possibile giustificazione della proprietà, da un punto di vista che non sia meramente basato su considerazioni consequenzialiste (la proprietà privata garantisce benessere ecc.), è là che dobbiamo guardare. E allora l'idea - in estrema sintesi - è che qualsiasi appropriazione di risorse naturali grezze in origine proprietà comune, sulle quali dunque nessuna persona particolare in origine aveva titolo esclusivo, è possibile solo laddove le persone che vengono escluse da queste risorse ricevano in cambio qualcosa. In altre parole, se vale l'idea che le persone possono appropriarsi di risorse naturali grezze, questo richiede un'ulteriore condizione: che le persone che sono escluse da questa appropriazione e che avevano titolo ad accedere a queste risorse naturali grezze esattamente come le persone che effettivamente se ne sono appropriate, si vedano riconosciuto una compensazione o un risarcimento. Il reddito di base è questo risarcimento. Esso spetta a tutti, a quelli che lavorano come a quelli che non lavorano, poiché tanto i primi quanto i secondi sono esclusi dall'accesso a certe risorse naturali grezze”.

Come impostare il reddito di cittadinanza incondizionato per una società giusta

Sulla base dei ragionamenti di Italo Nobile e Corrado del Bò, Van Parijs intervistato da La Repubblica fa un passo avanti, sottolineando come la retribuzione non sempre corrisponda alla ricompensa per lo svolgimento di un lavoro utile, benché si dia per scontato il fatto che il mercato sia in grado di quantificarla. “Vendere armi o droga è molto ben retribuito sebbene sia socialmente nocivo, mentre attività preziose come assistere i propri genitori non danno diritto a nessuna paga. In questa prospettiva il reddito incondizionato sarebbe un grosso passo avanti perché, in qualche modo, retribuirebbe il contributo di ognuno alla società” (Philippe van Parijs: «Il vero basic income? È senza se e senza ma» , Riccardo Staglianò, La Repubblica, 6 marzo 2017). I sussidi tradizionali provocano, secondo Van Parijs, la cosiddetta “trappola della povertà”: se un povero tenta di uscire dalla sua condizione con lavori saltuari, il sussidio gli viene tolto. Oltretutto, “Accettare un lavoro ha anche altri costi nascosti, come doversi comprare vestiti migliori. E se durerà solo un mese, poi bisognerà richiedere un altro sussidio, con tutti i ritardi amministrativi che questo comporta. Se il reddito è universale, invece, tutte queste complicazioni spariscono” (Ibidem). Van Parjis cita l’esempio della Francia, nella quale “solo la metà di chi avrebbe diritto al Revenu de solidarité active lo prende. O perché non sa di averne diritto o per lo stigma associato al chiederlo, che equivale a dire sono povero, ho fallito e così via” (Ibidem). L’autore quantifica il reddito di cittadinanza come il 15% del PIL pro capite del paese esaminato, per l’Italia si tratterebbe di poco meno di 300 euro per tutti i cittadini a partire dalla maggiore età. Un possibile effetto collaterale di tale misura potrebbe essere la tendenza degli individui a rifiutare i lavori noiosi e ripetitivi, che però secondo Van Parjis saranno sostituiti in gran parte da robot e macchine. “Ma anche quelli che sopravviveranno, proprio per una riduzione dell’offerta, dovranno essere pagati meglio per convincere un umano ad accettarli” (Ibidem).

Una proposta a livello europeo: l’Eurodividendo

Philippe Van Parjis, in un’intervista al “Il Manifesto”, parla della progressiva divergenza tra crescita del PIL e disoccupazione: “Rispetto a trent’anni fa il Prodotto interno lordo è superiore, ma la disoccupazione è aumentata ancora di più. Sotto la spinta delle istituzioni internazionali, si continua a insistere su un progetto che crea enormi problemi etici e sociali. Bisogna dare più sicurezza sociale a tutti, partendo dai bisogni di ciascuno, superando l’idea della crescita a tutti i costi. Questo è l’unico modo per liberarsi del paradosso di Easterlin: la crescita del Pil non ci rende più felici. Per questo sono convinto che il reddito universale inteso come allocazione universale sia una soluzione”(Roberto Ciccarelli, Philippe Van Parijs e il nuovo universalismo europeo, Il Manifesto, 22 ottobre 2014). Van Parjis afferma che siano i mercati a dominare sugli assetti democratici degli stati, il cui welfare non potrà reggere senza un reddito di cittadinanza. Lo studioso propone un reddito di cittadinanza a livello europeo detto Eurodividendo: consisterebbe in una somma di 200 euro a testa per ciascun cittadino. “Lo si può finanziare con un’imposta sul valore aggiunto del 19% a livello europeo ed è modulabile sul costo della vita. Per i paesi ricchi non cambierebbe molto, però in paesi poveri come la Romania il reddito medio crescerebbe del 40%” (Ibidem). L’Eurodividendo permetterebbe all’Unione Europea di recuperare consenso tra i cittadini, creando una forma di welfare sovranazionale per riequilibrare il rapporto tra economia e giustizia sociale.

 

 

“Perchè pagare i surfisti di Malibù?”

Il filosofo John Rawls, in un contraddittorio dialettico con Van Parijs, dal titolo The priority of the right and ideas of the good, pubblicato in “Philosophy and public affairs” (Autunno 1988, Vol. 17, No.4), porta l'esempio dell'insostenibilità di un reddito garantito anche a coloro i quali scelgono di non lavorare ma, piuttosto, di praticare il surf a Malibù. L'equità sociale, a detta del filosofo, è garantita da un principio di reciprocità per cui ogni individuo che partecipa alla società riceve sussidi ma solo in cambio di servizi offerti ad essa. Sarebbe ingiusto che anche questi emblematici surfisti condividessero i beni della comunità: “questo principio di equità non si applica ai surfisti pigri, che prenderebbero 'ingiustamente' la loro parte senza contribuire” (TdR) (Il testo è riportato e commentato in Kristin Lawler, Radical: The image of the surfer and the politics of popular culture, ProQuest, UMI Dissertation Publishing, 11 maggio 2012, p. 315).

Secondo Stuart White, professore associato di scienze politiche all’Università di Oxford “l'introduzione di un reddito di base, consentendo alle persone di sottrarsi all'obbligo lavorativo, violerebbe il principio fondamentale del Welfare State che è l'obbligo di reciprocità. In cambio di un reddito minimo soddisfacente, ogni cittadino ha un corrispondente obbligo di soddisfare una ragionevole aspettativa di lavoro (a sua volta funzione della durata dell'attività lavorativa e delle differenze delle capacità produttive) ; chi non soddisfa questa aspettativa sfrutta quelli che la soddisfano, in quanto trae iniquo vantaggio dal loro lavoro. Secondo White gli individui hanno l'obbligo di offrire un contributo produttivo minimo in cambio della garanzia delle libertà civili fondamentali e della sicurezza economica” (Italo Nobile, Oltre il lavoro salariato: il reddito di cittadinanza tra utopia e realtà, “Crisi e conflitti”, 2006, p.22).

 

Sfruttamento dei lavoratori da parte di chi decide, pur potendo, di non lavorare

Le dure critiche, da parte libertaria, che provengono dal filosofo olandese Gijs Van Donselaar, professore di scienze sociali all’Università di Amsterdam, sono riportate da E. Murra nell'articolo Ragioni differenti per una proposta condivisa. Reddito di base e consenso per intersezione (“Centro Einaudi - Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica”, N.3 2014). Secondo Donselaar, “il basic income si configura come una vera e propria forma di sfruttamento dei lavoratori da parte di chi decide, pur potendo, di non lavorare; non sarebbe vero l’assunto per cui tutti gli uomini vanterebbero una legittima aspettativa al possesso di lotti di egual valore delle risorse naturali: essi avrebbero diritto solo a quelle risorse per cui hanno un interesse personale diretto, che nel linguaggio usato da Van Donselaar indica il diritto alle risorse che si vuole utilizzare direttamente allo scopo di ottenere le utilities necessarie all’esistenza”.

Per partecipare alla condivisione dei beni è necessario produrli

La critica di Stuart White, professore associato di scienze politiche all’Università di Oxford, esplicita la necessità della legge di reciprocità. Sottolinea che i beni prodotti dal lavoro, a differenza di quelli naturali, risultano da un processo di cooperazione tra i membri della società. L'argomento è così sintetizzato da Amilcar Moreira nel testo The Activation Dilemma: Reconciling the Fairness and Effectiveness of minimum income schemes in Europe (The Policy Press, 2008, p. 28): “questo richiede che tutti gli individui che vogliano condividere i benefici nella cooperazione sociale, hanno l'obbligo di dare un contributo produttivo” (TdR). Inoltre, come sintetizza Italo Nobile, il professor White critica l'argomento di Van Parijs affermando che “i posti di lavoro possono essere visti come risorse solo in forza dell'accesso che conferiscono ai benefici della cooperazione sociale e dunque, per avere accesso ad una quota di questi benefici, occorre offrire la propria disponibilità a contribuirvi” (Italo Nobile, Oltre il lavoro salariato...cit).

L’ingiustizia del reddito di cittadinanza a 5 Stelle

Il sociologo ed editorialista de “Il Sole 24 Ore”, Luca Ricolfi, considera il reddito di cittadinanza una delle parole chiave del dibattito politico del 2017, sdoganata sia dal candidato socialista alle elezioni presidenziali francesi Benoit Hamon sia dal Movimento 5 Stelle in Italia. Ricolfi evidenzia la confusione lessicale del Movimento 5 Stelle, che definisce erroneamente la propria proposta come “reddito di cittadinanza”. Il reddito di cittadinanza è “universale e incondizionato”, mentre il reddito minimo è “selettivo e condizionato”: esattamente in quest’ultima categoria rientra la misura del Movimento 5 Stelle. In ogni caso, argomenta Ricolfi, entrambe le misure sarebbero inique: “Il difetto del reddito di cittadinanza è che è ingiusto (surfista di Malibù), e diventa insostenibile appena la cifra erogata sale fino alla soglia di povertà o oltre. Il difetto del reddito minimo è che, per gestirlo, comporta un apparato efficiente, complesso e costoso e, nella versione Cinque Stelle, autorizza comportamenti opportunistici (lavorare diventa conveniente solo se si guadagna di più della soglia di povertà, al di sotto tanto vale incassare il sussidio e fare altro)” (Luca Ricolfi, Reddito di cittadinanza, mito e realtà, “Il Sole 24 Ore”, 27 dicembre 2016).

Le conseguenze negative sul mercato del lavoro

Lo storico e saggista Aldo Giannuli individua varie problematiche relative al reddito di cittadinanza, tra le quali la compatibilità di quest’ultimo con un reddito da lavoro basso. In entrambi i casi l’esito sarebbe negativo: da un lato, la proibizione a svolgere un altro lavoro porterebbe ad un aumento del lavoro nero. Dall’altro lato, consentire lo svolgimento di un lavoro mentre si percepisce il reddito di cittadinanza spingerebbe “idatori di lavoro a tenere bassi i salari e l’assegno avrebbe solo una funzione adattativa del lavoratore alle condizioni di sotto salario. Peggio ancora se il reddito statale fosse a tempo: nessun datore di lavoro accetterebbe di assumere il lavoratore integrandone il salario essendo molto più facile licenziarlo e trovare un altro dipendente che goda di un periodo di reddito garantito […] In ogni caso, il risultato sarebbe una ulteriore spinta al sotto salario, magari attraverso i voucher, spostando parte dell’onere adattativo sulle casse pubbliche”. (Aldo Giannuli, Perché no al reddito di cittadinanza, aldogiannuli.it, 3 gennaio 2017). Questa misura parrebbe “utile solo a far digerire il sistema di diseguaglianze che si è formato” (Ibidem). Giannuli evidenzia la contraddizione data dal pretendere “dai giovani lavoro senza retribuzione (fra stage, tempo di lavoro a scuola, volontariato ecc)”, nel contempo pensando di “dare un reddito in cambio di nessun lavoro che è comunque una forma di marginalizzazione delle nuove generazioni” (Ibidem).

Esiste davvero un nesso con la povertà?

Il professore di filosofia Raoul Kirchmayr interviene sul settimanale “L’Espresso”, affermando che non necessariamente il concetto di reddito di cittadinanza sia correlato con la povertà. Diffusasi negli ambienti accademici a partire dagli inizi degli anni 90, il reddito di cittadinanza apparve come idea “progressista, democratica ed inclusiva”, limitata solo dagli alti costi di implementazione. In verità, l’effettiva correlazione reddito di cittadinanza-povertà è emersa solo in seguito alla crisi del 2008, per tamponare le conseguenze della depressione economica sulle fasce sociali più deboli. “Ricostituendo il nesso povertà-reddito di cittadinanza, quale operazione è stata condotta? In primo luogo, per farlo diventare significativo occorre metterne in ombra un altro, cioè quello relativo al rapporto tra democrazia e lavoro, che innerva il dettato della nostra Costituzione.
In breve, il reddito di cittadinanza diventa il sostituto “cosmetico” del diritto al lavoro. In secondo luogo, si afferma che, stanti i vincoli di spesa pubblica, il reddito di cittadinanza non può essere introdotto se non come provvedimento d’emergenza, e dunque temporaneo. Per evitare che gli individui lo percepiscano come un diritto universale, quindi svincolato dalla contingenza del momento - leggi: la congiuntura economica - devono essere disciplinati attraverso un discorso di natura morale che si concreta in un obbligo al lavoro sottoretribuito. Il senso di questa incorniciatura è chiaro: al povero, che è tale perché escluso dal mercato del lavoro, può essere riconosciuto un diritto a reddito sussidiato solo se si piega a quella logica economica che ha fatto di lui ciò che è, cioè un povero. In questo circolo vizioso, il sostegno pubblico viene vincolato a una pedagogia moralizzatrice, alimentata dalla circolazione a senso unico di opinioni che consolidano, nella percezione collettiva, l’idea secondo la quale la povertà è una colpa”. (Raoul Kirchmayr, Il reddito di cittadinanza è una trappola contro i poveri, “L’Espresso”, 30 aprile 2017).

Solo la lotta alla disoccupazione può sconfiggere la povertà

Il giornalista Arturo Diaconale, direttore del giornale “L’Opinione delle Libertà”, vede il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle come un assistenzialismo “ampliato” e “generalizzato” che “non significa lotta vittoriosa alla povertà, ma solo certezza che la povertà viene stabilizzata, codificata ed estesa perennemente alle fasce più deboli della società con un aggravio insostenibile per quel ceto medio su cui ricadrebbe il maggior peso fiscale del finanziamento del reddito di cittadinanza” (Arturo Diaconale, Si muore di reddito di cittadinanza, L’Opinione delle Libertà, 18 marzo 2017). L’unico modo per sconfiggere la povertà è l’occupazione, che consente la ripresa della produzione e di conseguenza dei consumi.