La pena di morte è una sanzione utilizzata sin dalle origini dell’umanità come risposta ai crimini più efferati, sostenuta dal pensiero filosofico e religioso

La pena di morte è sempre stata sostenuta trasversalmente dal mondo religioso e filosofico. La sanzione massima garantiva infatti una risposta netta a chi trasgrediva la legge. Nell’antica Grecia, il filosofo Platone, affermava nell’ultima delle sue opere: “I responsabili di omicidi volontari devono necessariamente pagare la pena naturale cioè patire ciò che hanno fatto. La pena deve avere lo scopo di rendere migliore e se si dimostra che il delinquente è incurabile, la morte sarà per lui il minore dei mali”. (Platone, Le Leggi,).

Anche il cristianesimo ha sostenuto con forza la legittimità della pena di morte, seppur con pensieri contrastanti e di diverso tenore. San Tommaso ha influenzato molto l’intero mondo cristiano con la sua opinione favorevole: “Così come l’asportazione di un membro malato in molti casi permette al corpo di sopravvivere, se un uomo costituisce un pericolo per la comunità è lodevole e salutare metterlo a morte per salvare il bene comune.” (Tommaso D’Aquino, Summa Theologica, II-II, 64.2).

D’altronde la Bibbia parla favorevolmente della possibilità di togliere la vita ad un altro uomo, ma con le dovute eccezioni. Solo Dio può togliere la vita ad un essere umano o chi è stato investito da Dio di tal compito (le autorità).
Il fatto che la pena di morte sia rimasta negli ordinamenti della Città del Vaticano fino al 1969, quando fu formalmente abolita da Papa Paolo VI, è estremamente indicativo.

Nel 1992, in un paragrafo del nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, si affermava che “l’insegnamento tradizionale della chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte […] La pena ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole la pena ha valore di espiazione. Inoltre la pena ha valore medicinale: nella misura del possibile essa deve contribuire alla correzione del colpevole.” (Il nuovo catechismo della Chiesa Cattolica, art. 2266, consultato il 29 gennaio 2017).

Anche Papa Giovanni Paolo II, nella sua enciclica, lasciava aperta una porta a tale tipo di pena. Affermava infatti che nella chiesa c’è ormai la tendenza alla totale abolizione della pena di morte, anche se vi sono casi di assoluta necessità, nei quali si dimostra l’unica strada percorribile per la difesa della società. Precisava tuttavia che “questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, Piemme, 1995).

Nel giugno 2004, l'allora cardinale Joseph Ratzinger, futuro papa Benedetto XVI, inviò, in qualità di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, una lettera al cardinale Theodore Edgar McCarrick - arcivescovo di Washington - e all'arcivescovo Wilton Daniel Gregory - presidente della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti - nella quale affermava che si poteva far ricorso alla pena di morte. Un’apertura importante, che si concretizzava in queste parole: “[…] Può tuttavia essere consentito prendere le armi per respingere un aggressore, o fare ricorso alla pena capitale. Ci può essere una legittima diversità di opinione anche tra i cattolici sul fare la guerra e sull'applicare la pena di morte, non però in alcun modo riguardo all'aborto e all'eutanasia” (Joseph Ratzinger, nota inviata alla Conferenza episcopale americana, giugno 2004).

La maggioranza dei filosofi antichi giustifica la pena capitale, anche se spesso ha contestato l'uso spregiudicato che se ne faceva nel mondo greco-romano e orientale.

Tra Settecento e Ottocento, due dei più celebri filosofi del tempo, Kant e Hegel, intervennero esplicitamente a favore. Immanuel Kant sposò la teoria retributiva, identificando nella pena la funzione di rendere giustizia, assicurando la perfetta corrispondenza tra reato e castigo. Hegel fece un passo successivo, pur essendo d’accordo con la funzione retributiva, riconobbe il diritto di punire un essere umano con la morte, perché solo tale punizione può riscattare un uomo, considerato come essere razionale, che ha commesso certi crimini efferati.

Da un’altro punto di vista, inoltre, ai fini della giustificazione della pena di morte, si è fatto riferimento anche alle teorie evoluzionistiche di Darwin. La specie deve essere salvaguardata da individui ritenuti dannosi, come confermato da Cesare Lombroso. Il medico e antropologo pensava, in riferimento ai cosiddetti delinquenti nati, “che ogni trattamento rieducativo non avrebbe potuto avere alcun effetto contro l’atavica predisposizione al crimine” (Cesare Lombroso, L’Uomo criminale, 1876).

Lo stesso Cesare Beccaria che in “Dei delitti e delle pene”, contestò duramente la pena di morte, si lasciò andare a qualche importante apertura: “La morte di un cittadino non può credersi necessaria, che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza, che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di un cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi” (Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, 1764).

Friedrich Nietzsche si pose su un piano completamente diverso, criticando le idee dell’epoca e contestando il concetto di libero arbitrio e la funzione rieducativa della pena. Per il filosofo la morte del criminale era l’unico atto che poteva restituire dignità al suo gesto assolvendolo dalla colpa e liberandolo dall'umiliazione del pentimento, imposto dalla morale cristiana. “Per colui che soffre talmente di se stesso, non vi è redenzione, se non la rapida morte” (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra 1883).

Claudio Alessandro Colombrita, 20 marzo 2017

Il ricorso alla pena di morte non ha sempre goduto di un appoggio totale da parte di Chiesa, filosofi e pensatori. Anche nella Bibbia, infatti, si assiste ad una certa reticenza nei confronti dell’utilizzo di questa sanzione. Dio richiama spesso chi si serve di questa pratica con leggerezza, richiamando i giustizieri ad utilizzare pene calibrate e meno radicali e arrogando a sé la decisione sulla possibilità di privare della vita un essere umano. Egli vuole risparmiare anche la vita dello stesso Caino, che si era macchiato di un crimine efferato come l’uccisione del proprio fratello Abele. Matteo, Luca e Giovanni non fanno menzione, nei loro Vangeli, della pena di morte. Lattanzio, Tertulliano e S.Agostino la rifiutano fermamente.

I primi tre secoli di vita della Chiesa sono contrassegnati da un assoluto rifiuto della pena di morte, derivante dal rigetto di qualsiasi forma di violenza, dalla tortura all’obiezione di coscienza. Questo atteggiamento di chiusura, inoltre, deriva dalla volontà di mantenere il proprio potere innalzandolo rispetto a quello civile. La Chiesa rifiutava che un imperatore o un sovrano potessero decidere, da soli, di privare della vita un essere umano, senza l’intercessione di Dio.

Proprio Sant’Agostino fu uno di quelli che si oppose fermamente alla pena capitale con una frase particolarmente significativa: “Uccidere un uomo è in se stesso un male, se è vero che noi siamo tenuti ad amare il nostro prossimo come noi stessi” (Quella tesi non s’ha da fare “tempidifraternita.it”, consultato il 28 gennaio 2017).

Il filosofo e politico romano Lucio Anneo Seneca si esprimeva così: “Ma i costumi dei cittadini si correggono maggiormente con la moderazione nelle punizioni: il gran numero di delinquenti, infatti, crea l’abitudine di delinquere, e il marchio della pena risulta meno grave quando è attenuato dalla moltitudine delle condanne, e il rigore, quando è troppo frequente, perde la sua principale virtù curativa, che è quella di ispirare rispetto” (Seneca, De clementia, III, 20, 2).

Il filosofo inglese Jeremy Bentham, basandosi sulla concezione “la massima felicità per il maggior numero di persone”, ritiene che le finalità di una pena debbano essere le seguenti: impedire, per quanto possibile, tutti i reati; impedire il reato peggiore nel caso in cui il primo scopo non sia raggiunto; limitare il danno; agire con la minima spesa. Secondo un calcolo di pro e contro, infine, Bentham afferma che la pena di morte è inutile e dannosa perché è irreversibile e in caso di errore non si può più tornare indietro. Egli la ammette solo in casi straordinari come l’alto tradimento, la ribellione, l’incendio o l’omicidio di più persone (Jeremy Bentham, “filosofico.net”, consultato il 28 gennaio 2017).

Anche Nietzsche criticava alcuni profili della pena capitale: “Com’è che ogni esecuzione ci offende più di un omicidio? Èla freddezza dei giudici, sono i meticolosi preparativi, è il sapere che un uomo viene usato come un mezzo per spaventarne altri. Giacché la colpa non viene punita, se anche ce ne fosse una: questa è negli educatori, nei genitori, nell’ambiente, in noi, non nell’omicida – intendendo le circostanze determinanti.” (Umano, troppo Umano, Friedrich Nietzsche, consultato il 28 gennaio 2018).

Ma il pensatore che più condizionò l’epoca fu, senza dubbio, Cesare Beccaria con il suo Dei delitti e delle pene nel quale criticò lo Stato che, per punire un delitto, ne commetteva uno a sua volta. Si legge, ad esempio, nell’opera: “Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio” (Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, , 1764).

D'altra parte, la teologia ha più volte ribadito l'importanza del diritto alla vita come dono di Dio, che è l'unico ad avere il diritto di donarla e di toglierla.
La Chiesa cattolica è negli ultimi decenni in prima fila per chiedere l’abolizione della pena di morte. Giovanni Paolo II, durante la visita agli Stati Uniti, il 27 gennaio 1999, ha dichiarato: “La nuova evangelizzazione richiede ai discepoli di Cristo di essere incondizionatamente a favore della vita. La società moderna è in possesso dei mezzi per proteggersi, senza negare ai criminali la possibilità di redimersi. La pena di morte è crudele e non necessaria e questo vale anche per colui che ha fatto molto del male”.

Già dal 1967, in Città del Vaticano, la pena di morte venne sradicata da papa Paolo VI, tuttavia venne rimossa dalla Legge fondamentale solo il 12 febbraio 2001, su iniziativa di Giovanni Paolo II.
Il pontefice dell’epoca, nella sua enciclica, si era così espresso: “Il problema della pena di morte registra, nella Chiesa come nella società civile, una crescente tendenza che ne chiede un'applicazione assai limitata ed anzi una totale abolizione ... È chiaro che ... la misura e la qualità della pena devono essere attentamente valutate e decise, e non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell'organizzazione sempre più adeguata dell'istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Enciclica Evangelium vitae, Giovanni Paolo II, 1995).

L’immoralità della pena capitale fu sostenuta già dal 1977 dall’Osservatorio Romano.